Reportage dall’Etiopia. Addis is going contemporary
La capitale dell’Etiopia è una città sospesa fra tradizione e modernità, in cui la scena artistica sta vivendo un momento di grande fioritura. Con gallerie, centri, istituzioni culturali. E tanti giovani artisti intenzionati a farsi conoscere sulla scena globale.
Siamo nel Corno d’Africa, nella terra degli uomini “dai volti arsi” – gli “irreprensibili etiopi” di Omero, gli “uomini dalla lunga vita” di cui scrive Erodoto, i “più grandi e i più belli tra tutti gli uomini”. Siamo nella terra in cui nasce il Nilo Azzurro, considerata la culla dell’umanità perché qui fu ritrovato il primo frammento di ominide, la mitica Lucy, l’australopiteco di oltre 3 milioni di anni fa conosciuto ai più con il nome di una hit dei Beatles, ma che in amarico tutti chiamano “dinkinesh”, “sei meravigliosa”.
Oggi sono 102 milioni gli uomini che popolano questa terra, secondo Paese d’Africa per popolazione dopo la Nigeria. La sua capitale Addis Abeba – che vuol dire “nuovo fiore”, voluta dall’imperatrice Taytu, moglie di Menelik II – è una città cosmopolita e in pieno sviluppo, abitata da ottanta diverse nazionalità ed etnie, in cui convivono cristiani, musulmani, ebrei e animisti. Ed è il baricentro diplomatico del continente: qui hanno sede due pezzi da novanta come la Commissione delle Nazioni Unite per l’Africa e l’Unione Africana.
Addis è una città sospesa fra modernità e tradizione, che ha conosciuto le devastazioni durante la Seconda guerra mondiale, e che con l’imperatore Hailé Selassié, il carismatico Negus, ha vissuto un periodo di ricostruzione e rinnovamento. Ricca d’arte e di architettura religiosa – come del resto l’intero Paese, famoso per le chiese monolitiche scavate nella roccia a Lalibela, nel nord, le steli di Axum e tanto altro – oggi Addis vuole diventare contemporanea a passi da gigante. Nonostante la politica etiope non brilli per democrazia e per rispetto dei diritti umani, la spinta verso il cambiamento è forte, e anche l’arte sta facendo la sua parte.
LO SGUARDO DEGLI ARTISTI
Dawit Abebe è uno degli artisti etiopi del momento. Giovane e trendy, solo a guardarlo sembra dare tante risposte: maglietta e scarpe All Star, ma anche una grande croce d’argento al collo e l’immagine della Vergine attaccata alla parete del suo studio nel quartiere Arat Kilo. Quando lo incontriamo, ci dice che molti dei suoi quadri sono a Londra dalla sua gallerista Kristin Hjellegjerde, che ha incontrato su Facebook qualche anno fa e che gli ha permesso di essere incluso nella mostra Pangaea II: New Art From Africa and Latin America alla Saatchi Gallery di Londra nel 2015, e di vendere sue opere a Mr. Saatchi in persona. “Ormai siamo tutti ossessionati dall’Occidente, dalla tecnologia, da Facebook”, dice Dawit, “ma io voglio capire bene il mio Paese, ho un profondo interesse per la storia dell’Etiopia”. Tracce e frammenti di storia emergono sempre nei suoi dipinti, che inglobano vecchi documenti e pagine di giornale recuperate nelle bancarelle di Merkato, il più grande di tutta l’Africa. Nella sua Background Series troviamo grandi figure umane dipinte di spalle. “Mostro le spalle delle persone perché la gente spesso non ha idea della storia del suo Paese, la considera insignificante”. Con la serie Rank & Providence Dawit abbandona le figure umane, le rende invisibili per dar spazio ai loro vestiti: “Gli abiti che dovrebbero avere una funzione solo di copertura, anche in Africa stanno diventando sempre più simbolo di status sociale. In Etiopia il consumismo è arrivato troppo in fretta”. Ed è da qui che prende vita l’ultima serie Quo Vadis?, riflessione sull’impatto dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione sulla vita dell’uomo. Dawit è tra gli artisti più impegnati ad aiutare le giovani generazioni. Ha fondato assieme ad altri quattro artisti l’Habesha Art Studio, che, oltre a essere un luogo d’esposizione, è un punto d’incontro. “L’arte è uno degli strumenti più potenti per condividere messaggi. Mi sento privilegiato a essere artista, riesco a vedere tante cose in una prospettiva diversa, ed è questo che voglio far capire ai giovani che si avvicinano al mondo dell’arte”.
Con una prospettiva diversa, più introspettiva, guarda al ruolo dell’arte Ephrem Solomon, classe 1983, artista oggi più conosciuto all’estero che in Etiopia. Ha il suo studio in un appartamento all’ultimo piano di un nuovo complesso residenziale, esempio della riqualificazione urbana che sta attuando il governo etiope, che consiste nella demolizione degli slum e nel trasferimento degli abitanti in complessi condominiali a basso costo, nelle aree periferiche. È uno spazio piccolo, con un vecchio divanetto, tanti libri, materiali da pittura e opere accatastate ovunque. Ephrem ha un’aria timida ma decisa: “Il mio lavoro non è mai stato apprezzato in Etiopia, perché non faccio arte figurativa, la mia non è considerata arte pura”. Ephrem lavora prevalentemente su legno intagliato e tecniche miste, si considera un artista politico, con le sue opere riflette sulla società e il ruolo della politica. Ne è un esempio la serie di ritratti dal titolo Forbidden Fruits. “Questi volti sono tristi o distorti perché nel mondo reale non c’è perfezione. Alcuni sono volti di persone che conosco, altri sono frutto della mia immaginazione. Quello che li accomuna è l’essere ritratti sempre al centro dell’opera: perché per me ogni persona vive nel presente”. Ci mostra uno dei suoi primi lavori, che raffigura una sedia vuota e un paio di pantofole, oggetti per lui ricorrenti. “Le mie opere spesso mostrano la distanza tra ciò che la gente vuole e la risposta di chi governa. La sedia per me rappresenta l’autorità dei politici, mentre le pantofole incarnano le persone, la società. Spesso non notiamo la presenza di questi oggetti così semplici, che hanno invece un ruolo e un potere all’interno delle nostre case”. Autodidatta, con un percorso irregolare, ha avuto la sua prima borsa di studio nel 2011 grazie al Goethe-Institut, che gli ha permesso di produrre le sue prime opere, e successivamente nel 2013 ha presentato alla Tiwani Gallery di Londra la mostra Untitled Life. Con questa sono arrivati i primi riconoscimenti, tra cui l’ingresso delle sue opere nella collezione di Charles Saatchi. “Ora, ad Addis, tutte le gallerie mi chiedono di fare una mostra, ma all’inizio della mia carriera – quando avevo bisogno di visibilità – nessuno credeva in me. Vorrei poter mostrare il mio lavoro all’interno del Museo Nazionale, ma penso che non mi sarà mai permesso”.
ARCHITETTURA VERNACOLARE E MUSEI DEL FUTURO
Forse Ephrem non riuscirà mai a esporre il suo lavoro al Museo Nazionale, eppure c’è chi lavora sodo per cambiare la percezione dell’arte contemporanea in Etiopia, attraverso la formazione dei giovani artisti, lo scambio d’idee ed esperienze, investendo nei luoghi e nei centri destinati all’arte. Lo fanno Meskerem Assegued, co-curatrice e co-fondatrice assieme all’artista Elias Sime del Zoma Contemporary Art Centre: un’oasi di pace, straordinaria architettura sostenibile costruita da Elias stesso, considerato uno dei luoghi simbolo dell’arte contemporanea in Africa. Oggi Elias Sime è un artista importante, rappresentato da un gallerista altrettanto importante come James Cohan a New York, dove ha tenuto qualche mese fa la sua ultima mostra, Twisted & Hidden, con opere che riflettono sull’equilibrio fra tradizione e tecnologia: grandi tele che inglobano rifiuti elettronici trovati nei mercati all’aperto di Addis Abeba. Meskerem ci racconta che “è stato attraverso la prima mostra di Elias, nel 2009 al Santa Monica Museum of Art, che Zoma ha attirato l’attenzione dei media di tutto il mondo. Oggi abbiamo tanti progetti in corso: oltre alle attività di Zoma, stiamo finendo la costruzione del Centro Visite del Bale Mountains National Park (commissionato dal Frankfurt Zoology Society), ci stiamo dedicando alla costruzione di un vero e proprio museo e – notizia fresca – siamo stati selezionati per curare il primo Padiglione dell’Etiopia alla prossima Biennale di Architettura nel 2018”.
Meskerem è una donna dal grande pragmatismo: la incontriamo nel bistrot biologico Concept Cafè, mentre è alle prese con telefonate, contratti da firmare e richieste di sponsorizzazioni. Ci racconta che il progetto per la Biennale si chiama Vernacular Architecture. “Il nostro Paese è in un momento di grande sviluppo e trasformazione, per questo vogliamo valorizzare il suo patrimonio architettonico tradizionale, che sta lentamente svanendo. Il Padiglione mostrerà al mondo non solo l’eredità delle tecniche di costruzione indigene etiopi, ma anche il loro possibile uso futuro, il loro significato e la loro utilità”. Elias e Meskerem sono alle prese anche con il cantiere del nuovo grande centro che stanno costruendo, che ancora non ha un nome definitivo: “Sarà un museo, una sede espositiva, un luogo di incontro. Ci sarà una caffetteria, giardini pieni di erbe aromatiche e di lavori di artisti, in cui sedersi a leggere o riposare”, racconta Meskerem, mentre gli operai alzano qua e là dei teli per mostrarci la costruzione prendere forma. La tecnica è quella tipica di Elias, fango e paglia, totalmente eco-sostenibile, lavorati come a creare una gigantesca scultura d’arte africana tradizionale. I fondi per progetti come questo non arrivano certo dalle istituzioni pubbliche, ma sono personali e in parte legati a sostenitori privati. “Spesso la gente ci considera pazzi, ma è la passione che ci guida, e penso che il futuro ci darà ragione. L’arte contemporanea non è ancora troppo riconosciuta nel nostro Paese, non ci sono collezionisti, ma i giovani vi si stanno avvicinando con curiosità. È proprio questo il momento in cui dobbiamo lavorare e investire il più possibile”.
GALLERIE E CENTRI INDIPENDENTI
Come in tutti i contesti emergenti in cui le istituzioni pubbliche sono assenti, un ruolo chiave nell’accompagnare gli artisti e dar loro visibilità dentro e fuori dal Paese spetta alle gallerie commerciali e ai centri indipendenti. Tra le prime ad aver aperto i battenti in città, nel 1996, c’è Asni Art Gallery, fondata dall’artista e curatrice Konjit Seyoum, famosa per le sue mostre provocatorie, per il lancio di nuovi talenti, per ospitare talk, workshop e ultimamente anche sperimentazioni culinarie. Circa dieci anni dopo è stato aperto il Gebre Kristos Desta Center, un bell’edificio ristrutturato dal celebre architetto etiope Fasil Giorghi con finanziamenti del governo tedesco e dedicato alle opere di Gebre Kristos, uno dei più importanti artisti moderni del Paese. Oggi svolge il ruolo di museo di arte moderna della capitale e presenta un programma di mostre di artisti etiopi e internazionali.
Sicuramente una delle gallerie di riferimento e di più lungo corso in città è LeLa Art Gallery, fondata da Lilly Sahle nel 2007. La sua sede attuale si trova in un’incantevole abitazione nella zona del vecchio aeroporto: uno spazio nascosto, un’atmosfera accogliente, come fosse la casa di un collezionista d’arte, piena dei tipici poggiatesta comuni fra le tribù del sud del Paese. Qui incontriamo Lilly in un pomeriggio domenicale. “Siamo una piccola galleria commerciale privata, ma ci tengo a dire che funzioniamo anche da partner attivo per gli artisti, li supportiamo nel loro lavoro di sperimentazione, cercando di creare legami tra di loro, i collezionisti e i membri della comunità dell’arte in genere”. Quando le chiediamo quanto è sviluppato il collezionismo locale, Lilly spiega che qui siamo ancora un po’ indietro: “La borghesia sta crescendo ma non ha ancora un vero background artistico, guarda prevalentemente all’arte figurativa. Ma ci sono sempre più occasioni per vedere opere d’arte nei caffè e negli hotel, ci sono tanti giovani e studenti che si avvicinano all’arte e il governo promuove sempre di più scuole e accademie”. Per lei l’artista del momento è Dawit Abebe, anche se ne cita molti altri di cui va fiera, come Tewodros Hagos, Tizita Berhanu, Mulugeta Tafesse, e la sua prossima mostra sarà un “paper show” dedicato agli artisti etiopi che lavorano con la carta.
La galleria commerciale più importante in città e a livello internazionale per l’arte etiope e gli artisti della diaspora è la giovanissima Addis Fine Art. Fondata nel 2016 da Mesai Haileleul e Rakeb Sile, entrambi con una lunga esperienza nel settore, lo spazio espositivo è all’ultimo piano di un palazzo completamente ristrutturato nel quartiere trendy di Bole. Mesai ha vissuto a Los Angeles per quarant’anni ed è sempre stato attivo nel mondo dell’arte. “Da tempo registravo un interesse crescente da parte dei collezionisti verso l’arte contemporanea africana, partecipando a fiere come 1:54 Contemporary African Art Fair a Londra, AKAA – Also Known As Africa a Parigi, o nelle fiere in Sud Africa come FNB – Joburg Art Fair. A quel punto ho pensato che era il momento giusto per tornare in Etiopia e fare qualcosa di concreto”. Così è nata Addis Contemporary, con un project space anche a Londra, galleria con un innovativo programma di mostre, incontri ed eventi, e con un ottimo portfolio di artisti, tra nomi molto affermati e giovani emergenti. “Lavorare in Etiopia è una grande sfida: non ci sono supporti istituzionali, aprire lo spazio è stata un’impresa in sé, non c’è ancora molta consapevolezza né ci sono collezionisti da definirsi tali. Ma c’è un grande movimento artistico e so che in futuro cresceremo, se riusciremo a lavorare bene su attività e progetti speciali, eventi, opening di mostre in grado di coinvolgere e avvicinare la gente in modo naturale all’arte dei nostri giorni”.
Gli artisti etiopi vengono invitati in tutto il mondo per residenze e mostre, vendono molto bene alle fiere d’arte, ma ancora fanno fatica nel loro Paese. “Per esempio Girma Berta non vende in Etiopia, la fotografia d’autore non è ancora vista come opera d’arte”, aggiunge Mesai. Girma Berta, ha appena 27 anni, ha grande padronanza della tecnologia e il suo account Instagram, su cui pubblica scatti di street photography poi rielaborati in chiave pop, ha più di 26mila follower e lo ha fatto entrare in contatto con gallerie e riviste di tutto il mondo. Artisti talentuosi come Addis Gezehagn, oppure Wosene WorkeKosrof con la sua serie African Memoir, piena di messaggi politici, sono altri nomi che vanno forte all’estero, “ma in Etiopia non si vendono ancora, così come la giovane artista Merikokeb Berhanu, che lavora sul concetto dell’essere donna nella società africana, che ha sbancato alla fiera di Johannesburg”.
AUTO-ORGANIZZAZIONE
Anche Mesai ribadisce che a sopperire all’assenza di supporto governativo ci sono diversi soggetti internazionali attivi in città da lungo tempo, come l’Alliance Ethio-Française, il Goethe-Institut, il British Council e anche il nostro Istituto Italiano di Cultura, che con i loro spazi espositivi e i loro programmi di eventi e incontri aiutano enormemente gli artisti locali nel loro percorso. E talvolta sono gli stessi artisti a prendere l’iniziativa, a unirsi per lavorare assieme, confrontarsi e mostrare la loro arte, creando veri e proprio centri espositivi come il Netsa Art Village e il già citato Habesha Art Studio. Oppure ci sono i giovani come Mifta Zeleke, classe 1984, che dopo l’università ha iniziato a fare scouting di giovani artisti per poi fondare il Guramayne Art Centre, dove ha portato alla ribalta nuovi nomi nel panorama dell’arte underground etiope.
Altro esempio di collaborazione dal basso, nata da un gruppo di artisti, è Guzo Art Studio, fondata da Ephrem Solomon e Wanja Kimani, progetto che invita artisti e scrittori a collaborare per iniziative specifiche. “Ad Addis sono sempre di più gli spazi espositivi e le possibilità per gli artisti di sperimentare nuove forme d’arte, ad esempio la videoarte e la performance”, afferma Wanja. “E aumentano anche le possibilità di incontrare visitatori internazionali che partecipano a grandi eventi come il festival di fotografia ‘Addis Foto Fest’, o visitano le esposizioni organizzate da Asiko Art School in città. Vuol dire che siamo sulla buona strada e che cresce l’attenzione internazionale. Ma c’è ancora tanto da fare, anche per provare a costruire un mercato locale che al momento è quasi inesistente”.
Nella classifica dello sviluppo artistico l’Etiopia sarà ancora indietro rispetto a campioni come la Nigeria, il Sud Africa, il Kenya o anche il Congo, ma camminando per le strade di Addis si respira il cambiamento. La pensa così la giovane fashion designer Mahlet Afework conosciuta come Mafi, che è anche il nome del suo brand. La incontriamo nella sua boutique nel quartiere alla moda di Bole. Mafi è stata una modella e musicista, ed è diventata famosa collaborando con il rapper Jossy. Ora si dedica completamente alla moda, ha presentato la sua collezione all’African Fashion Week di New York nel 2012 e da lì ha vinto molti premi. La sua è una collezione di moda donna molto contemporanea, completamente “hand made” da donne etiopi. Ci dice di aver appena lanciato la nuova linea Atem by Mafi, una collezione più legata alla tradizione, pensata per il mercato etiope. “La connessione fra tessuti fatti a mano, la cultura e la storia del mio Paese è qualcosa che per me significa molto. Cultura e tradizione possono talvolta diventare essenziali, ma allo stesso tempo possono essere invisibili come l’aria”. Forse è proprio così: in Etiopia il peso della tradizione è ancora molto forte, ma in alcuni contesti – come quello dell’arte – sta diventando quasi invisibile, per lasciare spazio a un’aria nuova di cambiamento.
ZOMA E IL SUO NUOVO MUSEO
Il New York Times lo ha definito “un sogno voluttuoso, un turbinio di tecniche antiche e affascinante immaginazione”. ZCAC – Zoma Contemporary Art Centre è uno dei centri d’arte più importanti dell’Africa Sub-sahariana, fondato dall’artista Elias Sime e dalla curatrice Meskerem Assegued, nei fatti è un’opera d’arte in sé. “Abbiamo impiegato otto anni per costruirlo”, racconta Elias. “È un edificio totalmente ecosostenibile, fatto di fango e paglia”.
L’architettura esterna è firmata interamente da Elias, ha superfici che richiamano pattern decorativi tradizionali, che si integrano con elementi scultorei. È uno spazio espositivo e al suo interno include una biblioteca, i cui scaffali sono fatti in legno di ginepro riciclato. L’attività principale di Zoma è quella di coinvolgere artisti e curatori che arrivano da ogni parte del mondo per metterli in dialogo con artisti locali. Tra gli ospiti dei suoi workshop ha avuto nomi importanti come l’artista americano David Hammons e il messicano Ernesto Novelo. Zoma svolge una funzione formativa di altissimo livello, alternativa al ruolo delle accademie d’arte; supporta il lavoro di artisti attraverso borse di studio, finanziate dalla vendita di opere di Sime a collezionisti e musei, tra i quali anche il Metropolitan Museum of Art di New York. “Il nostro più grande obiettivo è quello di mettere assieme menti creative, che confrontandosi possono portare allo sviluppo di progetti artistici innovativi, ma anche cercare di dare risposte a problemi di più ampio respiro, come ad esempio il cambiamento climatico”, dice Meskerem. “La storia ci insegna che le costruzioni fatte con materiali eco-sostenibili, come la terra e il fango, durano nel tempo e non sono inquinanti come quelle in cemento”.
Una visione decisamente innovativa, che promuove uno stile di vita eco-sostenibile e che usa l’arte come mezzo di comunicazione, che trascende ogni tipo di lingua, razza, nazionalità, sesso o visione politica. E questa stessa visione è alla base del nuovo museo che Elias e Meskerem stanno costruendo poco distante da Zoma e di cui sentiremo parlare nei prossimi mesi. “Ci muoviamo controcorrente, contro l’epidemia dei grattacieli luccicanti di Dubai. Siamo sicuramente una goccia nell’Oceano, ma orgogliosi di muoverci in questa direzione. Quello che facciamo oggi influenzerà le future generazioni, e mi piace pensare che Zoma darà un contributo importante al modo in cui l’arte contemporanea continuerà a svilupparsi in Etiopia”.
‒ Lisa Chiari e Roberto Ruta
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #39
Abbonati ad Artribune Magazine
Acquista la tua inserzione sul prossimo Artribune
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati