“Avere un buon vicino è chiedere troppo?” Con questa frase si conclude il saggio introduttivo in catalogo di Elmgreen & Dragset, i primi artisti a curare la Biennale di Istanbul ‒ che nel 2017 ha compiuto trent’anni ‒ intitolata A good neighbour. Vi avevano partecipato in passato come invitati diverse volte, mentre il loro rapporto con la città data precisamente dal 2001, quando presentarono un’installazione alla settima Biennale, curata da Yuko Hasegawa. Dopo sedici anni si sono ritrovati dall’altra parte della barricata, a curare una mostra che ha totalizzato 450mila visitatori, e nell’ultimo fine settimana file interminabili di turchi di tutte le generazioni (ma soprattutto giovani) alle porte dei luoghi che hanno accolto per 8 settimane le opere di 56 artisti, di cui una trentina prodotte per l’occasione.
“La 15esima edizione della Biennale” ‒ spiegano i curatori ‒ “si interroga su come la nostra percezione della casa è cambiata negli ultimi decenni: come proteggiamo, ripariamo e esprimiamo la nostra identità all’interno dei nostri contesti domestici, ma anche come queste sfere private che sono le nostre case funzionano una accanto all’altra”. E da questo assunto discende la struttura della mostra, distribuita in sei sedi espositive (di cui cinque a breve distanza tra loro) incentrata soprattutto sullo storytelling: il raccontare storie legate a memorie individuali e collettive, sociali o politiche, antropologiche o simboliche, identitarie o poetiche. Storie che hanno a che fare con l’abitare inteso nel senso largo del termine, dove “ogni sede rappresenta una diversa forma di comunità istituzionale”, come sottolinea Kaelen Wilson-Goldie.
MURI, PARAVENTI E PARETI
A cominciare dall’Istanbul Modern, che ospita la sezione più ampia della manifestazione insieme alla Scuola Greca di Galata: negli ampi spazi al pian terreno del museo la mostra si innerva in un allestimento arioso e accurato, “per dare la giusta attenzione ai lavori degli artisti” spiegano Elmgreen & Dragset. Qui è esposto Crown fade (2017) di Latifa Echakhch, una delle opere più forti: due muri dove l’artista ha scrostato le immagini delle persone che affollavano piazza Taksim durante il periodo di Gezi Park. Una memoria collettiva che dialoga alla perfezione con At home, where the smell of steamed cabbage does not bother, where it’s just me below my father (2017), l’opera dell’iraniano Mirak Jamal composta dai disegni che aveva realizzato da bambino nel suo paese natale, prima di condurre un’esistenza nomadica tra l’Europa e gli Stati Uniti, inseriti all’interno delle pareti, come delicate e struggenti icone del quotidiano. Tre paraventi in legno grezzo, prelevati da una piazza di Berlino, nascondono le opere di Klara Lidén, Untitled (studyzaum), Untitled(wartezaum) e Untitled (liegezaum) (2017), costituite da mobili e oggetti di design legati a spazi domestici, giocando sull’ambiguità tra spazio pubblico e privato. Ancora più radicale All the way up to the Heavens and down to the depths of Hell (2017), il lavoro di Lydia Ourahmane, nata nel 1992 in Algeria, che consiste in una piattaforma in cemento con quattro pilastri ai lati, simile al basamento di un’ipotetica dimora costruita su un terreno situato vicino a una fabbrica di industria altamente inquinante nella città portuale di Arzew. Il muro di mattonelle azzurre dalla quale fuoriescono nove paia di gambe maschili rimanda invece alla cultura dell’hammam, sulla quale l’artista Candeger Furtun ironizza con la sua opera Untitled (1994-96).
SGUARDI MUTI E SPAZI PRECARI
Nelle sale della Scuola Greca di Galata ci sono alcune delle opere più significative e poetiche della Biennale, a partire da Wonderland (2016), il potente video di Erkan Ozgen che mostra un bambino sordomuto fuggito dalla città di Kobani, in Siria, che racconta a gesti i traumi subiti. All’ingresso i visitatori sono accolti da Domain of Things (2017), l’installazione di Pedro Gòmez-Egana, composta da una serie di oggetti domestici appoggiati su alte mensole in modo da comporre un ambiente simile a un appartamento, che vengono mossi dal basso da alcuni performer, in modo da creare fratture e distanze spaziali (e simboliche) nell’arredamento. Un senso di precarietà e pericolo che si ritrova all’interno degli ambienti di Scenario in the shade (2015-17), l’installazione di Jonah Freeman & Justin Lowe che riproduce l’ambiente hippy e freak californiano degli Anni Settanta, secondo la descrizione di Hermann Kahn nel suo libro The year 2000, pubblicato nel 1967. La violenza dell’apartheid in Sudafrica è concentrata nell’opera Lawn (2016/17) di Lungiswa Gqunta, un tappeto di bottiglie di Coca Cola rotte e riempite con un liquido verde, che ricorda un prato ma anche l’uso delle bottiglie per realizzare bombe rudimentali.
IDENTITÀ FEMMINILI
Una sala del Pera Museum rappresenta il cuore concettuale dell’intera Biennale, ed è occupata da uno stimolante dialogo tra le opere di Louise Bourgeois, Berlinde De Bruyckere, Monica Bonvicini, Liliana Maresca e Aude Pariset, per stimolare la riflessione sul gender, uno dei temi cari a Elmgreen & Dragset. Così è esposta Femme Maison (1990) di Louise Bourgeois, l’incisione che ha ispirato il video di Monica Bonvicini Hausfrau Swinging (1997), insieme alla scultura Spreken (1999) di Berlinde De Bruyckere, con un uomo e una donna in piedi con la testa coperta da un mucchio di coperte, mentre Toddler Promession (2016) di Aude Pariset è un lettino da bambino con un materasso in styrofoam ricoperto da uno strato di vermi capaci di mangiare lo styrofoam e trasformarlo in sostanza organica. Infine, con grande piacere si ritrovano le fotografie di Liliana Maresca, artista argentina scomparsa nel 1994, esposta alla galleria Spazio Nuovo di Roma nel 2012 con la prima retrospettiva in Europa. Una figura radicale e sovversiva dell’epoca dei desaparecidos, di cui il mondo dell’arte non ha ancora riconosciuto il valore dirompente nel difficile clima dell’Argentina di quegli anni.
CORPO E POTERE
Nella sezione maschile del Kuzuck Pasha Hammam, perfettamente restaurato e adibito a spazio espositivo, Monica Bonvicini espone Weave this way (2016), un collage di parti di corpi femminili che si riflettono nelle parti specchianti di GUILT (2017), una scultura composta dalle stesse lettere di questa parola, che riprendono l’architettura della stanza. Nello spazio adiacente, che corrisponde alla sala principale dell’Hammam, la grande scultura Belt Out (2017), realizzata con cinture nere di cuoio, rimanda al rapporto tra corpo e potere nel mondo gay, che vive una dimensione non dichiarata nei rituali del bagno turco, così diffusi nel mondo islamico.
L’UOMO CHE PIANGE
Dulcis in fundo, una scoperta. L’artista egiziano Mahmoud Khaled, che ha trasformato con incredibile sensibilità il centro culturale ARK Kultur nel Museum of an Unknown Crying Man (2017), uno dei lavori più intensi dell’intera mostra. Situato in un elegante villino di stile modernista nel quartiere di Cihangir, a poca distanza dall’Istanbul Modern, l’opera è la casa- museo dell’uomo che piange, uno dei superstiti della festa gay che si svolse nel 2001 al Cairo, repressa dalle autorità con gli arresti di una cinquantina di partecipanti. Uno di questi riuscì a evitare il carcere e si trasferì a Istanbul, città allora più aperta verso l’omosessualità. Khaled introduce, attraverso la visita condotta da un’audioguida, nei luoghi abitati dal personaggio, schivo e solitario, quasi come se dovesse scontare una colpa infamante, dalla quale i visitatori finiscono per essere toccati nel profondo.
CONCLUSIONE
In una città dove l’islamizzazione sta avanzando a passo lento ma sicuro, e i tumulti di Gezi Park sembrano essere un lontano ricordo, questa Biennale è una finestra verso la scena internazionale, di cui le giovani generazioni turche hanno un disperato bisogno. Nel loro doppio ruolo di curatori/artisti, Elmgreen & Dragset sono stati vicini ai loro colleghi (tra cui un buon numero di turchi e molti giovani) e hanno voluto dare la giusta attenzione alle singole opere, senza affollare la mostra di un numero elevato di presenze e di sedi espositive, per renderla accessibile al pubblico, che ha apprezzato lo sforzo. Poca teoria, molta realtà, e soprattutto una chiara e voluta leggibilità. Il voto? Un buon 8 e mezzo, del tutto meritato.
‒ Ludovico Pratesi
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati