Il pubblico non ha davvero idea dei rischi e dei danni cui vanno incontro le opere d’arte antica a ogni spostamento: quando si aprono le casse in cui sono trasportate, si scoprono fratture, fessure, cadute di colore e all’istante, come su un set cinematografico, si invoca l’intervento del “trucco!”, ovvero di abili restauratori che incollano, rinsaldano, ripristinano. Non avviene sempre questo, è chiaro: molto dipende dalla “salute” dell’opera, dalla professionalità dei trasportatori, dalle condizioni di conservazione del pezzo nella sua nuova, temporanea dimora. Ma spesso i danni ci sono, e per averne piena contezza occorre consultare la documentazione prodotta in occasione dell’intervento di restauro (ammesso che ogni “toppa” venga documentata…), poiché – come si diceva – i danneggiamenti vengono immediatamente risarciti. Il processo di progressiva falsificazione dell’opera prosegue così inesorabile e silente, e a ogni giro di giostra il dipinto o la scultura sono sempre più rifatti, come vecchie dive che non accettano lo scorrere del tempo. La risposta a questo pernicioso nomadismo non sta in un antistorico blocco totale delle mostre, ma deve passare attraverso un più ponderato ricorso a questo strumento di indagine e divulgazione. Si potrebbe pensare a una sorta di codice etico i cui sottoscrittori (storici, critici e restauratori) si impegnino a concepire e realizzare solo mostre “sostenibili”; soprattutto, musei e istituzioni culturali sono chiamati a soddisfare quella fame di narrazione che le mostre, ormai da alcuni decenni, mettono in luce, dando vita a iniziative che, senza o con un limitato ricorso ai prestiti, siano in grado di raccontare una storia, avvincente e istruttiva insieme.
“È segregata un’opera che ogni anno viene vista da milioni di persone provenienti da ogni angolo del globo? E soprattutto: è cultura il pellegrinaggio “ad limina Monnae” compiuto dalle masse?”
Nulla lascia tuttavia presagire una presa di coscienza del problema a livello politico e istituzionale. Anzi. Pensiamo alle delicatissime pitture su tavola: se due anni fa la Madonna della Misericordia di Piero della Francesca, estrapolata dal polittico di cui costituisce il pannello centrale, è stata inviata prima a Forlì per una grande mostra sull’artista e poi, in solitaria ostensione, a Milano come regalo natalizio, ora arriva da Parigi la notizia che il Louvre potrà prestare la Gioconda. A imporlo è, alla faccia dell’indipendenza delle istituzioni museali dalla politica, la ministra francese della cultura, Françoise Nyssen, secondo cui si tratta di un modo per “lutter contre la ségrégation culturelle”. Si nobilitano bassi scopi (politici, diplomatici, commerciali) con una frase intrisa di retorica populista: è segregata un’opera che ogni anno viene vista da milioni di persone provenienti da ogni angolo del globo? E soprattutto: è cultura il pellegrinaggio “ad limina Monnae” compiuto dalle masse? La decisione si rivelerà probabilmente un autogol: per il Louvre, privato per periodi più o meno lunghi della sua opera-feticcio; e specialmente, purtroppo, per questa tavola tanto celebre quanto fragile, che non lascia la sua parete dal 1974.
‒ Fabrizio Federici
L’articolo è stato pubblicato prima delle dichiarazioni del Louvre, che si è detto contrario all’ipotesi di allontanare la Gioconda dalle proprie sale.
Articolo pubblicato su Grandi Mostre #9
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