A che punto è l’arte, com’è cambiato il sistema nell’ultimo decennio e che scenari ci aspettano? Esistono nuovi canoni o modalità di gestione del mercato, dei musei, delle case d’asta e delle fiere? Qual è il futuro delle gallerie private e che strategie i musei dovrebbero adottare per rispondere alle esigenze delle nuove generazioni? Quanto è importante l’educazione e la didattica? Quanto i social media hanno ridefinito il concetto di partecipazione, cosa si sta facendo per includere le differenze, minoranze, e chi sono e saranno i vinti e i vincitori?
Se n’è discusso a Berlino in un’intensa due giorni di summit che ha visto riunito il gotha mondiale dell’arte contemporanea. Su un solo palco si sono succedute le figure più potenti del sistema dell’arte internazionale (globalizzata). Organizzato da The New York Times, coadiuvato da Robin Pogrebin, reporter culturale della testata newyorkese (insieme ai colleghi moderatori Matthew Anderson, Katrin Bennhold, Roger Cohen, Scott Reyburn, Motoko Rich e Hilarie M. Sheets), e supportato dai Qatar Museums e AP Globale, il convegno , dal titolo The New York Times Art Leaders Network (a summit for innovators and experts), ha fatto emergere un aspetto di cui tutti siamo già ampiamente a conoscenza: a decidere le sorti dell’arte contemporanea e a definirne nuove geografie è il denaro.
Aumentano le fiere, si aprono nuovi mercati ‒ come quello potentissimo di Hong Kong ‒, si consolidano alcune gallerie influenti, diventate vere e proprie corporation con epicentro a New York e Londra, e contemporaneamente chiudono le piccole e medie, si aprono nuovi musei e fondazioni, prevalentemente privati, ma a dominare su tutto è il mercato, la caccia a nuovi capitali e la corte a nuovi donor che si affacciano sul mondo dell’arte.
GALLERIE, CASE D’ASTA E NUOVI MERCATI
La galleria non può sostituire il museo, afferma con decisione la storica gallerista Monika Sprüth. Ne è convinto anche Thaddeus Ropac, che sottolinea l’importanza di dotarsi di un team scientifico quando, ad esempio, si è titolari della Estate di artisti storici importanti ‒ è recente l’annuncio che Ropac gestirà la Estate di Joseph Beuys. Di contro, sappiamo che i musei pubblici, in termini di acquisizioni, non possono più competere – per sempre più scarse risorse economiche – con le collezioni private, con i fondi, con le banche. E c’è un dato rilevante: oggi molti collezionisti possiedono le loro proprie fondazioni.
Va dritta al punto Amy Cappellazzo di Sotheby’s, quando si parla del futuro delle case d’asta, usando un claim molto chiaro: change or die! E con altrettanta disinvoltura ci tiene a sottolineare che, nel suo ruolo, lei non parla mai di ciò che le piace ma di ciò che piace al mercato. Altro tema dibattuto è il regime fiscale che cambia di stato in stato. “Come sarebbe, ad esempio, la situazione in Germania se potessimo essere più competitivi con meno restrizioni, una tassazione più agevole e un sistema meno over regulated?”, si chiede Kilian Jay von Seldeneck della Kunsthaus Lempertz. Fortunato chi, come Marc Glimcher, presidente e Ceo della Pace Gallery, ha da subito capito le potenzialità economiche egli sviluppi di un Paese come la Cina. “Gli appassionati d’arte a Pechino”, ha sottolineato Philip Tinari, direttore dell’UCCA, “sono molto giovani ed entusiasti”. Va inoltre considerato che i “miliardari in Asia”, ha specificato Pearl Lam, proprietaria di una serie di gallerie a Hong Kong, Shanghai e Singapore, “hanno una media di venti anni in meno rispetto a quelli occidentali e che il 40% dei nuovi clienti in Asia sono giovani”. Nuovi mercati, quindi, ma anche nuove figure di mecenati sempre più informati, giovani, intraprendenti e competitivi. Possibilista David Zwirner, che ha appena festeggiato 25 anni di attività. Sul fatto che le grandi gallerie, come la sua, stiano fagocitando le piccole e medie realtà, si è detto disposto a “supportare” le gallerie più piccole, ad esempio, nelle fiere. Ipotesi che Mark Spiegler, direttore globale di Art Basel, vede poco percorribile perché niente affatto convito che tutte le grandi gallerie siano disposte a pagare di più per le realtà più piccole. Scott Reyburn, corrispondente d’arte a The New York Times, frequentatore assiduo di fiere ed esperto di mercato, prova a lanciare una proposta che suona più come una provocazione: far pagare il biglietto d’ingresso ai collezionisti. Proposta rimandata al mittente da Spiegler che auspica, piuttosto, che i collezionisti invitati acquistino opere. Altrettanto non accolta la proposta che arriva da un direttore di un museo pubblico ‒ il costo per seguire il convegno si aggira sui 2mila euro a persona ‒, che chiede di poter far accedere alle fiere i direttori dei musei pubblici prima dei collezionisti privati.
IPOTESI FUTURE
L’arte contemporanea oggi è senz’altro più inclusiva, cresce il numero di eventi collaterali e d’intrattenimento intorno alle mostre; le gallerie, le case d’asta, i musei e le fiere sono sempre più aggressivi sui social media; gli investimenti per l’ampliamento di spazi esistenti (come il Metropolitan Museum of Art di New York che si “aprirà” al contemporaneo) o la costruzione di nuovi (come il LACMA, Los Angeles County Museum of Art, con un bel progetto di museo orizzontale e diffuso, esposto dal suo intraprendente direttore Michael Govan) sono ingenti ma ciò che è emerso dal summit è che continuiamo a ragionare su modelli e canoni del XX secolo, pur vivendo nel XXI. Molti sono ancora gli interrogativi e i nodi da sciogliere. Le fiere continueranno a crescere o siamo al punto di saturazione, di una completa omologazione e quindi a dominare in futuro saranno poche manifestazioni, come ad esempio, Art Basel Hong Kong, considerata dallo stesso Spiegler l’unica vera Global World Class Fair? Qual è il futuro delle case d’asta in un momento in cui proliferano le piattaforme di vendita online o nuove app che mettono in collegamento le gallerie e gli acquirenti che possono comodamente comprare le opere col cellulare o opzionarle via Instagram? Le gallerie d’arte-corporation schiacceranno le piccole e medie, oppure nell’arte, come nella musica, continueranno a esistere le major come la Universal e le piccole etichette? Riflessione, questa, sollevata dalla gallerista Almine Rech. Come progettare i futuri musei per rispondere alle nuove generazioni? Che cosa sarà storicizzato e cosa no? Ma ciò che è più importante, come ha sottolineato intelligentemente Glenn D. Lowry, direttore del MoMA di New York, è “riflettere sul contenuto piuttosto che sulla forma. Dobbiamo ripensare a come pensiamo, riconsiderare il modo in cui presentiamo e fruiamo l’arte e immaginare nuove relazioni tra l’oggetto e chi lo osserva”.
E L’ITALIA?
Un dato è certo, alle Olimpiadi (dei potenti) dell’arte c’erano molti assenti. È ancora dominante l’influenza di New York e degli Stati Uniti e le nuove geografie sembrano più dettate dalla quantità di investimenti economici che da progetti culturali innovativi: Hong Kong, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Cina. Per i potenti dell’arte contemporanea mondiale l’Italia non esiste. Forse per prevedere e riflettere sul futuro dell’arte, sui nuovi fenomeni, sugli strumenti da adottare, su quali canoni seguire o sovvertire è importante uscire dall’Olimpo dell’arte e interpellare filosofi, antropologi, sociologi. È opportuno spostare l’ago della bilancia verso la qualità dell’offerta culturale piuttosto che la quantità, far prevalere il contenuto sulla forma. Fin quando l’arte contemporanea rimarrà chiusa nella sua torre d’avorio, continuerà a essere immune da ciò che la circonda, non farà autocritica e sarà dominata da un condiviso approccio politically correct, i modelli resteranno omologati. Ma l’arte non è una scienza esatta e le statistiche e i dati di mercato non sono sufficienti a prevederne il futuro.
‒ Daniele Perra
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