I rapporti tra fotografia e morte godono di intuizioni geniali maturate da pensatori come Susan Sontang e Roland Barthes, entrambi, del resto, in sintonia nel tributare al medium il potere di bloccare il flusso del tempo e dunque di dispensare trapassi o segnare sparizioni. Una proprietà che la mostra Das Letze Bild Fotografie und Tod (L’ultima immagine. Fotografia e morte), curata da Felix Hoffmann, indaga con oltre 400 lavori, un’ampia selezione di opere affiancate da numerose fotografie private, giornalistiche e scientifiche. E per questo, costringendo la fotografia a fare nuovamente i conti con la sua primaria vocazione documentaria, in un continuo zapping tra morte e vita. Cominciando, appunto, dalle foto di defunti che in genere rappresentano una persona da viva, consentendo di preservarne la memoria ma che, alla fine del diciannovesimo secolo, esibiscono le foto di morti, preferibilmente, alla stregua di dormienti.
DA SERRANO A DEMAND
Cadaveri posseduti da Morfeo come quelli di Andres Serrano, ricomposti devotamente, assimilabili a martiri cristiani e trasfigurati in ordinarie pose funerarie, risarcitorie del macabro passaggio negli obitori, dopo morte violenta. Di taglio diverso le fotografie delle esecuzioni che trasmettano con enfasi la cessazione della vita e la trionfale soddisfazione dei carnefici. Per esempio nelle vittime dell’Olocausto, che Gerhard Richter riordina in un poderoso archivio in cui i mucchi di cadaveri si alternano a superstiti da volti pervasi da nebbie, affogati in dolorose dissolvenze che negano le singole identità in nome di una dignità umana ormai perduta.
La fotografia, del resto, consente di testimoniare la morte anche senza la presenza dei cadaveri (Andy Warhol, Timm Rautert, Arnold Odermatt) solo attraverso la modalità con cui si realizza, incidenti stradali o altre calamità o, per estensione, di rendere conto di una più generale assenza di vita. Esemplari a riguardo gli interni di Thomas Demand, devitalizzazioni della realtà operate con destabilizzanti riproduzioni cartacee che la fotografia restituisce a una falsa esistenza. O, ancora, la fotografia può paradossalmente amplificare la soggettività oltre i limiti propri degli esseri umani al punto da concedere l’artificio di immaginarsi morto e dunque oggetto di autoreferenziale devozione (Duane Michals).
MEMORIA E ASSENZA
Il percorso espositivo interagisce costantemente con fotografie giornalistiche, scientifiche o amatoriali che hanno anche la funzione di introdurre temi diversi o di suggerire agli artisti quesiti esistenziali: permane la memoria dei nostri cari o è destinata a svanire come il vapore di cremazioni appena eseguite (Spring Hurlbut)? Cosa succede se l’AIDS o altre malattie distruggono le persone a cui siamo vicini (Nan Goldin)? Se la morte diventa una performance pubblica con una potenza voyeuristica pari a quella assegnata al glamour (Thomas Hirschhorn, Larry Clark) o con la possibilità di prestarsi a pratiche relazionali (Broomberg & Chanarin)? Se le foto si predispongono in luttuosi repertori (Christian Boltanski, Hans- Peter Feldmann, Walter Schels / Beate Lakotta) per sostituire per sempre le persone con melanconiche tassonomie? Risposte possibili si palesano nel capitolo conclusivo, quello dedicato alla sopravvivenza, a quanti restano a guardare chi non c’è più, contando sulla fotografia affinché non sia l’ultima immagine ma il tentativo di governare un’assenza.
‒ Marilena Di Tursi
Berlino// fino al 3 marzo 2019
Das letzte Bild. Fotografie und Tod
C/O BERLIN IM AMERIKA HAUS
Hardenbergstraße 22–24
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