Donna Marella Agnelli, l’ultimo cigno. Addio a una regina di stile
Un ritratto di Marella Agnelli, tra regalità, classe, misura, buona educazione. E amore per l’arte e la cultura. Un’icona di stile, che visse di passioni: la pittura, il giardinaggio, il design, la moda, la fotografia. Sempre accanto al marito, patron della Fiat e della Juventus: due protagonisti di un’Italia scomparsa, tra boom economico ed eleganza.
C’è un’immagine di Gianni e Marella Agnelli che sfugge a ogni artificio di scena, scintillio di jet-set, splendore di posa e rappresentazione ufficiale. È l’immagine per eccellenza di una liaison antica, robusta, nutrita d’intelligenza prima che di fortuna. Lui di profilo, sulla destra, in penombra, nella perfezione grafica delle linee, nell’outfit impeccabile, nell’incarnato increspato di rughe: l’Avvocato non parla, guarda dritto davanti a sé e la sua indole è tutta in quel sorriso ironico, appuntito, tra l’occhio magnetico e il silenzio.
Lei, speculare, occupa la parte sinistra del campo. Di tre quarti, offre alla luce il volto radioso, schiudendo le labbra nel pieno di una conversazione. Lui ascolta, lei parla: concentrata, la fronte appena corrugata, pullover scuro a collo alto, pelliccia di visone, capelli corti e piglio deciso. L’intimità di una dialettica quotidiana e i contorni di due personalità complesse. Due mondi in simbiosi, nel bene e nel male. Nella devozione, nei tradimenti (di lui, si sussurra), nella solitudine, nel peso di un nome ingombrante, nelle gioie, nei lutti, nella vita presa a morsi.
Se fosse teatro sarebbe un prolungato istante di potenza scenica; se fosse cinema sarebbe un frammento di Antonioni, tra esistenzialismo e grazia; e se fosse pittura sarebbe la scintilla di due vite da romanzo, mille pieghe restituite nella sintesi di due volumi netti: ombre, luci, pennellate. Ma è fotografia. Quella di Ugo Mulas. Ed è un’immagine definitiva della complicità. Coniugale, professionale. 1 aprile 1969: un furto azzeccato alla verità delle cose e al tempo che muore.
VITA E PASSIONI DI UNA GRANDE DAME
Sposatisi il 19 novembre del 1953, nel castello di Osthoffen, a Strasburgo, con uno degli eventi mondani più rilevanti dell’Italia post bellica, all’alba del boom economico, Gianni Agnelli e Marella Caracciolo di Castagneto – che di quell’Italia furono simbolo culturale e motore imprenditoriale – sono rimasti sempre insieme. E coi molti successi, due figli e un’affollata discendenza di nipoti hanno incarnato un’accezione illuminata del potere: l’aristocrazia e il capitalismo, il culto della bellezza, la cultura come memoria e innovazione, il Made in Italy e l’esprit internazionale, la ricerca e la tradizione, l’eccentricità e la misura.
Lei, rimasta vedova nel 2003, sopravvissuta al dolore per la morte del figlio Edoardo, suicidatosi a 43 anni il 15 novembre del 2000, ha chiuso gli occhi oggi, 23 febbraio 2019, dopo una lunga malattia. Novantun anni di lusso, quello vero: la possibilità di scegliere, di costruire, di sperimentare, di dare corpo ai sogni migliori.
Marella nasce il 4 maggio del 1927 a Firenze, da una famiglia nobile partenopea, abituata gli orizzonti ampi fin da bambina: viaggia tanto, al seguito del padre diplomatico, Filippo Caracciolo di Castagneto, Duca di Melito, e con la madre Margaret Clarke, statunitense dell’Illinois, ereditiera di una nota famiglia di produttori di whisky. Diplomatasi in Svizzera, studia a all’Académie des beaux-arts e poi all’Académie Julian di Parigi. Giovanissima vola a New York, dove si guadagna da vivere come modella e poi – annoiata dalle lunghe pose – come assistente del fotografo Erwin Blumenfeld. Rientrata in Italia le si aprono le porte della Condé Nast e di Vogue, con occasionali incarichi da fotografa e redattrice. Animo gentile, un velo di malinconia, indole creativa e vulcanica, trova una sua dimensione nei panni di designer, a partire dal 1973: si specializza nel disegno di stoffe per l’home dècor e ottiene presto un successo internazionale. Nel ’77 ritira negli USA il premio “Product Design Award of the Resources Council Inc”.
Altra grande passione quella per il giardinaggio, praticato con professionalità e dedizione. Un’attività che ricorda le vite di molte signore dell’aristocrazia e della borghesia di ieri, accomunate dalla vocazione botanica: dalla Principessa Leopoldina d’Austria alla Lady Walton di Ischia, dalla baronessa palermitana Agata Giovanna Piccolo di Calanovella, sorella del poeta Lucio, alla dama britannica Evelina van Millingen, ideatrice dell’imponente giardino di Villa Pisani (Padova). Anche Torino ebbe la sua Signora dei Giardini: Marella Agnelli progettò tutti i gli spazi verdi delle sue dimore e pubblicò diversi libri sul tema, ottenendo anche un romantico omaggio: si chiama “Donna Marella Agnelli” una qualità speciale di rose, di una delicata nuance rosa madreperla, coltivata nel famoso vivaio pistoiese Barni.
L’ULTIMO CIGNO
Marella era bella di una bellezza antica e moderna: tra Audry Hepburn e una principessa d’altri tempi, tra l’America dei vip e la nobiltà napoletana, tra genialità mediterranea e concretezza sabauda, unì una femminilità intraprendente col ruolo di madre e sposa esemplare. Dolce vita, disciplina, qualche grammo di tristezza, l’amore per l’arte e per il bello: che fosse il design di un’automobile, la trama di un tessuto, un dipinto novecentesco, un giardino rigoglioso, un museo da immaginare. Oppure una villa da arredare, come quella fastosa di Marrakech, dove si rifugiò nel 2006, o come il casino di caccia di Vittorio Amedeo II di Savoia, incastonato nei dintorni di Torino, a Villar Perosa, località di origine della famiglia Agnelli, che dal 1811 ne aveva la proprietà: qui Marella visse col marito, avendo ridisegnato gli ambienti interni ed esterni insieme a Stéphane Boudin, il decoratore degli Windsor.
L’amico Truman Capote la definì “The last swan”, “L’ultimo cigno”, appellativo divenuto celebre e scelto per battezzare il libro autobiografico uscito nel 2014 in America con Rizzoli US, a cura della nipote Marella Caracciolo Chia, e in Italia edito da Adelphi, con il titolo (meno efficace) “Ho coltivato il mio giardino”. Marella come Leda, immagine di eleganza e stile. Snella, alta, flessuosa, aggraziata, riservata, descritta da un minimalismo e un’essenzialità non insensibili ai dettagli originali e all’estro. La sua sfarzosa collana indiana di rubini e smeraldi, per esempio: acquistata in giovane età al Gem Palace di Jaipur, la indossò negli anni come torchon, raccolta sul collo, o nella lunghezza intera. Un gioiello divenuto iconico, quasi una firma, tanto impegnativo quanto portato con naturalezza, a spezzare gli abiti rigorosi.
E l’abbiamo vista, col suo appeal low profile e la sua raffinatezza, dentro mise minute – pull e pantaloni, trench e scarpe all’inglese, tubini anni ’60 – ma anche fasciata da capi non facili, firmati da giganti come Balenciaga, Givenchy, Courrèges. Forme essenziali eppure audaci, plasticamente ingegnose, che un fisico asciutto come il suo e un portamento così speciale sapevano valorizzare. Semplicità, ricercatezza, una certa androginia. E la capacità di essere a proprio agio sempre, in un abito da sera dai profili bombati o nella versione più casual, quasi mascolina. Oltre un’idea di femminilità tipicamente sexy, oltre i corsetti e i decolleté, ma anche oltre la noia. La seduzione passava da altri canali.
LA MUSA E GLI ARTISTI
E a proposito di ritratti d’autore, furono in molti a immortalarne il fascino. A cominciare dallo splendido scatto a figura intera che le dedicò Arturo Ghergo nel 1945, per Vogue: nemmeno ventenne, malinconica ed eterea, indossava un lungo abito bianco di Federico Forquet e in mano reggeva un disegno su carta, un volto muliebre schizzato a matita. Noti sono i ritratti che Richard Avedon le dedicò nel ’53, uno di profilo, l’altro frontale, odi perfette per la donna-cigno: lungo collo à la Modigliani, pelle alabastrina, le corte chiome corvine, lo sguardo profondissimo e le linee allungate tra luce e ombra. Come pittura, ancora una volta.
Rifratta e moltiplicata, in una giostra di specchi, perle e pois, nell’ingegnosa immagine-girandola scattata da Erwen Blumenfeld nel suo studio di New York (1951): bon ton e brio, con gli occhi da cerbiatta. Ed eccola poi come una musa di Boldini, nobildonna in nero fasciata da un longdress di Jean Patoue, mollemente adagiata su un sofà, tra pellicce e cuscini in seta: il gesto teatrale, il guanto sfilato, l’insolita posa da diva e lo sguardo di sfida rendono interessante la foto di Henry Clarke, scattata nel 1956.
Ancora Avedon nel ’75, a tu per tu con Donna Marella, ne restituisce una bellezza più agé, fatta di maturità e di carattere: taglio frontale, mezzo busto classico, lo sguardo diretto alla camera, languido ma severo. Una miscela che era esclusivamente sua, colta dal fotografo con intensità rara. Le mani in tasca, la blusa scura impreziosita dall’amata collana orientale e l’approccio da leader. Con grazia.
E non poteva mancare il suo iconico personaggio nell’immensa galleria di Andy Warhol. Anche lei volto immortale del potere e del successo, proprio come Jaqueline, Marylin, Liz. Sono diverse variazioni cromatiche su tema, per una delle tante produzioni serigrafiche warholiane: tinte accese e segno pastoso, gestuale; fondi gialli, fucsia, azzurri, verde menta, su cui si incide il volto di tre quarti, incorniciato dai capelli corti, ricci, nerissimi come il maglione. La serie fu realizzata nel ‘73, a partire da alcune polaroid.
LA PINACOTECA E IL MECENATISMO
C’è un’altra foto di Clarke che ritrae Marella, sontuosa, in abito da sera Dior, diritta, in posa, raggiante di pietre preziose, accanto a una curiosa statua del XVIII secolo – una scimmia accovacciata – e a una grande tela di Picasso. Era il 1962 e gli Agnelli erano già appassionati mecenati e collezionisti d’arte moderna e contemporanea. Un amore che per tutta la vita li accompagnò e che Marella divise con quelli, altrettanto sinceri, per la natura e il design. Tanto da aver collezionato una serie di cariche prestigiose: membro dell’International Council del MOMA di New York e del Tate International Council di Londra, nonché presidente dell’Associazione Amici Torinesi Arte Contemporanea, fu anche nel board degli Amici dei Giardini Botanici Hanbury e presidente honoris causa della Riserva Naturalistica Torrente Chisone di Villar Perosa.
La collezione Agnelli è tra le più prestigiose d’Italia. Capolavori di autori immensi, da Canaletto a Canova, da Manet a Renoir, da Tiepolo a Matisse, da Severini a Picasso, da Modigliani a Balla: un patrimonio confluito nella “Fondazione Giovanni e Marella Agnelli” ed esposto dal 2002 negli spazi della Pinacoteca Agnelli, a Torino, all’interno di una affascinante struttura sospesa sul tetto del Lingotto, soprannominata “lo scrigno”. È la sede della prima grande fabbrica Fiat, progettata da Giacomo Mattè Trucco, che Renzo Piano ha ripensato per accogliere opere e attività della Fondazione.
Collezione permanente, ma non solo: in questi quindici anni di attività la Fondazione ha ospitato mostre di altissima caratura, producendo progetti di ricerca ed espositivi orchestrati con coerenza e con un occhio sempre attento al collezionismo internazionale. Arti visive, cinema, architettura, design: dall’osservazione sull’arte cinese del XXI secolo, con la collezione Astrup Fearnley, al mitologico duo british Gilbert & George, dalla collezione MurderMe di Damien Hirst ai mobili e le architetture del designer francese Jean Prouvé , dal genio di Ron Arad alla presentazione della Madonna del Divino Amore di Raffaello, dall’omaggio a Gae Aulenti allo splendido innesto tra Rosemarie Trockel e le collezioni torinesi, arrivando all’ultima esposizione dedicata a Frank Lloyd Wright.
NOSTALGIA DEL FUTURO
La formula magica, che la Signora Marella incarnava con spontaneità estrema, stava tutta in poche cose essenziali, mescolate per dna oltre che per milieu familiare: cultura, talento, etica del lavoro, riservatezza, buona educazione. E senza imbastire scontati paragoni tra epoche lontane, tra un’Italia ormai scomparsa e una nuova trama di dinamiche sociali, culturali, mediatiche, globali – che sarebbe come misurare l’aristocrazia coi parametri del pop – la scomparsa di Marella Agnelli ferma il tempo ed i pensieri.
L’ultimo cigno, l’ultima icona di stile. Vera regina in terra sabauda. Quando le “icone di stile” non erano ancora “influencer”, nell’ubriacatura social che appiattisce moda, costume e arte contemporanea tra i gangli perfetti di una macchina dell’ostentazione rapida, mortifera, sguaiata, svuotata di contenuto. La morte di Marella, nei giorni mesti di un Paese inelegante, rissoso, incattivito, avvitato in un anti elitarismo pacchiano, forse giunto a una mediocrità politico-culturale mai sfiorata prima, è una morte che profuma di nostalgia. Per forza. Ma una volta tanto non è voltarsi indietro, per rimpianto amaro, ma fare i conti col domani, tutto da progettare. Nostalgia del futuro? Per l’appunto. Con l’immagine dei coniugi pionieri certo inscindibile dalle parole “lusso”, “potere”, “denaro”: il contorno di una straordinaria vicenda intellettuale.
– Helga Marsala
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