Ai margini del distretto di Brooklyn, nel quartiere portuale di Red Hook, tra capannoni e magazzini, c’è uno spazio che nel giro di pochi anni è diventato centrale nella vita culturale della città di New York. Pioneer Works, creato dall’artista Dustin Yellin, è un enorme edificio industriale gestito dall’omonima non profit che, oltre ad accogliere studi di artisti di varie discipline, ospita ciclicamente mostre, eventi, concerti e fiere.
In questi giorni, entrando negli ampi spazi al piano terra di Pioneer Works, ci si ritrova a passeggiare all’interno della mastodontica installazione di Atelier Van Lieshout (AVL), nome che identifica lo studio creato nel 1995 dall’artista olandese Joep van Lieshout. The CryptoFuturist and The New Tribal Labyrinth è composta da una quantità di oggetti di ogni forma, dimensione e materiale che si affollano nello spazio, come in una sorta di città distopica, in cui il visitatore riconosce un’estetica post-industriale che tuttavia viene costantemente messa in discussione dall’apparente disfunzionalità degli oggetti. Si tratta della mostra più grande mai realizzata negli Stati Uniti da questo artista noto per i suoi esperimenti su larga scala, al confine tra arte, architettura e design. A partire dalla definizione del proprio studio come “atelier”, la pratica artistica di AVL connette il lavoro industriale all’esaurimento delle risorse globali e al conseguente bisogno di riorganizzare la società in funzione dell’autosufficienza.
LA MOSTRA
All’ingresso dello spazio si viene accolti da figure umanoidi composte da circuiti metallici, The mechanical Turks (2015), automi che presentano punti di vista opposti sulle idee di costruttivismo e primitivismo: uno dei due aspira al rinnovamento, all’avanzamento tecnologico, l’altro anela al ritorno alle origini. Addentrandosi nello spazio si incontrano oggetti che sembrano arredi, lampade, scafandri, macchinari dall’oscura funzione, un reattore nucleare fai-da-te, una macchina che trasforma materiali di scarto in alimenti, oggetti che ricordano qualcosa che non sono. Forse la più esplicita delle opere in mostra è Pendulum (2019), un enorme orologio meccanico di ferro smaltato di giallo, qui esposto in anteprima. Le lancette scandiscono rumorosamente il tempo e ogni giorno alle 17.00 l’orologio attiva delle presse idrauliche che distruggono gli oggetti posti al di sotto di esse, annunciando la fine del mondo che poi è anche l’inizio di ogni cosa, in un ciclo perenne di creazione e distruzione.
C’è un che di futurista nei lavori di AVL, ma non c’è la glorificazione del progresso, bensì una visione inquietante, in cui la macchina è minacciosa e propone soluzioni di dubbio successo. Le opere sono attraversate da una chiara tensione politica e le grandi ideologie del passato, in alcuni casi rappresentate in maniera esplicita come nella scultura con la falce e martello, in altri evocate da richiami alla tendenza al controllo e all’automazione, emergono come fantasmi di una storia con cui dobbiamo ancora fare i conti.
L’artista (e lo spettatore con lui) si muove tra passato e futuro, tra nostalgia e aspettativa, immaginando nuove modalità del vivere e facendone al contempo presagire i rischi, tra estremismo e violenza, oscurantismo e disumanizzazione.
L’UOMO E LA MACCHINA
In fondo alla sala si erge l’imponente Blast Furnace (2013), una fornace che richiama le macchine della rivoluzione industriale, una complessa struttura di tubi e serbatoi che appare come un mostro fagocitatore pronto a ingoiare ogni traccia di umanità. Ma la macchina è spenta, ferma, inattiva e, in un certo senso, innocua. All’interno, ci sono elementi domestici: una cucina, un bagno, una zona notte, lampade dalle fattezze umane. La macchina è viva, abitata da una tribù immaginaria di metalmeccanici che aspira al ritorno all’era preindustriale, alle origini della cultura e della produzione occidentali. Questa tribù si nutre del calore, dello spreco e del rumore della sua utopia industriale.
Ad amplificare i rimandi e la sintesi tra uomo e macchina, una serie di sculture-arredi dalle forme che ricordano spermatozoi e organi riproduttivi. Gli oggetti in mostra sono troppi (decine) per poterli raccontare tutti, ma è nell’effetto complessivo che sta la forza di questa esperienza. In corso fino al 14 aprile, The CryptoFuturist and The New Tribal Labyrinth aggredisce il visitatore, stordendolo in una complessità di stimoli che ci costringe continuamente a mettere in discussione quello che vediamo, la definizione che ne diamo, i significati di cui carichiamo gli oggetti e le sensazioni e i desideri che questo suscita. Più che una mostra è un’esperienza onirica.
‒ Maurita Cardone
New York // fino al 14 aprile 2019
The CryptoFuturist and The New Tribal Labyrinth
PIONEER WORKS
159 Pioneer Street in Red Hook
https://pioneerworks.org/
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