La mostra Buried Suns di Shigeo Arikawa (Tokyo, 1982) allestita alla Galerie Mazzoli di Berlino è un esperimento che ammalia e disorienta lo spettatore. Nel prendere visione dei video esposti, infatti, questi si trova sospeso tra la fruizione ludica, l’approccio documentaristico e il meccanismo empatico. Nel percorrere le possibili vie interpretative, l’occhio approda a un risultato che è di certo una situazione percettiva originale e, in ultima analisi, una meta-esperienza, essendo, le interpretazioni, parte dell’opera stessa.
Siamo abituati ormai a una grande molteplicità di immagini e sequenze narrative – il web, soprattutto, con l’infinita varietà di format visivi, ha sdoganato qualsiasi tipologia di messinscena visuale.
Nonostante ciò, il nostro cervello mantiene la tendenza a cercare, in ciò che vediamo, un senso ultimo, e, nel caso del formato video e delle immagini in movimento, una consequenzialità logica.
I tre video in mostra presentano infatti una struttura e una semantica mutuate dal cinema. Unità tematica, di luogo e di tempo, storia apparentemente lineare, personaggi stabili, sono caratteri che ci portano istintivamente ad associarli a dei cortometraggi narrativi. La trama, inoltre, appare rigorosa nel suo svolgimento. In questi brevi film vediamo dunque degli esseri umani intenti a compiere delle azioni. Un uomo vagabonda nel deserto (Strange Bells, 2019), il suo interesse sembra improvvisamente risvegliato da alcune pigne sul terreno. Sta cercando un luogo preciso e finalmente lo trova: guarda il sole, poi versa un liquido nero in una buca, precedentemente scavata a mani nude. Un altro uomo osserva il cielo attraverso quelli che sembrano dei telescopi (Large Island, 2018), poi si posiziona in verticale, indossando una tuta verde su cui viene proiettato lo stesso cielo che prima osservava. Un gruppo di quelli che sembrano essere scienziati è intento in misurazioni meticolose presso un laboratorio di una città moderna e sulle sponde del mare (Gold Town, 2017).
LA CINEMATOGRAFIA DI ARIKAWA
“Le immagini potrebbero avere un potere descrittivo, ma solo sulla semplice superficie. Il loro presunto realismo è, in realtà, un’invenzione umana e quello che spesso è un gioco di ombre, come scriveva Stan Brakhage, è un mito meccanico contemporaneo. Uno sguardo più lungo rivela che ogni immagine contiene molteplici interpretazioni, almeno tante quante gli individui che la guardano”, si legge nel comunicato stampa. Questa la chiave di lettura per poter accedere ai video presentati negli spazi della galleria. L’artista invita infatti a non cercare ossessivamente un significato e una linearità nei racconti visivi che propone, bensì a rinunciare a queste aspettative e accettare la sequenza di azioni così come è presentata, svincolata da qualsiasi logica compositiva.
Lungi dall’essere una celebrazione del nonsense, la cinematografia di Arikawa insiste sull’abbandono di una razionalità che spieghi in modo sensato e oggettivo ciò che vediamo.
Come sottolinea la curatrice, il lavoro di Arikawa è “una messa in discussione del modo in cui la nostra visione è influenzata e guidata dalla stessa logica del mercato: utilità, efficienza, velocità, tra gli altri.”
Un atteggiamento che si potrebbe definire dada-postmoderno, per i suoi caratteri di presunta casualità e improvvisazione. Una risposta pungente alla ricerca spasmodica di senso e all’assoggettamento dell’atto del vedere al supposto principio di logica, sensatezza, ordine ed efficienza da cui, nonostante la grande elasticità visiva che alleniamo quotidianamente, dipendiamo ancora.
Le opere esposte, così come la più ampia ricerca artistica di Arikawa, tentano di accecare temporaneamente la nostra comprensione razionale e funzionale del comportamento umano, in una momentanea sospensione della conoscenza, delle aspettative e persino delle credenze.
L’artista ci invita a domandarci cosa vediamo quando guardiamo delle immagini; ci spinge così a prendere atto che la logica nella nostra testa è per forza modellata dall’esperienza personale, e quindi soggettiva: l’educazione, il contesto sociale, l’età e perfino lo stato d’animo.
Non esiste quindi una soluzione interpretativa unica per tutti, bensì una sommatoria di automatismi e di filtri che vanno a creare il background inconscio della nostra percezione come singoli individui.
È curioso, e consigliabile, infatti, osservare questi video non da soli, come talvolta questo tipo di fruizione richiede, ma insieme a un pubblico vario, per fare esperienza della diversità di letture che scaturisce da uno spettacolo tanto preciso quanto insolito.
REALTÀ E INGANNO
Il processo artistico di Arikawa lascia spazio non solo a un viaggio interpretativo nuovo e diverso, ma permette anche un gioco con l’utilizzo sapiente degli strumenti della cinematografia, che risultano così protagonisti.
La forma prevale qui sul significato. L’artista, la cui formazione ed esperienza affonda le basi nell’esercizio degli strumenti cinematografici, padroneggia i mezzi con disinvoltura, utilizzando la particolare semiotica della narrazione lineare nelle immagini in movimento con personaggi, spazio dell’azione, oggetti, sequenze e tempi propri del cinema.
Proprio questo, insieme alla forza visiva delle immagini proposte, concorre a trarre lo spettatore in inganno: sembra un film, sembra una storia, ma non lo è.
O meglio, non come la intendiamo normalmente nel contesto delle nostre abitudini visive.
Soffermandoci ancora, poi, capiamo che ciò che ci viene indicato è anche uno sforzo di superare la tentazione di leggere queste scene atipiche come metafore. Non si tratta affatto di sensi figurati o di simbologie che rimandano a significati distanti ma precisi. La pratica di Arikawa, non a caso, richiama quella dell’inserimento di dispositivi apparentemente inutili in una narrazione, tipica del lavoro di Hitchcock e poi richiamata da altri autori, come ricorda la curatrice Vanina Saracino nel testo critico.
I “Mac Guffin”, cosi chiamati, appaiono futili, ma sono in realtà azioni o oggetti protagonisti poiché, nonostante apparentemente non abbiano alcuno scopo, la storia si sviluppa intorno a loro e non sarebbe la stessa senza di essi (pensiamo, un esempio per tutti, alla famosa valigetta di Pulp Fiction, il cui contenuto resta misterioso).
POSSIBILITÀ E INTERPRETAZIONI
Lo spettro delle possibilità di decodificazione delle scene è dunque infinito. Arikawa raggiunge un livello ulteriore nella ricerca della molteplicità interpretativa quando coinvolge persino il pubblico nel processo creativo, permettendo ad alcuni spettatori di visionare un video ancora nella fase di produzione, per poter scoprire le diverse interpretazioni e quindi, successivamente, inserirle nella parte dei dialoghi. Un lieve spostamento dell’autorialità, forse a voler dimostrare che già nell’autorialità stessa è implicita una prima interpretazione.
Ad accompagnare la sensazione di malleabilità interpretativa, una grande foto accoglie lo spettatore, una composizione di quelli che sembrano essere scatti in sequenza di un’eclisse. Possiamo indugiare e proseguire con le ipotesi alla ricerca di quella “corretta”, o accettare ciò che vediamo per ciò che è, solleticati dal titolo dell’opera, BaseBall (2018).
‒ Lucia Longhi
Berlino // fino al 24 aprile 2019
Shigeo Arikawa ‒ Buried Suns
GALERIE MAZZOLI
Eberswalder Str. 30
www.galleriamazzoli.com
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