Il modernismo civile di Sonja Ferlov Mancoba. A Copenaghen
National Gallery of Denmark, Copenaghen ‒ fino al 5 maggio 2019. Una grande retrospettiva in 140 opere, fra sculture, bozzetti, disegni, lettere e fotografie d’archivio, ripercorre la carriera di una poco nota ma talentuosa artista, danese di nascita ma cosmopolita nel modo d’intendere l’arte come ponte fra le culture.
Dalla vita sobria e appartata, poco interessata a esibire il suo lavoro, Sonja Ferlov Mancoba (Copenaghen, 1911 ‒ Parigi, 1984) è stata invece, insieme a Egill Jacobsen, Ejler Bille e Asger Jorn, una delle artiste più importanti del modernismo scultoreo nordeuropeo. Appena ventenne scoprì la sua vocazione creativa e divenne parte dell’avanguardia danese, associata al gruppo Linien; stabilitasi a Parigi dal 1936, conobbe da vicino l’arte di Alberto Giacometti, Joan Miró e Jean Arp, da cui trasse ispirazione pur mantenendo un suo particolarissimo stile. La sua ricerca estetica prende le mosse da materiali “classici”, quali gesso, legno, bronzo, di cui asseconda la spigolosità traducendola in una poetica espressiva in cui si riflettono in successione le sperimentazioni moderniste, il rifiuto della società consumistica di massa, gli orrori della Seconda Guerra Mondiale.
LA MASCHERA
Inquietante, pagana, magica, la maschera è un elemento importante nella produzione di Mancoba, sotto due punti di vista; influenzate dall’avanzata concezione del design che caratterizza l’Europa settentrionale, quelle sculture hanno, esteticamente, la valenza di veri e propri oggetti, non solo per il culto che rappresentano, ma anche per l’uso quotidiano. Tuttavia, ispirate come sono alla cultura messicana precolombiana, possiedono un’aura inquietante che sa di caducità, di violenza, quasi di disumanità. Feticci che ricordano la brutalità dell’esistenza e della morte come sua inscindibile parte, sommessi atti d’accusa a una società materialista come quella del Novecento, e inseriti in un più ampio discorso intellettuale sulla maschera, che aveva visto anche il drammaturgo Luigi Pirandello affrontarla come specchio dell’ipocrisia dell’umanità. L’afflato concettuale di Mancoba rimanda comunque a drammaturghi e poeti quali Artaud e Cendrars, anch’essi portavoce di un malessere sociale conseguente allo sradicamento spirituale.
ARTE GLOBALE CONTRO L’OMOLOGAZIONE
L’arte di Mancoba è il risultato di uno sforzo costante e coerente per dar vita a una nuova fase universale dell’arte mondiale, di incontro fra culture ed epoche diverse, da Nord a Sud, da Oriente a Occidente. Vi si coglie la necessità di esorcizzare la violenza della guerra, di mantenere le proprie tradizioni, di superare il concetto di “consumatore”, recuperando le radici spirituali dell’individuo, di fatto poste in crisi dall’affermazione della società di massa fra gli Anni Trenta e gli Anni Sessanta. La sua opera grafica, meno conosciuta ma comunque suggestiva e profonda, è un tripudio di colori accostati con inventiva surrealista, dove uova e uccelli sono soggetti ricorrenti in quanto simboli di fertilità, intesa come metafora della creatività artistica, ma anche, in maniera più ampia, dell’ingegno umano in tutte le sue forme, schiacciato appunto dalla violenza o dall’alienazione indotta dalla società di massa. Dinamiche che il Novecento (ma non solo) ha conosciuto sin troppo bene.
‒ Niccolò Lucarelli
Copenaghen // fino al 5 maggio 2019
No one creates alone
NATIONAL GALLERY OF DENMARK
Sølvgade 48-50
www.smk.dk/en/
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