La Russia, l’astrazione e l’Italia. L’omaggio di Mosca a Mikhail Kulakov
In collaborazione con l’ambasciata italiana e l’Istituto di cultura, l’esposizione allestita al Museum of Modern Art di Mosca raccoglie 50 opere e 27 disegni e si presenta come una riflessione su un periodo storico di slanci e ritirate, oltre che sul legame tra Mikhail Kulakov e l’Italia. Ne abbiamo parlato con la moglie, Marianna Molla Kulakova.
Com’era la vita negli anni del Thaw ‒ il disgelo ‒ per gli artisti che operavano tra Mosca e l’attuale San Pietroburgo?
Io per fortuna non l’ho vissuta; mio marito sì. Era un underground, un artista non ufficialmente riconosciuto perché faceva un’arte diversa da quella dettata dal regime. Gli artisti come lui esponevano in istituti scientifici, oppure in appartamenti privati. Era questa la loro vita. Comunicavano fra loro, ma non c’erano piattaforme per incontrarsi.
Come sopravviveva e circolava l’arte non ufficiale se non c’erano possibilità di esporre in luoghi pubblici né di vendere per chi non fosse un Realista Socialista?
Gli anticonformisti in genere erano in contatto con le ambasciate americane che acquistavano l’arte non ufficiale molto di più di quella ufficiale. Anche il mondo della scienza era interessato. Kulakov era collezionato da Pyotr Kapitsa, premio Nobel per la fisica. Nel ‘64, con il poeta Sosnora sono andati ad Akademgorodok, la cittadella degli scienziati in Siberia. E l, Sosnora recitava le sue poesie e Kulakov ha dipinto i fiori della Siberia, poi venduti agli scienziati che stavano lì di casa.
Rispetto agli anni precedenti, questo periodo ha comunque liberato i “non-conformisti” dalla minaccia dell’esilio e, in alcuni casi, dal rischio di essere deportati e sparire.
Sì, anche se gli arresti continuavano a esserci. Kulakov, che è nato e cresciuto a Mosca di fronte al Cremlino e andava alla Tretyakov già da bambino, è dovuto fuggire dalla sua città nel 1959, in seguito allo scandalo della sua mostra a casa del famoso storico dell’arte Ilia Zyrlin. Andò a Leningrado, dove fu accolto dall’Istituto di Teatro, Musica e Cinematografia di Nikolai Akimov. Si è laureato lì, in scenografia. In realtà si era innamorato di San Pietroburgo già prima della fuga, nel periodo in cui si avviava a una carriera diplomatica. Era stato ammesso a un istituto per diplomatici; l’opportunità era prestigiosa, importante. Se l’era conquistata senza aiuti esterni, ma dopo un viaggio a Leningrado piantò tutto. Ha preferito diventare un grande pittore. Chiaramente i genitori sono stati molto scontenti. Per fortuna non è diventato diplomatico: avrebbe potuto scoppiare una guerra!
A San Pietroburgo, suo marito ha lavorato anche nell’ambito della scenografia teatrale?
Sì e no. Era legato a un famoso regista teatrale, Piotr Fomenko, suo vecchio compagno di banchi di scuola, mancato anche lui da qualche anno. Tutte le loro iniziative furono proibite. Soltanto con la perestroika Fomenko raggiunse la notorietà e aprì un suo teatro, “studio Fomenko”. Nel 1966, cinquantesimo anniversario del potere sovietico, mio marito curò la scenografia del Bagno di Majakovskij, con la regia di Valentin Pluchik, allievo di Majerhold, al Teatro della Commedia di Mosca, grazie all’intervento di Lilya Brik, musa e compagna di Majakovskij.
Tra San Pietroburgo e Mosca, in un clima politico di licenze e divieti, Kulakov si è avvicinato all’Espressionismo astratto ed in particolare a Pollock. Com’è successo?
L’arte di Pollock l’ha conosciuta studiando i giornali internazionali. Non erano accessibili a tutti, ma lui andava nella Biblioteca Lenin e li consultava lì. In quanto a Pollock, riteneva che li avesse uniti la sensibilità a un linguaggio che era nell’aria. Diceva: “Le idee volano in giro” e per lui la sua astrazione avrebbe potuto nascere negli Stati Uniti come nell’Unione Sovietica. Poi un pochino forse si sarà ispirato. Ci sono delle scelte simili tra il modo di fare arte di Pollock e il suo.
Secondo il critico Enrico Crispolti, la gestualità in Kulakov, pur avvicinandolo a Pollock, perché è gesto, appunto, e c’è un rapporto fisico con la tela, allo stesso tempo lo allontana dall’action painting. Il suo gesto, più che performance, è una ricerca, attraverso la tela, di una comunicazione con il cosmo. È d’accordo?
Sì, lui era per un gesto regolato, incanalato. Credeva in una libertà delle materie ri-organizzate. Pensava la tela, la studiava e poi le dava vita. Ci sono anche delle riprese su come lavorava a terra proiettate alla mostra. Il suo era un “gesto” prima meditato e poi eseguito.
Suo marito resta fedele all’astrazione nonostante tutto cambi intorno a lui. All’esterno le avanguardie, nel privato il trasferimento in Italia. Come mai? E come è riuscito ad arrivare in Italia?
Io e Misa ci siamo conosciuti nel ’71 a Mosca e ci siamo innamorati. Entrambi avevamo famiglia e le abbiamo lasciate. Avevo un lavoro a Mosca in una casa editrice che pubblicava testi di propaganda in lingue straniere. L’avevo avuto tramite Renato Guttuso, un amico, che aveva anche tentato di invitare Kulakov in Italia, ma non gliel’hanno permesso. Poi ci siamo sposati nel ‘75 e nel ‘76, grazie a una conferenza internazionale in Finlandia per la riunione delle famiglie, a me e Kukakov fu concesso di trasferirci in Italia pur mantenendo la cittadinanza sovietica. Così siamo partiti per Roma perché, oltre all’amore per me, Misa amava l’arte italiana che aveva studiato da bambino. Siamo arrivati a Roma il 21 aprile’76, il giorno del Natale romano…
Com’era la quotidianità in Italia?
Kulakov esponeva in gallerie, librerie. Era seguito da Crispolti. Piero Dorazio l’ha coinvolto in alcune commissioni tra cui il mosaico alla fermata della metro Anagnina. All’epoca la critica era piuttosto comunista e quindi il fatto che lui fosse uscito dall’Unione Sovietica non gli faceva onore.
In più nell’aria c’erano l’Arte Povera, il minimalismo, un ritorno alla figurazione. L’astrazione era un po’ controcorrente…
Era già passata.
Nel saggio Still Soviet, Becoming Art, per la mostra Glasnots Sovient Non Conformist Art che si è tenuta a Londra nel 2010, Ekaterina Degov scrive che “fare arte” nel periodo del disgelo in Russia era un “affare privato”; le opere erano destinate alla famiglia, agli amici, alla cricca di artisti che si frequentava. L’attività creativa veniva vista come un passatempo da “dilettanti”. È così?
I non conformisti erano visti come dei nullafacenti e certamente non erano acquistati dallo Stato che ordinava opere importanti e pagava, ma soltanto gli artisti in linea con il regime. Poi ci sono artisti che lavorano e cercano anche di promuoversi e altri che non lo sanno fare. Kulakov era uno di quelli. Sono sempre stata io, nei margini di tempo, a darmi da fare in questo senso.
È possibile, secondo lei, interpretare la riservatezza di Kulakov, la sua tendenza a raccogliersi nel privato anche in Italia (dopo un esordio promettente come la partecipazione alla Biennale del ’77) come un imprinting degli anni del Thaw?
È possibile. Voleva i suoi spazi. Gli piaceva il suo studio qui in Umbria, la campagna. Amava i colori, la natura, gli ulivi. Si teneva lontano dalla politica. Ed è rimasto un po’ fuori dai network anche per delle coincidenze. Quando c’è stata la famosa asta di Sotheby’s dell’’88 sull’arte dei non conformisti, era già partito dalla Russia.
Uno degli obiettivi della mostra è quello di riscattare gli artisti del “disgelo” dall’invisibilità in cui la critica e la stampa li hanno mantenuti. Siamo ancora in tempo?
Non saprei. Non so se il curatore riuscirà nel suo intento. Anche in Russia Kulakov è conosciuto più dai collezionisti che dal grande pubblico.
‒ Maria Pia Masella
Mosca // fino al 9 giugno 2019
Mikhail Kulakov. The Style of the Thaw Period
MMOMA
Petrovka Ulitsa, 25
www.mmoma.ru/en
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