“Il Museo Tinguely è stato sostenuto da Roche sin dall’apertura nel 1996. Qui sono state organizzate oltre cento mostre e molte altre hanno ricevuto un sostegno sostanziale grazie al prestito di nostre opere. Siamo orgogliosi che il Museo Tinguely si sia assicurato un posto fisso nel mondo dei musei bâlois, svizzero e internazionale, e che sia considerato un luogo dove si possono vedere mostre sorprendenti, spettacolari e scientificamente fondate, e dove l’opera di Jean Tinguely è presentata in modo esemplare e rimessa continuamente in discussione. Tinguely ha incorporato gli stimoli della storia dell’arte, ponendo questioni nelle quali ancora oggi è pioniere e innovatore, e ha spesso lavorato in intensa collaborazione con altri artisti. Un percorso museale attraverso quattro decenni della sua creatività è sempre un’avventura che apre i sensi e favorisce la comunicazione” (Roland Wetzel, direttore).
Il nome Roche, inteso industria farmaceutica, e quello di Hoffmann, inteso come famiglia, attraversa in varie vesti la ricchissima scena museale di Basilea, dallo Schaulager alla Fondazione Beyeler. Qui ha però un punto fermo simbolico, poiché il museo venne inaugurato proprio per il centenario della Roche, nel 1996. Nell’edificio progettato da Mario Botta poté così trovare casa una straordinaria donazione che risaliva al 1992, quando Niki de Saint Phalle cedette cinquantadue sculture di Jean Tinguely, poi moltiplicatesi negli anni fino a raggiungere la ragguardevole cifra di 220 opere, al netto di carte e disegni e schizzi. Un patrimonio unico per chi ama l’artista svizzero, così come per chi lo studia.
Va tuttavia ribadito un punto cruciale: al Museum Tinguely la regola aurea è il confronto fra il titolare del museo e una sequenza potenzialmente infinita di colleghi, meglio se contemporanei. In questo senso, presente e futuro sono particolarmente ricchi. Ha infatti chiuso da pochi giorni Roots Canal, mostra con la quale il parigino Cyprien Gaillard porta sul Reno i cicli di erosione e ricostruzione con cui racconta gli scenari urbani, e il rapporto con l’inarrestabilità delle macchine di Tinguely è palese. Appuntamento da non perdere per il futuro prossimo è quello con la mostra che tradizionalmente inaugura nella settimana di Art Basel. Quest’anno l’onore e l’onere spetta a Rebecca Horn, in una doppia monografica che si svolge anche al Pompidou-Metz; a Basilea il focus è su Body fantasies, partendo da lavori performativi giovanili per arrivare alle più recenti… sculture cinetiche.
In ogni caso, la speranza è che la situazione metereologica sia clemente. Così da poter godere appieno di Chez Jeannot, il ristorante del museo – ma dotato di ingresso autonomo – che si affaccia sul Reno. Anzi, a essere precisi affaccia sull’unica spiaggia di Basilea, piccolo angolo paradisiaco che funge da punto d’approdo privilegiato per tutti gli abitanti della città che, per svago e per sport, si fanno trasportare dalla corrente del fiume nelle giornate di sole primaverile ed estivo.
L’ARCHITETTURA. MARIO BOTTA
Immerso nel verde del parco Solitude, lungo il fiume Reno, il Museum Tinguely è stato progettato da Mario Botta. La sua costruzione, durata dal 1994 al 1996, ha dotato la città svizzera della più importante struttura museale dedicata alla produzione di questo artista noto per le complesse sculture dinamiche. Proprio questo aspetto ha ispirato la mano di Botta nel disegno del museo: “Normalmente le opere d’arte scelgono il silenzio. Quelle di Jean Tinguely prediligono invece i rumori emessi dai loro stessi movimenti. Questa piccola differenza può aiutarci a capire la particolarità degli spazi richiesti dalle opere di questo artista. Ho sempre immaginato che i singoli lavori di Jean non necessitassero di spazi precostituiti, ma che la loro naturale condizione fosse quella di essere semplicemente parti della vita”, ha affermato l’architetto. “È difficile immaginare una fontana staccata dal proprio contesto; le opere di Jean Tinguely si presentano come fonti di emozioni che vivono e dialogano in stretto rapporto con gli spazi in cui si collocano. Perché dunque costruire un museo? Con la costruzione del museo, l’uomo rincorre l’illusione di un sogno d’eternità, aspira a resistere alle leggi del naturale degrado che tutto esaurisce”. La sfida lanciata da tale incarico, commissionato da Hoffmann-La Roche AG di Basilea, è stata risolta realizzando quattro distinti settori espositivi, ciascuno dei quali collocato su un proprio livello. Complessivamente intesi, tali spazi occupano 2.900 mq dei complessivi 6.000 mq del museo. Nonostante le diverse identità assegnate alle facciate, a rendere omogeneo e riconoscibile dall’esterno l’edificio è il massiccio rivestimento in pietra.
‒ Marco Enrico Giacomelli e Valentina Silvestrini
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #48 – Speciale Svizzera 2019
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