Per Virgil Abloh (Rockford, 1980) non esiste pratica artistica al di fuori del consumo. Sempre che quello che fa lui si possa definire con certezza arte. Questa super star dello “stile” post hip hop dubbi non ne ha. La sneaker con il laccetto di plastica (quello con cui gli “sbirri” americani fermano i polsi ai sospetti) infilato nell’occhiello delle stringhe sullo scaffale di uno shop Nike Lab e l’immagine della stessa sneaker postata su Instagram per Abloh non fanno alcuna differenza. La sua “arte” abbraccia senza remore “il meglio del capitalismo made in Usa”, ma lo fa dall’interno: riguarda più il processo che il prodotto. In Figures of Speech ora al Museum of Contemporary Art di Chicago, i suoi principi estetici e le sue ambizioni commerciali convivono senza soluzione di continuità. Abloh ha studiato architettura, è stato il braccio destro di Kanye West, ha avviato la sua linea di abbigliamento Off-White. Poi è stato chiamato a sovraintendere la linea uomo Louis Vuitton, ma continua a fare il dj ‒ lo scorso luglio era a Siracusa come guest star di Ortigia Sound System ‒, mentre collabora con Nike, Ikea, Supreme, Rimowa. “Arte”, “Capitalismo”, “Stile” sono vocaboli pericolosi da maneggiare, ma Abloh è appunto un tipetto “pericoloso”.
CONCETTUALISMO CAPITALISTA
Per capire questa mostra occorre forse ribaltarne il percorso tradizionale: partire dal Pro shop e solo a seguire entrare nelle sale espositive. Tanto per cominciare Abloh ha creato location satellite intorno al MCA: ha riempito finestre e pareti del negozio Nike in Michigan Avenue, a pochi isolati dal museo, con una marea di sneaker tagliuzzate. Sempre in Michigan Avenue il flagship store Louis Vuitton espone capi di abbigliamento disegnati da Abloh decorati con riferimenti al discorso di Martin Luther King “I have a Dream”, ad esempio giacche con un ricamo a mano sul retro a forma di Africa: una mecca del fashion stipata di abiti che urlano radicalismo collocando la storia dei neri americani al centro.
Il Pro shop all’interno del MCA lo ha ribattezzato Church & State: rigurgita di t-shirt Off-White, poster e pezzi d’arredo da lui progettati: c’è persino il profilo di un libro da colorare costruito con le sembianze di una Air Jordan Spiz’ike nei toni del rosa, verde e marrone e un canestro di swoosh di ciniglia rosa. Alla security del museo ha imposto Nike Air Force 1 azzurre progettate per l’occasione. Abloh è perfettamente cosciente che la sua più grande esposizione ce l’ha per la strada, non dentro al MCA: in questo – occorre riconoscerlo – dimostra di essere andato molto oltre i suoi colleghi designer di moda.
LA MOSTRA
In Figures of Speech Abloh propone alcune delle creazioni più importanti da lui realizzate in collaborazione con Jenny Holzer, Arthur Jafa e John Baldessari. Su una parete c’è un trittico di fotografie di Inez Van Lamsweerde & Vinoodh Matadin: un bambino nero gioca con oggetti di Louis Vuitton; la più suggestiva è l’immagine di mezzo, in cui il piccolo indossa un maglione colorato con il tema del Mago di Oz e piccole e fragili barche di carta origami sparse ai suoi piedi. Sul pavimento di fronte ci sono però 16 marcatori gialli numerati, sono quelli usati per indicare la posizione delle prove su una scena di un crimine: sedici è il numero di colpi sparati da un agente della polizia di Chicago al 17enne afroamericano Laquan McDonald nel 2014, uccidendolo.
In un’altra galleria, i vestiti sono appesi a scaffali che rendono difficile apprezzarne dettagli e forme, ma, alla fine di uno dei supporti, ad alcuni prototipi Vuitton è stata apposta una striscia lungo le maniche che recita LEWIS VUITTON. Non poteva mancare una griglia di sneaker disposte a terra su una pedana bianca, anche se per la verità qui la presentazione minimizza la loro importanza. Nello stesso ambiente campeggia una delle proposte più convincenti della mostra: altoparlanti di legno austeri ma bellissimi (Devon Turnbull, porta CD scintillanti Pioneer), presentati con la deferenza riservata a un’immagine sacra. Appesa al muro una lettera delle Nazioni Unite che rimprovera Abloh per averne usato il logo sui volantini distribuiti durante le sue esibizioni come dj.
MANIPOLATORE SERIALE
La retrospettiva a metà carriera è dunque costruita su giustapposizioni visive, sociopolitiche e persino strutturali. Uno striscione fuori dal museo mostra una fotografia di Juergen Teller, scattata nello studio di Abloh, a Londra, nel 2018. Abloh non ha escluso una “pericolosa” (di nuovo) critica al suo lavoro: il collega stilista Raf Simons – non esattamente l’ultimo arrivato ‒, interpellato circa il lavoro di Abloh come stilista, aveva descritto Off-White come una griffe portatrice del nulla: Abloh aveva immediatamente risposto con una nuova collezione intitolata per l’appunto Nothing New. In questa esposizione Abloh dà certamente il meglio di sé quando si cimenta con i suoi prodotti. Il risultato delle sue collaborazioni con Ikea è presentato in un assemblage che pare partorito da un tornado.
Sono i pezzi più vicini alle discipline artistiche tradizionali a essere però i meno stimolanti, per lo più appaiono necessari dei riempitivi: pannelli di grandi dimensioni che recano loghi bianchi su fondo nero. Occupano molto spazio, ma comunicano davvero pochino.
‒ Aldo Premoli
Chicago // fino al 29 settembre 2019
Virgil Abloh: Figures of Speach
MUSEUM OF CONTEMPORARY ART
220 E Chicago Avenue
https://mcachicago.org
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