Creatività e agenda sociale: alla Biennale di Oporto il design del Terzo Millennio
È in corso a Oporto, fino all’8 dicembre 2019, Post Millennium Tension, la prima Biennale portoghese dedicata al design. Un settore creativo sempre più presente nella nostra vita quotidiana, con il rischio di eccessi. Abbiamo parlato di questo, e altro, con il curatore José Bártolo.
In questo primo scorcio di Terzo Millennio, i concetti di conflitto e cambiamento sembrano interessare ogni ambito dell’esistenza umana. Nemmeno la produzione e il consumo, le loro metodologie, gli approcci del pubblico e della grande industria fanno eccezione. Sono in atto nuove politiche e nuovi processi creativi, sui quali cerca di riflettere Post Millennium Tension, la prima Biennale portoghese dedicata al design. Si svolge a Oporto, la seconda città del Paese dopo la capitale, fino all’8 dicembre e riserva uno sguardo particolare ai designer nati tra gli Anni Ottanta e Novanta. Fra le proposte centrali della Biennale, la mostra dal titolo Millennials ‒ New Millennium Design, allestita alla Galeria Municipal, tenta una lettura critica aperta del design degli ultimi due decenni partendo proprio dal lavoro dei progettisti più giovani anagraficamente (il distinguo è d’obbligo visto che compaiono anche nomi molto noti, per esempio Studio Formafantasma), entrati nel mondo del lavoro in anni caratterizzati da una profonda instabilità economica e politica. Di questo e altri temi abbiamo discusso con José Bártolo, curatore della Biennale e della mostra sui millennials del design.
L’Italia, ospite d’onore di questa prima edizione della Biennale, è stata a lungo il principale produttore di design in tutto il mondo. Pensa che lo sia ancora?
Nel corso del secolo scorso, l’Italia ha sviluppato una cultura fondamentale del design esportata in tutto il mondo. Da un lato, ha fissato il paradigma relativo al rapporto tra design e industria nel contesto dello sviluppo industriale del secondo dopoguerra; dall’altro, ha favorito la nascita di un contesto critico, grazie a un design radicale e a una “problematizzazione” del modo in cui abbiamo pensato al design e alla sua dimensione sociale e politica durante gli ultimi decenni del Novecento. Nel contesto del nuovo millennio, il design italiano consente una riflessione di stretta attualità sulle sfide affrontate e su come questo possa agire per affrontare le trasformazioni in atto, sia strutturali (che vanno dal nuovo contesto della produzione industriale alla crisi climatica) sia circostanziale (dalle nuove logiche dei consumatori ai problemi politici come l’emergenza migranti).
In Europa il prodotto finale è ancora importante, ma nel resto del mondo sta prendendo campo un’idea immateriale di design, ad esempio dei servizi. Pensa che questo possa essere un limite?
Credo si debba aggiornare l’agenda di discussione sul design, che non è astratta, o focalizzata esclusivamente sulle priorità dei Paesi sviluppati, ma nasce da una riflessione approfondita sull’efficacia del design di fronte alle principali sfide del mondo contemporaneo. Attualmente, il design ha un campo d’azione molto ampio e forme di materializzazione molto diverse, comprese appunto le sue espressioni immateriali.
A suo modo di vedere, quali sono, oggi, i nuovi laboratori del design nel mondo? Anche il Portogallo è tra questi?
L’esistenza di “laboratori del design” è cruciale, così come l’esistenza di osservatori. Rappresentano infatti i fondamenti di una cultura del settore e devono funzionare in collaborazione e sincronia con gli enti pubblici che supportano il design, associazioni professionali, studi di progettazione e tutti gli altri agenti nel campo del design (editori, critici, curatori, ecc.). Anche adesso, le scuole di design svolgono un ruolo cruciale in quanto laboratori di progettazione, e fungono da catalizzatori di una determinata regione. La Biennale Internazionale del Design di St. Etienne e la Biennale del Design di Porto sono esempi molto interessanti, poiché in entrambi i casi c’è una scuola di design dietro l’evento (ESAD, nel nostro caso), che funge da spazio per la creazione di cultura del design e modi d’intervento.
In che modo la Biennale interagisce con la città?
In primo luogo è promossa dal Consiglio comunale di Porto e Matosinhos. Insieme, Porto e Matosinhos formano un territorio urbano molto importante. La programmazione è stata pianificata tenendo presente la necessità di aprire numerosi spazi e toccare vasti pubblici, nonché di valorizzare entrambe le città. Sappiamo che le biennali tendono a essere eventi effimeri; per questo abbiamo cercato di sviluppare diverse strategie per contrastare questa dinamica. Una delle nostre principali preoccupazioni riguarda la creazione di pubblico e addetti al settore del design (ad esempio, curatori e giornalisti). Crediamo che la città sia un ecosistema che respira; creare un pubblico è un modo cruciale per interagire con la città.
Avete attivato collaborazioni internazionali?
Una biennale non può essere pensata al di fuori di una rete di partnership internazionali. In questa prima edizione, ospitiamo eventi internazionali come il Papanek Symposium o il congresso regionale di ico-D. Abbiamo collaborato con le migliori biennali del design europeo per creare una piattaforma comune di ricerca, produzione di conoscenza e dibattito sul design.
A partire dagli Anni Ottanta, le aziende hanno iniziato a progettare prodotti perseguendo l’impatto emotivo piuttosto che l’idea di durata, e gli stessi designer hanno mostrato poca preoccupazione per la rapida obsolescenza delle loro creazioni. Oggi l’emergenza ambientale sottolinea invece l’importanza della durata dei beni. Questa Biennale considera la problematica?
Sappiamo tutti della strategia di obsolescenza pianificata sviluppata per scopi commerciali dalle aziende dagli Anni Ottanta, così come tutti conosciamo il profondo impatto della sovrapproduzione nello squilibrio ecologico del nostro pianeta. Questa è stata una preoccupazione cardine per noi, sia nella selezione dei progetti sia nella realizzazione delle mostre. Potrei fare diversi esempi, ma prendiamo la mostra Millennials: la struttura della mostra è stata costruita interamente su mattoni di canapa artigianali; può essere riciclata e riutilizzata.
Non pensa che soffriamo di un’eccessiva esposizione al design nelle nostre vite, in particolare a causa del design thinking di matrice americana, che vuole collegarvi quasi ogni momento dell’esistenza, e del fatto che produrre oggetti “di design” è un’ottima strategia di marketing per le aziende?
Dagli Anni Ottanta assistiamo all’uso crescente e impreciso della parola “design”. Indubbiamente, contribuisce a una comprensione distorta della disciplina. Vediamone anche l’altra faccia della medaglia: differenti attori, come scuole di design, associazioni professionali ed eventi di design, hanno avuto successo nel portare il design nel dominio dell’educazione pubblica, collegando la disciplina e la sua pratica alla responsabilità sociale, ecologica e politica.
Crede che il design, in un’epoca così dinamica e piena di tensioni, abbia ancora la capacità di influenzare la società? Se sì, come?
Non credo che il design, da solo, possa cambiare il mondo. Tuttavia, credo possa contribuire a un cambiamento positivo. Il campo del design è cresciuto negli ultimi anni e al giorno d’oggi vediamo designer completamente impegnati in progetti che vanno dalla ricerca alla speculazione su possibili futuri, dal lavoro sul campo in aree svantaggiate allo sviluppo di soluzioni tecnologiche innovative. Inoltre, credo che attualmente il design abbia un’agenda e includa, con grande determinazione, la volontà di migliorare il mondo in cui viviamo.
‒ Niccolò Lucarelli
https://portodesignbiennale.pt/en
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