Di barriere e altri demoni. Una mostra per i trent’anni dalla caduta del Muro di Berlino
Gropius Bau, Berlino ‒ fino al 19 gennaio 2020. A trent’anni dalla caduta del Muro, e a settanta dalla fine del blocco aereo su Berlino Ovest imposto dall’Unione Sovietica, 28 artisti si confrontano sulla doppia dimensione di idea e fisicità della barriera e delle sue implicazioni, in prospettiva storica e contemporanea.
Fra arte visiva e architettura, la mostra indaga i concetti di spazio e confine, le possibilità di andare o non andare oltre, di interagire con l’altro e con il territorio circostante, inserendosi in un momento storico in cui la società è attraversata da nuove correnti di divisione. Un percorso concettuale tra metafora, realtà e resistenza civile, passato e futuro, sviluppato attraverso un allestimento di analogie e differenze: le fotografie del muro in demolizione risalenti al 1990, che lasciano intravedere un futuro di libertà, contrastano con le barriere ancora esistenti: l’installazione audio-video di Smadar Dreyfus, Mother’s Day (2006-08), racconta il dramma delle famiglie separate lungo il confine israelo-siriano, una delle zone più calde del pianeta. Le registrazioni dei saluti che madri e figli si scambiano da una parte all’altra della barriera rappresentano l’urgenza di raggiungere un’impossibile vicinanza e intimità, esattamente come accadeva a Berlino dal 1961 al 1989. In virtù di questo confronto, la mostra rappresenta una riflessione critica sull’impatto emotivo, psicologico e fisico del dover convivere con le divisioni, reali o metaforiche che siano.
Gli artisti presentano opere in cui la materia si fa strumento di lotta civile, ricrea situazioni sconosciute ai più e cerca di farsi portavoce delle sofferenze di chi ha subito una qualsiasi forma di separazione o di prevaricazione. Situazioni che sono ben lungi dall’essere scomparse; gli Stati di polizia sono ancora vivi, ad esempio in Cina o in Russia, e Tagreed Darghouth, in forma di pittura neoespressionista, ironizza sull’occhiuta presenza delle videocamere nelle strade e nelle piazze di molte città, tese a spiare i movimenti dei cittadini e a prevenire qualsiasi forma di dissenso.
MURI MENTALI
L’oppressione politica è uno dei punti di vista della mostra. Un altro, non secondario, è quello dell’indifferenza verso l’altro, strumento non meno pericoloso con cui creare barriere di separazione. Riflette su questo tema, ad esempio, José Bechara, con l’installazione Ok, Ok, Let’s Talk (2006), dove i cinquanta tavoli da pranzo sono attraversati da “fratture” che producono distanze inaspettate; una metafora sull’impossibilità del dialogo a causa di muri invisibili dovuti a cattiva disposizione d’animo. Cattura il momento urgente di un dialogo delicato, ma necessario. E ancora, riferita alla stretta attualità, Beach of Plenty di Michael Kvium indaga l’emergenza sbarchi: una pittura realistica dal taglio cinematografico, che stigmatizza l’indifferenza dei bagnanti, metafora del muro mentale con cui i migranti dovranno scontrarsi.
Suggestivo l’inedito Orbital I (2018) di Mona Hatoum, che utilizza la metafora delle orbite siderali per ricordarci come, a dispetto delle divisioni artificiali, il destino di tutta l’umanità ruoti attorno al medesimo pianeta. Una mostra concettuale caratterizzata da un allestimento diffuso e avvolgente, con opere per lo più di grandi dimensioni, che danno vita a una sorta di percorso emotivo e psicologico, da cui emerge il carattere civico di un progetto che va al di là delle sole questioni artistiche.
‒ Niccolò Lucarelli
Berlino // fino al 19 gennaio 2020
Walking Through Walls
GROPIUS BAU
Niederkirchnerstraße 7
https://www.berlinerfestspiele.de
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