Il Centre Pompidou-Metz offre con questa mostra una riscoperta della settima arte, attraverso una delle figure più monumentali e mitiche della sua storia: Sergej Michajlovič Ėjzenštejn (Riga, 1898 – Mosca, 1948), creatore, amatore, collezionista ed editore di immagini, un autentico visionario sempre interessato alla sperimentazione radicale. I curatori Ada Ackerman, Philippe-Alain Michaud e lo scenografo Jean-Julien Simonnot esplorano metodi espositivi innovativi che consentono il confronto di immagini ‘fisse’ e immagini in movimento e di presentare i film in una forma che va ben al di là di una proiezione sullo schermo. La scenografia trae ispirazione dall’estetica costruttivista contemporanea dell’artista e fa uso di strumenti di dilatazione degli spazi in proiezioni monumentali e di dispositivi analitici che permettono una dissezione anatomica dei tempi nell’immagine: con l’uso del rallentatore, con l’estrazione di loop e congelando frame.
I film nello spazio espositivo sono posti a contatto con altre opere e altri mezzi di espressione artistica e si permette allo spettatore di esplorare una modalità rivoluzionaria di visibilità delle pellicole, utilizzando tutti questi i dispositivi analitici anche per far emergere i riferimenti iconografici nel cinema di Ėjzenštejn, riprendendo gli effetti di montaggio sviluppati nel suo cinema, in modalità di collisione.
Il percorso espositivo, progettato secondo uno schema cronologico e monografico, combina così un approccio didattico che consentirà al visitatore di scoprire le fonti artistiche di ciascuno dei film e un approccio immersivo che li inviterà a entrare in una successione di spazi ogni volta singolare, ogni lavoro del regista mobilita una serie di riferimenti e uno stile specifico. Infine, l’ultima sezione della mostra, invertendo l’approccio, indica il modo in cui Ėjzenštejn, dall’inizio degli Anni Trenta, ha usato il cinema non solo come arte, ma anche come metodo e strumento teorico, che gli consentirà di analizzare opere del passato, architettoniche, grafiche, pittoriche o scultoree in termini cinematografici.
ĖJZENŠTEJN, IL CINEMA, L’ARTE
Ėjzenštejn, come teorico, rilegge la storia dell’arte alla luce del cinema. Il cinema non rappresenta tanto per lui un mezzo tecnico quanto la risposta più complessa alle esigenze umane. A questo proposito, il cinema gli consente di ripensare l’intera storia dell’arte e della cultura mondiale, che si riflette nella mostra in una galleria di dipinti e sculture analizzati in termini cinematografici. Questa storia dell’arte alla Ėjzenštejn usa l’anacronismo ed è aperta alle culture extra-occidentali. L’atlante di immagini di Ėjzenštejn è estremamente vasto e comprende dai capolavori della storia dell’arte mondiale alle opere dei suoi contemporanei russi e stranieri, ma anche e soprattutto il patrimonio artistico che precede l’apparizione del cinema: pittura, scultura, incisione, disegno e architettura. In mostra sono esposte le opere, fra gli altri, di Charlie Chaplin, Honoré Daumier, James Ensor, Francisco de Goya y Lucientes, Le Corbusier, Vassily Kandinsky, Michelangelo Buonarroti, Tina Modotti e Tintoretto.
Risponde ad alcune domande Philippe-Alain Michaud, curatore della mostra, autore di libri come Aby Warburg and the Image in Motion (Zone Books, 2002 e Macula 2012), Le peuple des images (Desclée de Brouwer, 2004), Sur le film (Macula, 2016) e curatore di altre numerose esposizioni tra cui: Comme le rêve le dessin (Musée du Louvre/Centre Pompidou, 2004), Le mouvement des images (Centre Pompidou, 2006), Tapis volants (Villa Medici, Roma e Les Abattoirs, Toulouse, 2010), Images sans fin, Brancusi photographie, film (Centre Pompidou, 2012, con Clément Cheroux e Quentin Bajac), Beat Generation (Centre Pompidou, 2016, con Rani Singh e Jean-Jacques Lebel).
L’INTERVISTA A PHILIPPE-ALAIN MICHAUD
Puoi raccontarci qualcosa di più sulla storia di questo grande progetto e sul tuo ruolo in questa mostra ambiziosa e unica su Ėjzenštejn?
È una lunga storia. Abbiamo iniziato a pensare al progetto quasi dieci anni fa, in origine eravamo tre curatori, Dominique Païni, l’allora direttore della Cinémathèque française che è uno dei pionieri della mostra sul cinema, Ada Ackerman, una grande specialista del cinema russo negli Anni Dieci e Venti e in particolare nel cinema di Ėjzenštejn e io, che sono responsabile della collezione di film del Museo Nazionale di Arte Moderna al Centre Pompidou. Alla fine Dominique si ritirò dal progetto e io e Ada abbiamo lavorato in coppia. La ragione che ci ha spinto a lavorare a questa mostra è il fatto che il nome Ėjzenštejn non ha più evocato nulla alle giovani generazioni, mentre negli Anni Settanta e Ottanta, quando i Cahiers du cinema in Francia hanno iniziato a tradurre i suoi testi, lo hanno reso una vera icona, sia nel campo della teoria che della pratica cinematografica. Ci siamo quindi posti la domanda su come potremmo, attraverso il dispositivo della mostra, esporre il cinema di Ėjzenštejn in modi che non possono essere ridotti a una semplice proiezione dei film al cinema: come rivelare cose che rimangono invisibili o latenti nell’esperienza della proiezione?
E quale risposta vi siete dati?
La specificità del cinema di Ėjzenštejn è la sua natura sincretica. Combina fonti visive estremamente disparate, mescolando “alto e basso”, l’antico e il moderno e fa appello a tutti i mezzi ‒ pittura, disegno, scultura, architettura … Abbiamo così mostrato le fonti evocate da Ėjzenštejn, dai costruttivisti russi a Piranesi o Michelangelo, confrontando le opere con le immagini dei suoi film per far luce sulla loro genesi e costruzione. Ma non ci siamo fermati a questo. Ėjzenštejn considerava se stesso storico dell’arte e regista, infatti nella seconda metà della sua carriera, dall’inizio degli Anni Trenta fino alla sua morte, ha insegnato cinema a Mosca, ma il cinema è diventato per lui il metodo per pensare alla storia dell’arte in tutte le sue dimensioni, spostandosi attraverso mezzi, periodi ed epoche culturali senza limiti con una mente aperta e una capacità di assimilare favolosa ‒ questo è probabilmente il motivo per cui spesso è stato chiamato il Leonardo da Vinci del XX secolo, espressione che in realtà non ci dice molto.
Puoi spiegarci la scelta del titolo della mostra e le sue sezioni?
Nel titolo della mostra ci riferiamo all’estasi, un tema che attraversa tutto il pensiero di Ėjzenštejn e designa i poteri ‘di Proteo’ di un cinema in grado, attraverso il fenomeno del montaggio, di produrre un effetto di fusione tra le forme e creare metamorfosi. L’estasi si riferisce anche a un tema dionisiaco, molto presente nella sua estetica, ma anche nella sua teoria (Dioniso smembrato dai Titani e resuscitato dai suoi membri dispersi è, per Ėjzenštejn, il dio del montaggio) di cui troviamo traccia nella sua opera grafica ‒ perché Ėjzenštejn era anche un grande disegnatore. Le sezioni della mostra sono progettate in ordine cronologico: una prima sezione è dedicata alle prime esperienze teatrali insieme a Vsevolod Meyerhold, ogni film realizzato è oggetto di un lavoro specifico, che ogni volta coinvolge un sistema di riferimento specifico e sviluppa un suo stile particolare. Dunque si passa in rassegna Lo sciopero, La corazzata Potëmkin, Ottobre, The General Line, Que Viva Mexico!, Alexandre Nevski e Ivan il Terribile. L’ultima sezione, concepita come una galleria di Ėjzenštejn, è dedicata al modo in cui Ėjzenštejn, come ho detto, ha usato il cinema per guardare alla storia dell’arte. Alla fine, era impossibile rendere conto di tutti i progetti non realizzati del regista, ma una sezione è dedicata a Glasshouse, il film che voleva girare in un grattacielo trasparente, sotto l’influenza degli sviluppi contemporanei dell’architettura del vetro.
La mostra esplora le relazioni di Ėjzenštejn con le arti e il cinema della sua epoca, ma quali sono gli artisti che hanno più importanza per lui?
La gamma di artisti che contavano per lui è infinitamente ampia: da Vladimir Rodchenko a Lioubov Popova o Alexandre Deineka per i contemporanei, a Michelangelo, Tintoretto o El Greco per i classici. Ma è anche interessato alle tradizioni extra-occidentali ‒ in Messico a José Guadalupe Posada o David Alfaro Siqueiros e in Giappone a Hokusai o Hiroshige.
E quale è il ruolo dell’artista nella società per Ėjzentejn?
Il discorso di Ėjzenštejn ha due origini: adotta ovviamente l’ideologia marxista che attribuisce un ruolo funzionale alla produzione artistica nel processo di liberazione delle masse, prima con entusiasmo all’inizio degli Anni Venti, poi in maniera più limitata durante il periodo stalinista. Ma, allo stesso tempo, tutta la sua pratica tende ad affermare l’autonomia e l’indipendenza della figura dell’artista ‒ e sarà, sempre più negli Anni Trenta, soggetto a virulente critiche ideologiche da parte dei membri del partito che denunceranno le sue posizioni borghesi e reazionarie.
Se le interpretazioni ideologiche riducono il suo lavoro al contesto storico dell’URSS comunista e alle sue relazioni con Stalin, in quali termini è possibile pensare a una lettura fuori dal contesto politico senza rischiare di vederne affievolire la forza?
Per restituire tutta la forza al lavoro di Ėjzenštejn, dobbiamo mostrare al contrario come si emancipa dal suo rigido quadro politico: come è trasgressivo dall’inizio alla fine. Tutti i suoi film sullo sfondo, da Lo sciopero a Ivan passando per Que Viva Mexico!, sono storie di liberazione o fondamenti di uno stato moderno. Ma, allo stesso tempo, sono attraversati da forme espressive, patetiche o formali, che vanno oltre e trascendono la semplice narrazione. Ad esempio, riguardo al tema omoerotico, che è stato a lungo escluso dall’esegesi di Ėjzenštejn, la mostra consente di migliorare la comprensione più di quanto non lo consenta la proiezione.
La scenografia e l’accrochage come tengono conto dei principi fondamentali della pratica cinematografica di Ėjzenštejn, come il montaggio-conflitto, il montaggio-collisione, l’estasi?
Lo scenografo Jean-Julien Simonot ha avuto l’idea di usare impalcature che si riferissero alla cultura costruttivista, hanno permesso un accrochage fluido esprimendo anche una nozione di incompletezza e di laboratorio dell’artista. La struttura ci ha anche permesso di sfruttare la verticale, essendo la verticalizzazione dell’aereo, per Ėjzenštejn, un’altra fonte di estasi. La navata del Centre Pompidou-Metz, che in alcuni punti è alta quattordici metri, ci ha permesso di ottimizzare questi effetti di verticalizzazione e monumentalizzazione dell’immagine. E, naturalmente, nell’accrochage, nel confronto di pittura, scultura e immagini in movimento, abbiamo usato tutte le sfumature della teoria del montaggio eisensteiniana, dall’assemblaggio intellettuale (che rende possibile produrre concetti mediante immagini) al montaggio che consente, dall’improvvisa interruzione della storia, di produrre un effetto di stupore sullo spettatore.
IL CENTRE POMPIDOU-METZ
Primo esempio francese di decentramento di un edificio pubblico culturale il Centre Pompidou a Metz compie dieci anni quest’anno. Il museo si trova nel quartiere dell’Anfiteatro, tra il parco della Seille e la Stazione di Metz Ville. L’idea di creare una filiale in un’altra zona della Francia venne nel 1997 al direttore del Centre Pompidou, Jean-Jacques Aillagon. Il museo venne infatti chiuso per lavori dal 1997 al 2000, e per continuare a esporre le varie collezioni si decise di creare il progetto Fuori dai muri, consistente nell’esposizione delle varie collezioni del Centre Pompidou nelle gallerie di diverse città francesi. In seguito al successo dell’iniziativa si pensò di creare in maniera permanente una seconda sede del Centre Pompidou in Francia. Aperto al pubblico nel 2010 nell’ambito di un progetto di sviluppo del quartiere dell’Anfiteatro, il Centre Pompidou-Metz è uno dei musei più visitati in Francia, esclusa Parigi, grazie alla sua posizione privilegiata, confinando con Lussemburgo, Germania, Belgio.
A occuparsi del progetto di costruzione sono stati gli architetti Shigeru Ban, Jean de Gastines e Philip Gumuchdjian. Il Centre Pompidou-Metz presenta una pianta esagonale e la sua struttura si sviluppa attorno a un corpo centrale con una torre alta 77 metri e si caratterizza per la presenza di tre gallerie orientate verso punti diversi della città. Interamente realizzata in legno, la copertura ha la forma di un copricapo tradizionale che apparteneva all’architetto cinese Shigeru Ban. Il museo ha un vasto spazio espositivo di 5mila metri quadrati e la struttura comprende luoghi per l’accoglienza del pubblico, una sala per spettacoli e performance artistiche, giardini, un auditorium, una libreria, ristorante e caffè. Nel 2019 ne è diventata direttrice Chiara Parise.
‒ Elisabetta Villari
Metz // fino al 24 febbraio 2020
L’Œil extatique. Sergueï Eisenstein, cinéaste à la croisée des arts
Centre Pompidou-Metz
1, parvis des Droits-de-l’Homme
https://www.centrepompidou-metz.fr
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