Papa Bergoglio e il vuoto di Piazza San Pietro. Un’idea di Dio, fra cinema e sacro
Per alcuni è manifestazione di bigottismo, idolatria e strategia del consenso. Per altri – la maggioranza – un momento di altissima commozione. Certo, l’immagine di Papa Francesco che cerca Dio, dinanzi a una piazza insolitamente deserta, è già storia. Cronaca di un momento tragico, con molte implicazioni di senso.
Una macchina scenica perfetta. Espressione di una potenza mediatica e – per l’immensa platea dei credenti – anche spirituale, destinata a meritarsi un posto di riguardo tra le pagine di storia. Lo sguardo in presa diretta dei testimoni è già proiettato in avanti, verso il filtro della memoria che verrà. Là dove il XXI secolo sarà ricomposto e restituito, in termini di sintesi iconografica e narrativa, il teatro liturgico, cinematografico, letterario e televisivo, messo in piedi il 27 marzo 2020 da Papa Francesco, si farà, come ha già iniziato a farsi in queste ore, spirito del tempo e rigorosa formulazione estetica.
Still video, fotografie, istantanee di una mise en scene studiata con intelligenza, sono – ancora una volta, come nella millenaria tradizione cattolica – strumento per celebrare la Chiesa e i suoi Ministri, per dare forma tangibile a Dio, per mettere negli occhi, nelle mani e nella tensione desiderante dei fedeli l’enormità di una Parola misteriosa, che solo la mediazione magica dell’Ecclesia si dice in grado di trasferire, nel più stupefacente dei modi.
Il meccanismo della seduzione e il piano della dottrina coincidono, da sempre, facendosi produzione artistica, opulenza massima, comunicazione spinta fino all’epifania. Ieri una pala d’altare, una cattedrale gotica, il teatro medievale dei misteri, oggi una scena strappata, magistralmente, a un film di Sorrentino.
L’OMELIA SOLITARIA, TRA VECCHI SIMBOLI E VUOTI NUOVI
Bergoglio è solo, all’imbrunire, sotto una pioggia battente, tra le luci grigio-azzurre di una metropoli fantasma. Solo, dinanzi alla magniloquenza di una piazza implosa nel silenzio, mondata dai rumori, dal brusio, dall’ordinario accumulo di corpi e di preghiere, dalle idolatrie, dagli esercizi imperfetti di una fede che rassicura, dalla grammatica immutabile della venerazione. San Pietro come non si era visto mai. L’obelisco che collega al cielo. La strada di fronte, verso l’infinito. Una scenografia dalla potenza squarciante. L’immenso spazio sacro davanti alla Basilica è più vuoto di sempre, a confronto con la piccola sagoma bianca, immobile sul palco. Prega, il Papa, vicario di Cristo e messaggero di Dio, per un pianeta alle prese col più violento dei nemici: il contagio virale. Invisibile, sconosciuto, subdolo, rapido, mortale. La pandemia mette in ginocchio il mondo, la Chiesa fa sentire la sua voce e la condensa in un’immagine che ambisce a interpretare la tragedia attuale, drammatizzata nella cornice sontuosa di un immutabile, religioso mainstream.
Inedita la scena di quest’omelia solitaria, al centro della gigantesca agorà vaticana; e antichi i simboli, lo sfarzo, i significati e le figure, dall’ostensorio aureo allo sfavillio dei paramenti, dal crocefisso quattrocentesco della Chiesa di San Marcello – lo stesso che fu portato in processione per sconfiggere la peste nel 1522 – all’invocazione della Madonna Salus populi romani, fino al trigramma di San Bernardino, ricamato in oro sul bianco mantello papale, con le iniziali dell’espressione “Iesus Hominum Salvator”, incastonate nei 12 raggi (come i 12 apostoli) di un sole che scalda, salva, purifica, guarisce.
ARTIFICIO O COMMOZIONE?
Per gli atei più severi si tratta, in definitiva, dell’ennesima manifestazione di un pontificato ultra-pop, proteso verso il consenso con i mezzi più spettacolari e con i più retorici artifizi, per altro ancora arroccato su posizioni teologiche vecchie un migliaio d’anni: il rito della benedizione straordinaria Urbi et Orbi, concessa con un recentissimo provvedimento della Penitenzieria Apostolica ai malati di Coronavirus, a chi li assiste e a chiunque – con loro – si unisca alle preghiere e alle liturgie ufficiali, ha il sapore di un retaggio vetusto, ingenuo, non privo di residui di superstizione: lo sconto delle pene con le indulgenze plenarie, che il 27 marzo ha preso forma durante il rito in mondovisione, assicura ai vivi una rinascita piena, come nella purezza battesimale, sottraendo anni di Purgatorio e azzerando miracolosamente il contatore dei peccati.
Eppure, al netto delle più scettiche letture, che si scontrano con l’enfasi di credenti, fedeli, devoti, quelle immagini si depositano nel cuore della sensibilità collettiva. E restano. E generano senso, emotività, comunque discussione.
L’ESTETICA DEL VUOTO, AI TEMPI DEL CORONAVIRUS
Funziona, questa piazza sovraccarica d’energia, in cui i molti significati sottesi tracciano linee di tensione linguistica, empatica, concettuale. E funziona proprio perché, da un punto di vista estetico, è costruita a dovere. La pletora di gesti, simboli, segni, opere d’arte intraviste oltre la soglia della Cattedrale, grandiosi brani architettonici – tutti strumenti per dare forma al divino, concretezza all’immateriale, visibilità a ciò che non si vede – fronteggia un vuoto clamoroso. Basta questo a ipnotizzare.
Il vuoto della piazza traduce l’impossibile visione di una folla evaporata, di una benedizione solitaria (se non fosse per gli ascolti record tra web e tv), di una massa costretta a scomparire, là dove morte e malattia sfidano i corpi, li separano e li sottraggono allo spazio pubblico, al rito sociale. L’ombra del virus intanto corre sotto traccia, germina nella dimensione dell’invisibile e del minaccioso, e genera ulteriore invisibilità, assenze, distanze, sparizioni massicce. Il vuoto monumentale di San Pietro diventa allora la rappresentazione ieratica del vuoto che si sconta in questo frangente buio, nelle vite di tutti, nella pausa dell’attesa, nel vincolo della chiusura forzata, nella resa dinanzi al lutto e nelle cifre esponenziali delle vittime e dei sopravvissuti.
Il vuoto è ancora quello del caso, del male che avanza oltre il controllo, del destino che non si scorge e non si doma. E infine è il vuoto di un Dio che si nasconde, che riposa, che non fa più capolino, che consente al male di avanzare e che non si scorge più, nel mezzo del dolore.
Papa Francesco legge, a proposito, alcuni passi dal Vangelo di Matteo, la vicenda di un naufragio scampato e di un Gesù addormentato, cullato dalle onde, incurante dei pericoli del mare: “Signore svegliati, non lasciarci nella tempesta!”, chiede il Santo Padre, evocando la paure dei discepoli, spaventati dalle acque furiose ma anche dall’apparente disinteresse di un figlio di Dio che non agisce e non si prodiga. Gesù, però, ridestatosi dal suo sonno, dice loro: “ «Perché avete paura, uomini di poca fede?» Quindi levatosi, sgridò i venti e il mare e si fece una grande bonaccia. I presenti furono presi da stupore e dicevano: «Chi è mai costui al quale i venti e il mare obbediscono?»”.
IL DIO NASCOSTO
L’assenza del “deus absconditus” è prova di fede, giusto là dove la mano che salva non si vede e non si vede riscatto, sollievo. Là dove il sacro stesso è sottrazione, estetica del vuoto, parola mancata. Là dove insiste il terrore, dove il conflitto si fa aspro, dove il vuoto stesso dà misura e dismisura dello scoramento, essendo l’uomo inerme al cospetto dell’imponderabile. Gesù che si sveglia a un passo dall’affondamento e che dà prova della sua potenza è, ancora una volta, conferma e dimostrazione; ma è soprattutto un’indicazione teologica, filosofica: nell’assenza di Dio si fa spazio la presenza, come parola custodita, come esempio che ritorna, come volto dell’Altro e terreno mai battuto, come forza intimamente recuperata e proiezione di sé verso un altrove. Tra esercizio della volontà e senso del sacro.
Un altro Papa amatissimo, Karol Wojtyla, in pochi luminosi versi seppe concentrare quest’idea sottile. Trovando Dio, di nuovo, nel luogo dell’incerto, dell’infinitesimale, del suo nascondimento. Una lirica giovanile, tratta dal “Canto del Dio nascosto” (1944), recita:
“Dio venne fin qui, si fermò ad un passo dal nulla
ai nostri occhi vicinissimo.
E parve ai cuori aperti
e parve ai cuori semplici,
sparito all’ombra delle spighe”.
Piazza San Pietro deserta è il palcoscenico di un capo religioso che cerca Dio, a un passo dal nulla, dove Dio non si vede. È un colpo di teatro, una performance, una sceneggiatura azzeccata, una fotografia che si fa cronaca e memoria, ed è un’interessante catena di meditazioni intorno all’uomo e allo spazio in cui, tragicamente, egli sperimenta il proprio limite e il suo superamento. Spazio sacro, tout court, anche per chi non crede, per chiunque voglia di un’immagine – al di là della finzione scenica e delle strategie di comunicazione – intercettare l’ossatura, lungo il piano aperto del sensibile e attraverso la storia.
– Helga Marsala
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