Black Lives Matter: la reazione dei musei americani

A pochi giorni dall’uccisione del cittadino nero americano George Floyd da parte di un poliziotto bianco, il mondo intero ha risposto con manifestazioni e proteste. Ma come hanno reagito le istituzioni culturali americane?

In queste settimane un moto di coscienza sta attraversando l’America. Le immagini di un poliziotto bianco che uccide il cittadino nero George Floyd hanno costretto il Paese a guardare in faccia il razzismo che pervade la società americana. Al grido di Black Lives Matter, uno slogan che non dovrebbe essere necessario e proprio per questo è dolorosamente efficace, le proteste sono esplose in tutti gli Stati dell’Unione. E, nonostante i disordini, le auto incendiate, le vetrine spaccate e i negozi saccheggiati (che, va detto, potrebbero essere, almeno in parte, opera di infiltrati), una grossa parte della società americana si è affrettata a offrire la propria solidarietà ai movimenti di piazza.
Anche il mondo dell’arte ha reagito. Prima ci sono stati i murales con cui street artist di tutto il Paese hanno decorato le proprie città per esprimere messaggi di supporto al movimento e per chiedere giustizia sociale e la fine del razzismo. Il più famoso è la gigantesca scritta Black Lives Matter dipinta in caratteri gialli davanti alla Casa bianca, poi ripresa in altre città americane da costa a costa.
C’è stato Banksy che ha creato un’opera in omaggio al movimento accompagnata da una dichiarazione che spiega che questo non è un problema dei neri, bensì dei bianchi. C’è stato l’artista Adam Pendleton che ha scritto un accorato editoriale su Art News in cui spiega il complesso mix di emozioni che in questi giorni molti neri americani stanno provando. C’è stata la guida Take 3 to Act creata dall’artista Derrick Adams e dallo chef Marcus Samuelsson per incoraggiare la comunità afroamericana ad affrontare questi giorni di doppia emergenza Covid (la popolazione di colore è stata colpita dal virus tre volte di più di quella bianca) e razzismo attraverso il lutto, la riflessione e la compassione. Ci sono state le tante gallerie che hanno organizzato campagne in supporto del movimento, donando il ricavato della vendita di opere d’arte alle organizzazioni che sostengono gli attivisti di Black Lives Matter. E fin qui tutto bene. Poi sono arrivate le dichiarazioni di solidarietà dei grandi musei. Ed è lì che le solite dolorose contraddizioni tipiche delle frange progressiste della società americana sono venute a galla.

Brooklyn, 7 giugno 2020. Black Lives Matter. Photo © Francesca Magnani

Brooklyn, 7 giugno 2020. Black Lives Matter. Photo © Francesca Magnani

MUSEI E BLACK LIVES MATTER

Il 31 maggio il Getty Museum di Los Angeles ha pubblicato sui social una dichiarazione generica che invocava “equità e imparzialità” e si augurava un futuro di “giustizia e pace per tutti”, senza mai nominare il movimento Black Lives Matter né George Floyd o alcuna delle decine di donne e uomini di colore uccisi dalla polizia. L’importanza di dare un nome alle vittime della brutalità della polizia viene regolarmente sottolineata dagli attivisti, per umanizzare ogni singolo caso ed evitare la freddezza del dato statistico. Criticatissimo, il museo ha poi fatto seguire un secondo e più lungo comunicato in cui nominava George Floyd ma non il movimento. Le critiche non sono mancate anche in questo caso e, tra i commenti al post su Instagram, c’è stato chi ha fatto notare che le dichiarazioni del museo suonavano superficiali e ipocrite per una istituzione che ha un 70% di impiegati bianchi, mentre ai neri riserva quasi esclusivamente lavori nella sicurezza. C’è stato anche chi ha commentato che, con una parte di opinione pubblica (tra cui il presidente) che considera i manifestanti terroristi, il Getty ha evidentemente preferito non esporsi troppo in favore di Black Lives Matter.
Non è andata meglio al San Francisco Museum of Modern Art che, in solidarietà con le proteste, aveva postato un’opera di Glenn Ligon accompagnata da una frase dell’artista, noto per il suo lavoro su razza e identità. Anche qui gli utenti hanno evidenziato l’assenza di riferimenti precisi alle vittime e al movimento finché il museo ha bloccato i commenti per poi scusarsi qualche giorno dopo. Nel frattempo, anche il Metropolitan Museum di New York aveva utilizzato opere di Ligon per mandare attraverso i social un messaggio di solidarietà a Black Lives Matter. Ma proprio dall’artista stesso è arrivata una reazione di fastidio per queste appropriazioni arbitrarie: in un post su Instagram, Ligon si è lamentato di non essere stato interpellato, né di aver ricevuto alcuna scusa da chi ha sbagliato. Per parte sua il Met è riuscito comunque a mandare un messaggio più sentito e credibile di altre istituzioni. Nel comunicato inviato al proprio staff, il presidente Daniel Weiss e il direttore Max Hollein si sono impegnati ad aumentare gli sforzi per diversificare il proprio staff, ammettendo che tanto ancora c’è da fare. Anche il MoMA ha affidato agli artisti neri della propria collezione il compito di comunicare, via social, l’impegno del museo contro il razzismo e la violenza della polizia nei confronti dei cittadini neri, postando opere di David Hammons e Jacob Lawrence, seguite poi da altri post con espliciti riferimenti alle vittime della violenza perpetrata dalla polizia e con liste di organizzazioni antirazziste e per la giustizia sociale. Dal Queens, invece, la sezione distaccata del museo, il MoMA PS1, ha distribuito ai manifestanti acqua e snack e consentito loro di usare i propri bagni. Altre istituzioni hanno fatto lo stesso, prendendo esempio dai teatri di Broadway e aprendo le proprie porte ai manifestanti permettendo loro di usare i bagni e riposarsi negli spazi di ingresso. Tra questi anche il Brooklyn Museum. Di segno contrario la reazione del New Museum di New York, che si è barricato dietro tavole di legno, cosa che hanno fatto anche diverse gallerie in città. Va detto però che il museo diretto da Massimiliano Gioni ha anche emesso un comunicato in cui ammette la complicità delle istituzioni culturali nel perpetrare un razzismo sistemico. Il museo dichiara di impegnarsi a riformare il campo dell’arte con azioni concrete.

Brooklyn, 7 giugno 2020. Black Lives Matter. Photo © Francesca Magnani

Brooklyn, 7 giugno 2020. Black Lives Matter. Photo © Francesca Magnani

L’AMERICA E IL RAZZISMO

Intenzioni apprezzabili ma, a grattare sotto la superficie degli accorati post sui social e comunicati stampa inviati in questi giorni da musei e gallerie di tutto il Paese, non è difficile leggere il tentativo di lavare il senso di colpa di istituzioni fortemente radicate in una cultura biancocentrica che relega ancora i neri in posizioni di marginalità. Uno studio condotto la scorsa estate da un gruppo di storici dell’arte del Williams College (Massachusetts), per esempio, evidenzia come l’85.4% dei lavori inclusi nelle collezioni dei maggiori musei americani sia opera di artisti bianchi, mentre solo l’1.2% è di artisti afroamericani. La situazione non è molto più rosea per lo staff dei musei. Una ricerca congiunta della Andrew W. Mellon Foundation, la Association of Art Museum Directors, e l’American Alliance of Museums su 332 musei d’arte ha rilevato che nel 2018 solo il 16% dei curatori e il 26% degli addetti alla didattica era di colore, in una nazione in cui è di colore (una definizione che include chiunque sia altro da bianco) il 40% della popolazione.
E a viverci, nella società americana, queste sono cose che non passano inosservate come non passano (più) inosservate le decine di casi di uso sproporzionato della forza da parte della polizia nei confronti dei neri, né la differenza nelle pene cui vengono condannati i cittadini di colore rispetto ai bianchi, né la sistematica discriminazione che costringe i cittadini neri in ruoli subalterni, né il pregiudizio che ancora circonda la cultura afroamericana. L’America che in queste settimane sta facendo i conti con i propri fantasmi è l’America che ha abolito la segregazione da poco più di cinquant’anni, un’America che ha demonizzato parte del movimento per i diritti civili e che poi, con un presidente nero e le tante star hip hop, si è lavata la coscienza e si è illusa di essere cambiata. Ma l’America non si è ancora liberata del peccato originale della schiavitù che si ripercuote su una storia fatta di linciaggi e persecuzioni, emarginazione, diritti negati, incarcerazione di massa, discriminazioni, violenze sistematiche e traumi ricorrenti inflitti con noncuranza da una società che quando cerca di correggersi spesso scade nel paternalismo. E negli anni di Donald Trump alla Casa Bianca quella storia torna a riaffacciarsi con il volto inquietante dei suprematisti bianchi che scendono in piazza armati in favore di un presidente che a quell’elettorato strizza l’occhio. E allora, in questa America, non bastano vaghe dichiarazioni di solidarietà in favore di un movimento che ha nel nome un’ovvietà, ma serve un cambiamento culturale profondo, radicale e onesto. Perché solo quando un cambiamento del genere avverrà, un uomo di colore potrà andare tranquillamente a fare birdwatching a Central Park senza che una donna bianca chiami la polizia gridando di essere stata aggredita da un afroamericano solo perché questi le aveva chiesto di legare il suo cane, come è successo qualche settimana fa.
Il 25 maggio è morto George Floyd, ma ogni giorno negli Stati Uniti muore una cultura occidentale che non è stata in grado di mantenere le proprie promesse e che ha tradito le proprie premesse quando ha fatto passare l’assurda idea, scientificamente scorretta, che nella specie umana ci siano diverse razze. Negli Stati Uniti si continua a usare impropriamente questo termine anche nei moduli istituzionali e per molti integrazione e accettazione non sono concetti ormai obsoleti ma sono ancora una pillola da ingoiare, mandandola giù con litri di ipocrita politically correct. È per questo che fa male l’esistenza stessa di un movimento che debba prendere nome da uno slogan che afferma quel che è ovvio. Negli Stati Uniti e nel mondo esistono gruppi di esseri umani che per secoli sono stato sfruttati sulla base di una premessa di inferiorità. Serve un nuovo umanesimo che spazzi via una volta per tutte quella premessa. Le istituzioni culturali possono e devono essere protagoniste di questo cambiamento culturale, portatrici di un messaggio che elimini per sempre la parola razza da qualsiasi discorso relativo alla specie umana. Più che aumentare il numero dei propri curatori neri per apparire meglio nella prossima ricerca, le istituzioni culturali dovrebbero diventare la culla di un nuovo umanesimo che ci restituisca un’umanità integra e intera, non divisa per colore, un’umanità in cui non ci sia più bisogno di ricordare che black lives matter.

Maurita Cardone

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Maurita Cardone

Maurita Cardone

Giornalista freelance, abruzzese di nascita e di carattere, eterna esploratrice, scrivo per passione e compulsione da quando ho memoria di me. Ho lavorato per Il Tempo, Il Sole 24 Ore, La Nuova Ecologia, QualEnergia, L'Indro. Dal 2011 New York è…

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