La campagna secondo Rem Koolhaas al Guggenheim di New York
Inaugurata e poi chiusa a causa dell’emergenza sanitaria, lo scorso ottobre la mostra curata da Rem Koolhaas al Guggenheim di New York ha riaperto i battenti. Sollevando non pochi interrogativi e qualche dubbio, soprattutto rispetto al capovolgimento dello scenario dovuto alla pandemia.
Era il 19 febbraio 2020, nel mondo si iniziava a parlare di COVID-19, ma a New York il virus non aveva ancora fatto la sua comparsa (almeno esplicita), i musei erano tutti aperti e la città andava al solito ritmo forsennato. Su Fifth Avenue, al Guggenheim Museum, Rem Koolhaas, il famoso architetto olandese autore di Delirious New York, presentava, davanti a un auditorium gremito, la mostra che inaugurava quel giorno, Countryside, The Future.
Avanti veloce fino al 3 ottobre quando, dopo oltre sei mesi di chiusura, il museo ha riaperto le porte, riprendendo da dove si era fermato: stessa mostra, un mondo diverso. Countryside, The Future è una mostra enciclopedica organizzata da Troy Conrad Therrien, curatore per Architettura e Iniziative digitali del Guggenheim, insieme a Rem Koolhaas e Samir Bantal, direttore di AMO, il think tank dell’Office for Metropolitan Architecture fondato da Koolhaas stesso. Già all’ingresso del museo appare chiaro che questa non è una mostra come le altre: nello spiazzo davanti all’entrata si viene accolti da un grosso e tecnologico trattore, del tipo utilizzato nell’agricoltura intensiva. All’interno, la pavimentazione della rotonda centrale è costellata di sagome tra cui spuntano animali da fattoria, personaggi in abiti contadini, veicoli e forme varie. Altri oggetti, tra cui una balla di fieno, pendono dal soffitto. All’ingresso della rampa, il titolo della mostra è accompagnato da una serie di piccole fotografie e testi che, in prima persona, raccontano il percorso che ha portato l’architetto olandese a concepire questa esposizione: un processo di osservazione e raccolta di informazioni iniziato dieci anni fa in un villaggio della Svizzera che, man mano che andava perdendo la sua popolazione originaria, si espandeva, arricchendosi di nuovi edifici e costose ristrutturazioni, nonché di nuovi abitanti esuli dalla vita moderna. La constatazione di partenza è che la popolazione urbana del mondo ha ormai superato quella rurale ma, come chiariscono i testi introduttivi, la mostra vuole concentrarsi su tutto quello che non è città, ovvero il 98 per cento della superficie terrestre, adottando il termine “countryside” per mancanza di una parola migliore ma con la consapevolezza dei limiti di una definizione che non può restituire l’eterogeneità di quel 98 per cento.
LA MOSTRA DI KOOLHAAS AL GUGGENHEIM DI NEW YORK
La mostra si sviluppa seguendo un’organizzazione tematica, presentando immagini, testi, filmati, materiali d’archivio, pannelli illustrativi, mappe, oggetti e macchinari, riproduzioni di opere d’arte, robot e altro ancora, suddivisi in sei sezioni, una per ognuna delle rampe della spirale del museo. Via via che il visitatore risale dalla rotonda verso i piani alti, davanti ai suoi occhi si dipana una narrativa fatta di esempi e casi di studio che attraversano il corso della storia dell’umanità. Il primo livello serve da introduzione: sul muro della prima galleria è riprodotto il saggio di Koolhaas che ha per titolo un punto interrogativo ed è composto da una serie di domande relative alle aree rurali. Di fianco, una mappa animata che illustra l’estensione geografica della mostra ma che in verità suscita ulteriori punti interrogativi. Più avanti, si incontra la colonna semiotica che riappare a ogni piano lungo il percorso di visita, intervallando la mostra con collage di stimoli testuali e visivi tratti dall’immaginario della vita di campagna dipinto dalla cultura popolare.
Il secondo livello si apre con una lunga parete dedicata alla storia della campagna come luogo di svago e ristoro partendo dall’otium latino e da una simile concezione diffusa nell’antica Cina, per arrivare, passando per l’Arcadia e i figli dei fiori, all’industria del benessere dei giorni nostri (dove, non possiamo non farlo notare, un’immagine di un resort in Toscana è accompagnata da un testo che invita a rilassarsi nella campagna incontaminata d’Abruzzo e scoprire il villaggio mozzafiato di Volterra. Altri punti di domanda). Al terzo livello, intitolato Political Redesign, la mostra presenta otto proposte di riprogettazione politica delle aree rurali, da un lato all’altro del mondo. Tra sperimentazioni spinte portate avanti da regimi totalitari, piani per lo sviluppo agricolo e per il contrasto alla desertificazione, qui troviamo alcune storie interessanti e poco note, ma l’organizzazione del vasto materiale non aiuta la fruizione e l’effetto complessivo è quello di una doccia di informazioni che il visitatore fatica a decodificare.
Per andare alla sezione successiva si passa per la colonna semiotica che qui è dedicata alla musica country, riprodotta in diverse playlist ascoltabili in cuffia. Si entra così nella quarta sezione, intitolata Experiments, ma che nel materiale stampa viene presentata con il titolo chiarificatore di Re-Population: gli esperimenti presentati, infatti, sembrano andare nella direzione del ripopolamento delle aree rurali. Tra gli esempi riportati figura anche l’Italia con il caso di villaggi del Sud ripopolati dando accoglienza ai migranti. Spiega Koolhaas nel comunicato: “Ciò che raccogliamo qui è la prova di un nuovo modo di pensare, in Cina, in Kenya, in Germania, Francia e Italia, negli Stati Uniti: nuovi modi di pianificare, nuovi modi di esplorare, nuovi modi di agire con i media, nuovi modi di possedere, pagare, affittare, nuovi modi di accogliere, nuovi modi di abitare la campagna oggi”. La sezione successiva è dedicata al tema Preservation e presenta casi di studio che mostrano come un atteggiamento conservativo nei confronti della natura possa avere conseguenze inaspettate. L’umanità, spiega il pannello introduttivo, si chiede quanto del patrimonio naturale sia necessario conservare, ma, poiché i cambiamenti climatici riguardano l’intero Pianeta, “tutto cambierà, compreso quello che cerchiamo di mantenere immutato”.
L’ultima sezione si intitola Cartesian Euphoria? e il punto interrogativo nel titolo chiarisce che neanche qui il visitatore troverà risposte. Il pannello introduttivo spiega che la sezione raccoglie manifestazioni estreme di bisogni e pensiero sperimentale che si intersecano con nuove tecnologie in ambito non-urbano. “Possiamo dimostrare che Descartes ha potuto inventare il suo metodo matematico solo perché viveva nel paesaggio iper-ortogonale dei Paesi Bassi, destinato a produrre abbondanza di vegetali e artistica in modi sempre più artificiali? […] Che alcune multinazionali ora gestiscono strutture rivoluzionarie che accidentalmente inventano nuove architetture centrate sulle macchine e non sugli umani?”, si chiede Koolhaas nel testo di presentazione. Possiamo? si chiede il visitatore che, privo di risposte alle tante domande accumulate nel percorso verso la cima della rampa, a questo punto può consolarsi interagendo con una sagoma di Stalin o una di Eva che coglie la mela con ai piedi un gatto che, su piedistalli robotizzati, si aggirano tra le gallerie. La sezione finale segna l’apice dell’immaginifico universo generato dalla collisione tra vita di campagna, scienza, geopolitica e nuove tecnologie. E segna anche l’apice dello smarrimento: si arriva alla fine del percorso sfiancati.
IL RUOLO DELLA CAMPAGNA
La mostra è cervellotica, ma l’assunto di partenza, qua e là dichiarato da Koolhaas, non è poi così ostico: le zone rurali si stanno modificando in risposta alle trasformazioni del vivere contemporaneo e quello che tradizionalmente viene percepito come il regno dell’immobilità, dell’uguale a se stesso, è in realtà un terreno instabile, in continuo movimento. Koolhaas vuole mostrarci che, se architetti e politici si concentrano solo sul vivere urbano, rischiano di perdere di vista trasformazioni radicali che stanno avvenendo fuori dalle città. Ma è proprio qui che lo sfinito spettatore rischia di indispettirsi, perché se questa scarpinata nella storia delle aree rurali deve servire a dirci che la campagna non è più il mondo idilliaco e incontaminato degli antichi mestieri e della semplicità dei costumi raccontato dai poeti romantici, sarebbe bastato fare una visita in una qualsiasi azienda agricola per avere una buona dose di realtà.
Negli ultimi mesi, una pandemia che non ha risparmiato nessun Paese ci ha mostrato i limiti del vivere urbano e reso più desiderabile la vita nei piccoli centri, meno affollati e meno esposti ai rischi dell’interdipendenza. Se il futuro ci riserverà altre crisi globali come quella che stiamo attraversando oggi, è plausibile che la tendenza della popolazione umana all’urbanizzazione possa subire un’inversione o quantomeno un rallentamento. È altrettanto plausibile che questo possa risultare in un’ulteriore accelerazione delle trasformazioni che stanno avvenendo nel contesto rurale: in questo la mostra di Koolhaas, concepita prima della pandemia, oggi sembra preveggente. Tuttavia, la campagna raccontata nel percorso espositivo è una campagna subalterna, centrale produttiva al servizio della vita urbana e che, svuotata di significati, priva di una sua propria identità, si trasforma in funzione del vivere urbano o subisce passivamente fenomeni di gentrificazione. Ma se c’è una lezione che possiamo imparare dalle recenti elezioni americane che hanno visto una netta divisione tra centri urbani e aree rurali è che quel mondo agricolo una sua identità ce l’ha ed è un’identità che spesso si alimenta proprio dell’opposizione a quelle città che nei confronti delle campagne hanno un approccio smaccatamente utilitaristico. Il grande assente nella versione della storia raccontata da questa mostra è il fattore umano, la comunità, l’identità di luoghi e società che oggi con sempre più forza rivendicano una propria autonomia culturale rispetto alle comunità urbane.
CAMPAGNA E PANDEMIA
La pandemia ha reso i confini tra città e campagna più permeabili. La separazione non è più così netta, ci sono spazi di fluidità tra un contesto e l’altro e in quegli spazi si inseriscono nuovi modi di vivere. Allo stesso tempo, le due culture non potrebbero essere più distanti. Questa mostra è una chiara illustrazione di quella distanza che non consente di vedere, al di là della superficiale fascinazione nostalgica per un mondo incontaminato che in realtà non è mai esistito e al di là dello stupore abbacinato davanti alle evoluzioni tecnologiche di un mondo che si riteneva fossilizzato, che esiste una via di mezzo sulla quale l’uomo urbano e l’uomo rurale possono incontrarsi e scoprire di poter parlare una stessa lingua. Quella via di mezzo è la strada su cui, con la pandemia, sempre più persone si stanno incamminando.
‒ Maurita Cardone
New York // fino al 15 febbraio 2021
Countryside, The Future
GUGGENHEIM MUSEUM
1071 Fifth Avenue
https://www.guggenheim.org
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