Phillips Collection. Storia di una collezione d’avanguardia diventata un museo
Mescola vicende familiari e passione per l’arte l’epopea della Phillips Collection di Washington D.C., oggi museo a gestione privata che conta su una raccolta di quasi seimila opere, con una grande apertura alla creatività più attuale e la presenza di solo due italiani, Federico Solmi e Amedeo Modigliani. Ci siamo fatti raccontare tutti i dettagli dalla curatrice senior della sede americana, nel centenario della sua fondazione.
Negli Stati Uniti, dove la filantropia e il mecenatismo sono parte integrante del sistema culturale, le collezioni di famiglia hanno spesso segnato il corso della storia e del mercato dell’arte. Ma in un mondo in continua trasformazione come è quello del 2021, anche il ruolo di queste collezioni può essere ripensato, sia a livello globale che locale. Un esempio di questo processo di ripensamento e riposizionamento all’interno della società lo offre la Phillips Collection di Washington D.C., che quest’anno celebra cento anni di vita con una mostra che nasce e vive in stretta relazione con la propria comunità, attivamente partecipe all’ideazione e costruzione della rassegna.
Seeing Differently: The Phillips Collects for a New Century, è il titolo scelto per raccontare uno sguardo verso il futuro fatto di una molteplicità di punti di vista, in grado di riconnettere un’istituzione privata con il pubblico che, fin dalle sue origini, questa collezione ha voluto servire. La ricca mostra è un percorso non cronologico nella storia della Phillips, attraverso continue trasformazioni che l’hanno portata da hobby di un giovane rampollo a punto di riferimento culturale nella capitale americana.
Di questa storia e della mostra che la racconta abbiamo parlato con Elsa Smithgall, curatrice senior del museo e project director della mostra, con una carriera alla Phillips lunga 25 anni.
INTERVISTA A ELSA SMITHGALL
Quando e perché nasce questa collezione e come si è sviluppata negli anni?
La Phillips Collection aprì le porte al pubblico nel 1921 quando il suo fondatore, Duncan Phillips, decise di voler condividere la collezione di circa 200 opere che aveva messo insieme negli anni precedenti. Ciò che spinse Duncan ad aprire il museo oggi può suonare familiare: aveva perso il fratello nell’epidemia di influenza spagnola del 1918. E l’anno prima aveva perso il padre a causa di un problema al cuore. Fu attraverso l’arte che Duncan riuscì a elaborare il dolore e trovare la forza per andare avanti e darsi uno scopo. Così, in modo molto anticonvenzionale, aprì le porte di casa sua, per condividere la collezione con il pubblico, mentre continuava a espanderla, perché sentì l’impulso di condividere la speranza che trovava nell’arte, di portare quello stesso conforto agli altri. Questa idea torna come parte del titolo della mostra per il centenario: guardare al mondo in modo diverso, vedere la bellezza attraverso l’arte, concepire l’arte come potente veicolo per migliorare la qualità delle nostre vite e la connessione gli uni con gli altri. Credo che questo sia un messaggio che, dopo la pandemia, è ancora più rilevante.
Che tipo di arte collezionava Phillips in quei primi anni?
Aveva iniziato a collezionare arte con il fratello che poi perse, James. Duncan e James condividevano l’amore per l’arte. I due ragazzi avevano convinto i genitori a dare loro una paghetta per comprare opere: al tempo, avere dei genitori che sostenessero un’idea del genere era una cosa speciale, ma loro erano cresciuti circondati da cultura. Quando apre il museo, Duncan Phillips fa una scelta molto radicale per l’epoca: enfatizzare gli artisti americani viventi. Voleva dimostrare che l’arte americana non era da meno di altre, che c’erano qualità e talento anche in America. Così colleziona artisti che poi finiranno per diventare gli autori di spicco dell’arte contemporanea americana. Spesso li conosce di persona, ne va a visitare gli studi e stabilisce con loro rapporti autentici. Ma, allo stesso tempo, colleziona anche arte europea del XIX secolo. Daumier, Renoir, Monet sono tra i primissimi lavori che entrano nella raccolta. Tuttavia non è mai stato pensato come museo onnicomprensivo. Per esempio l’arte antica è stata esclusa dall’inizio. E, anche se abbiamo alcune sculture e fotografie, principalmente i Phillips collezionavano pittura e opere su carta.
Che ci fosse della fotografia, all’epoca, non era affatto scontato. Ma come mai poca scultura?
In parte la possibilità di esporre sculture era limitata dalla dimensione degli spazi domestici, quindi era un problema di scala. C’era però un piccolo giardino di sculture di cui era responsabile Marjorie Phillips, la moglie di Duncan, che era artista e direttrice aggiunta. Per quanto riguarda la fotografia, Duncan era vicino ad Alfred Stieglitz, il cui lavoro ammirava molto. Quando questo morì, Georgia O’Keeffe donò alla collezione una serie delle sue fotografie per rendere omaggio alla loro amicizia. Al momento la fotografia è il segmento della collezione che cresce più rapidamente.
LA COLLEZIONE DELLA FAMIGLIA PHILLIPS
E come presentavano la collezione al pubblico?
Non mostravano mai l’arte in modo isolato, che era un po’ l’approccio comune nei musei al tempo. A Duncan interessava esplorare cosa potesse significare, per esempio, vedere Bonnard accanto a John Marin, artista di cui si era totalmente innamorato. Abbiamo testimonianza di una delle prime installazioni che accostava questi due artisti, uno francese, l’altro americano. Amava questo tipo di cose e credo che dietro ci fosse l’idea che l’arte ha qualcosa di universale: da un lato ogni artista è unico e ha un approccio personale ma, per lo stesso motivo, Duncan amava l’idea di mostrare opere in conversazione ed evidenziare come tutti noi, in quanto esseri umani, abbiamo qualcosa che ci unisce. L’idea che l’arte sia un linguaggio di espressione universale è nel DNA della Philips fin dalle origini. Oggi manteniamo vivo quello spirito con un approccio espositivo che ormai è molto attuale, quello di non isolare gli artisti americani dai francesi, la pittura dalla scultura dalla fotografia, ma attraversare il tempo e i diversi media e superare le divisioni nazionali ed etniche. Nel 1921 era un approccio piuttosto pionieristico.
Fino a quando la collezione fu gestita direttamente dalla famiglia Phillips?
Inizialmente Duncan era il direttore e Marjorie direttrice aggiunta. Quando lui muore, nel 1966, lei diventa direttrice. Poi nel ‘78 passa le redini a suo figlio Laughlin. Il primo direttore non della famiglia fu Charlie Moffitt, arrivato nel 1992. Da allora in poi non abbiamo più avuto direttori che siano parte della famiglia, ma abbiamo ancora nel nostro consiglio la pronipote di Duncan Phillips.
Il museo è ancora ospitato nell’edificio che fu la casa dei Phillips. Come è cambiato negli anni?
È diventato più grande. Inizialmente era solo la casa che i genitori avevano fatto costruire nel 1897. Quella parte la chiamiamo ancora “la casa” e ospita una parte del museo. Un anno importante è il 1930, quando Duncan Phillips decide con la famiglia di lasciare la casa. Si erano resi conto che non riuscivano a rendere accessibile al pubblico gran parte della collezione che a quel punto riuniva quasi 600 opere. Inizialmente Duncan aveva valutato di far costruire un nuovo museo, ma alla fine aveva scelto di trasferirsi. Nel 1930 la casa si trasforma totalmente in museo. Poi, nel corso degli anni, ci sono state una serie di espansioni: una prima negli Anni Sessanta, un’altra nel 1984 insieme a importanti lavori di ristrutturazione, e poi, la più recente, nel 2007, quando l’edificio accanto è stato messo in vendita e abbiamo colto al balzo l’opportunità per allargarci.
DIDATTICA E DIALOGO CON LA COMUNITÀ
Prima ci diceva che Duncan aveva sempre concepito la collezione come qualcosa da condividere con il pubblico. Aveva un intento didattico?
Sì, certamente. Tant’è che per qualche tempo, negli Anni Trenta e Quaranta, il museo ospitò anche una scuola d’arte. E, in alcuni dei suoi primi scritti, Duncan dice di voler educare il pubblico a guardare l’arte e a vedere come vedono gli artisti. Gli interessava cosa possiamo imparare da come gli artisti vedono il mondo. Inoltre, lui stesso teneva conferenze, scriveva testi, aveva creato un programma di musica. Insomma, vedeva la didattica su più livelli. Il museo poi dava l’opportunità al pubblico di vedere cose che non avrebbero trovato altrove. Dobbiamo considerare che il MoMA aprì solo nel 1929 e alla National Gallery of Art non c’era il tipo di opere che Duncan aveva messo insieme: si veniva alla Phillips per vedere Bonnard, Paul Klee, eccetera. E così diventò un punto di riferimento anche tra gli artisti. Kenneth Noland racconta che andare alla Phillips era come andare in chiesa.
Quella dell’educazione è ancora una missione importante per il museo?
Abbiamo un programma didattico estremamente attivo all’interno del museo e i nostri educatori lavorano costantemente con le scuole elementari e medie della comunità. E, fuori dal museo, a est del fiume Anacostia, c’è un campus che si chiama THEARC, dove non ci sono opere ma è uno spazio condiviso in cui ci impegniamo a educare la comunità locale, c’è un ospedale pediatrico, una scuola di musica. E poi abbiamo una partnership con la University of Maryland. Quindi sì, questa è una parte molto importante del nostro lavoro.
In che modo, secondo lei, un museo che nasce da una collezione di famiglia, seppure pensata per essere condivisa, è diverso da un museo messo insieme da un’istituzione pubblica per il pubblico?
Penso che sia una collezione molto personale e intima. Sicuramente lo era durante il periodo di Phillips: Duncan collezionava sfacciatamente in base a ciò che gli piaceva. Non aveva la pretesa di dire: questa è la storia dell’arte. Quindi non aveva nemmeno bisogno di riempire delle caselle nella collezione. Ora siamo un’istituzione privata ma non collezioniamo più in base al gusto del direttore e fondatore. Quindi la collezione è cambiata molto. Altre collezioni private sono state donate a grandi musei, come la Mellon o Chesterdale alla National Gallery o Havemeyer al Met. In quel caso le collezioni rimangono scolpite nella pietra, non cambieranno mai.
UNA RACCOLTA INTERNAZIONALE
Come è cambiato il processo di acquisizione negli anni e come funziona oggi?
Duncan utilizzava i suoi fondi personali, ma quando la Phillips è diventata museo le cose sono cambiate. In seguito abbiamo avuto qualche importante donazione, anche da parte di artisti, ma limitate. Negli ultimi tempi, in realtà, abbiamo fondi molto ristretti per le acquisizioni: nell’eredità di Phillips c’è un fondo da utilizzare esclusivamente a questo scopo, ma contiamo molto su tanti generosi donatori. Parlando poi di cosa collezioniamo, le priorità sono cambiate. Abbiamo fatto importanti passi, sicuramente ancora troppo modesti ma molto intenzionali, verso la diversificazione della collezione. E la mostra per il centenario presenta alcuni esempi di artisti di colore, latini e LGBTQ acquisiti di recente. Nell’ultimo decennio queste sono state le nostre priorità. Al momento cerchiamo di concentrare i nostri limitati fondi sull’arte più contemporanea e sulla fotografia. Inoltre cerchiamo di aggiungere opere che siano in armonia con il resto della collezione, tentando di immaginare come quei lavori saranno visti alla luce di altre opere che abbiamo già, come entreranno in conversazione visiva e concettuale con il resto. Phillips concepiva la collezione in modo organico, come un tutto, da costruire mattone dopo mattone.
È ancora una collezione principalmente americana?
No, l’internazionalizzazione fa parte del nostro sforzo di diversificazione. Le acquisizioni più recenti sono in buona parte internazionali.
E quanti pezzi ha la collezione oggi?
Quasi 6000 ed è cresciuta soprattutto negli ultimi dieci anni, è quasi raddoppiata.
Parlava dello sforzo di diversificare la collezione. Nell’ultimo anno, sull’onda delle proteste di Black Lives Matter, i musei sono stati attaccati per mancanza di diversità, anche per quanto riguarda il personale. Quali iniziative avete messo in campo in risposta alla critiche?
Siamo stati tra i primi musei ad assumere un chief of diversity officer e ci siamo impegnati a capire come includere nuovi approcci nella nostra struttura, sia da dentro che da fuori. È un processo a doppio senso, ma sicuramente deve iniziare dall’interno. Abbiamo fatto dei training antirazzismo, anche io ne ho seguito uno. Abbiamo rivisto le nostre pratiche di assunzione e stiamo cercando di diversificare il consiglio. E poi, oltre a diversificare la collezione, abbiamo anche nuove strategie didattiche e di community engagement. È un processo lungo e capisco che la lentezza possa essere frustrante, ma noi vogliamo essere trasparenti lungo tutto il percorso. L’impegno c’è.
Tuttavia spesso iniziative di questo genere sono giudicate insufficienti quando non radicate in un sistema che garantisca eguali opportunità a tutte le fasce della popolazione. State cercando di creare opportunità per le comunità meno servite?
Tutte le internship e fellowship che offriamo sono retribuite e questo è un modo di eliminare qualche barriera: per molto tempo era prassi che non lo fossero, da noi come in tutti gli altri musei. Vogliamo anche mantenere l’approccio dall’esterno all’interno che abbiamo usato per questa mostra, facendo diventare la comunità parte del processo. Abbiamo pure in programma partnership con associazioni locali e abbiamo creato un ruolo specifico per il community engagement perché vogliamo essere una forza di bene sociale e servire la comunità. Non vogliamo parlare a una nicchia, vogliamo fare mostre inclusive e accessibili.
LA MOSTRA PER IL CENTENARIO
Parliamo della mostra. Che idea c’è dietro, come l’avete costruita e in che modo coinvolge la comunità?
La mostra è stata concepita in collaborazione con un comitato consultivo comunitario che si è incontrato quattro volte nel corso dell’anno. Quindi si è trattato, fin dall’inizio, di un processo condiviso e finalizzato a trovare modi di rendere la mostra rilevante per il nostro mondo contemporaneo. Il primo incontro c’è stato immediatamente prima del lockdown. Non avevamo idea di quanto drammaticamente il mondo sarebbe cambiato nei mesi successivi. Così è cambiato anche il concetto della mostra. Volevamo avere un’idea complessiva che tenesse tutto insieme e suddividerla in sotto temi più gestibili. L’idea generale era il mondo che cambia costantemente e come gli artisti stiano esplorando le complessità del reale, facendole esplorare anche a noi attraverso i loro occhi. Nel corso dei mesi sono emersi quattro filtri intorno a cui organizzare queste visioni degli artisti e questi sono poi diventati la struttura tematica: identità, sensi, luogo e storia. La mostra esamina il mondo che cambia intorno a queste quattro sezioni tematiche che sono emerse dopo la pandemia, l’agitazione sociale dell’estate scorsa e il dibattito sul razzismo sistemico.
Il coinvolgimento della comunità appare anche all’interno della mostra stessa, come per esempio nel caso della Migration Series di Jacob Lawrence che è accompagnata da testi di risposta di studenti e da storie di persone che hanno vissuto in prima persona la grande migrazione. Qual è l’obiettivo?
Volevamo che il filo delle voci della comunità attraversasse la mostra. Così abbiamo inserito testi ed etichette scritte da studenti e altri membri della comunità che offrono la propria prospettiva sulle opere, andando oltre l’autorità individuale della voce di un curatore o di un educatore. Vedere il mondo in modo diverso, come dice il titolo, significa mettersi nei panni di qualcun altro e vedere il mondo con i suoi occhi. Avere più prospettive e cercare risposta dalla comunità apre a possibilità nuove. Il nostro sforzo è invitare l’empatia ed è tutto quello che possiamo fare. Ma spesso non succede automaticamente, a volte bisogna fornire un veicolo. Quindi abbiamo creato delle giustapposizioni o inserito dei lavori che possano portare le persone a vedere le cose in modo diverso, seppure solo a livello subconscio.
Un esempio?
Le fotografie di John Edmonds, in cui c’è una figura umana di cui non si vede il viso, ma solo il cappuccio di una felpa: è interessante riflettere sui significati che chi guarda attribuisce a quell’immagine. Un lavoro del genere aiuta ad aprire il dialogo ed entra in conversazione con altre opere come, per esempio, quella di Simone Leigh, No Face (Crown Heights): lei rende omaggio ai ceramisti africani, il cui lavoro non è mai stato riconosciuto, e lo fa creando queste bellissime rose di ceramica che vanno a formare un viso che però non è specifico. Si tratta di suscitare delle domande e portare le persone a pensare.
Il titolo è venuto prima o dopo la pandemia?
Curiosamente è venuto prima e non avremmo mai immaginato quanto sarebbe stato appropriato. In realtà è ispirato alla convinzione di Duncan che gli artisti vedessero il mondo in modo diverso, ma si è rivelato molto attuale.
‒ Maurita Cardone
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