S’intitola semplicemente Goya la mostra che la Fondazione Beyeler dedica a uno dei più grandi artisti di tutti i tempi ed è bene anticipare subito che la tanto attesa retrospettiva (di fatto già pronta a inaugurare nel 2020, appena prima che il Covid ne imponesse la chiusura) rappresenta una delle più intense mostre mai dedicate al pittore spagnolo.
Il progetto sviluppato da Isabela Mora e Samuel Keller e curato da Martin Schwander ha coinvolto direttamente il Museo del Prado e gode di prestiti eccellenti dai più grandi musei del mondo, oltre a presentare insieme per la prima volta un ampio numero di lavori meno noti o rarissimamente esposti provenienti da collezioni private.
GOYA A BASILEA. LO STILE
Partendo da tali premesse, il percorso pensato dai curatori segue cronologicamente e insieme tematicamente l’intensa produzione di Francisco Goya y Lucientes (Fuendetodos, Saragozza, 1746 – Bordeaux, 1828). Figlio di un artigiano decoratore, Goya studiò sotto José Luzán a Saragozza e non ebbe mai accesso alla Accademia di San Fernando a Madrid, ma, partendo da Velázquez, trovò soprattutto in Italia quei riferimenti che segnarono i suoi anni giovanili influenzati dalla tradizione settecentesca dei napoletani e da Tiepolo. Echi e modelli che si possono qui ammirare in scene di genere piene di felicissime intuizioni come La cucaña (1787) ed El pelele (1791-92), precocissima sintesi di quella libertà figurativa e tecnica che ha reso Goya anticipatore e ispiratore d’intere generazioni di artisti, ben al di là dei perimetri della pittura. Anche per questo motivo la Beyeler, la cui raccolta affonda le radici nelle avanguardie novecentesche, ha ritenuto, a ben vedere, di risalire a questa fonte di ispirazione primaria per Goya, che ha generato così tante riflessioni e confronti dall’Ottocento a oggi.
La modernità la si può scorgere in un dettaglio, in un una rapida pennellata, in quella freschissima grazia e vivacità di effetti pittorici che irrorano le scene di vita popolare che fecero incontrare a Goya il favore delle corte e dei circoli aristocratici madrileni e furono il punto di partenza della rapida ascesa dell’artista, che già nel 1789 fu nominato “pintor de cámara del rey”.
DAI RITRATTI DI CORTE ALLA MALATTIA
Eppure, anche nei soggetti più paludati della corte di Spagna, colpisce, a distanza di più di due secoli dalla sua morte, quella spregiudicata libertà di osservazione e d’esecuzione, affrancata da ogni ideale accademico di bellezza. In tal senso fu particolarmente intensa, negli ultimi due decenni del secolo, l’attività di Goya come ritrattista di figure dell’alta società. Ne sono un esempio, in mostra, i ritratti della Duchessa di Osuna (1785), della Duchessa d’Alba (1795) e quello di Ferdinando VII (1815), rappresentati con vivida penetrazione psicologica, pur nella pomposa fissità cerimoniale.
La grave malattia che colpì l’artista nel 1792, com’è noto, lo condannò alla quasi completa sordità. Dopo quell’evento Goya continuò da un lato a dipingere tele ispirate agli aspetti più pittoreschi della vita del popolo, e dall’altro a dedicarsi sempre più assiduamente a piccoli dipinti con scene di follia, fanatismo, stregoneria e supplizi, qui presentati in una generosa selezione. Di quel periodo sono altresì emblematiche, e a loro modo insuperate, le incisioni dette I Capricci (pubblicate nel 1799), che continuano a essere un monito sulla crudeltà, sulla degenerazione e su tutto ciò che di più cupo può derivare dall’assenza di intelletto, così come evocato da Il Sonno della ragione genera mostri.
I DISASTRI DELLA GUERRA
Con l’invasione delle truppe napoleoniche del 1805 ha inizio il periodo più sofferto della vita di Goya, angosciato “testimone oculare” delle violenze e della brutalità del conflitto, vicende che immortalò nelle scene agghiaccianti dei Disastri della guerra; una sequenza numerata di ottantatré acqueforti incise tra il 1810 e il 1820 (ma pubblicata per la prima volta, a eccezione di tre lastre, nel 1863, trentacinque anni dopo la morte dell’artista).
I disastri della guerra sono ancora lì, nella loro incredibile loquacità, a ricordarci che ogni epoca può esprimere le stesse atrocità, l’annichilimento del nemico e la repressione dei corpi. Susan Sontag, nel più bel saggio mai scritto sulla rappresentazione della sofferenza, notava: “Le raccapriccianti crudeltà dei ‘Disastri della guerra’ intendono scuotere, scioccare, ferire l’osservatore. L’arte di Goya rappresenta, come quella di Dostoevskij, un punto di svolta nella storia della sensibilità morale e della percezione della sofferenza. Con Goya viene introdotto nell’arte un nuovo standard di sensibilità davanti al dolore”.
LE PINTURAS NEGRAS SECONDO PARRENO
Negli anni che seguirono alla Restaurazione, l’artista, guardato con sospetto negli ambienti di corte, preferì appartarsi sempre più nella solitudine della sua casa di campagna presso Manzanarre, chiamata la “quinta del sordo”, dove pensò la sublime successione di grandi pitture parietali popolate da immagini cupe e ossessive, le Pinturas negras, creando di fatto un ambiente immersivo per il pittore stesso, dove veder manifeste le visioni della sua mente angosciata prima dell’esilio che lo portò a vivere gli ultimi anni della sua esistenza a Bordeaux. Di quell’incredibile serie di pitture (conservate al Prado) i curatori hanno pensato di offrire un’inedita interpretazione, producendo per la mostra il video dell’artista francese Philippe Parreno La Quinta del Sordo, dove i dettagli ad altissima definizione dei quadri reali e la perlustrazione visiva dello stato attuale di quel luogo perduto si fondono in una penetrante rievocazione acustica dello spazio in cui Goya generò gli incubi che ancora oggi albergano nel nostro inconscio.
‒ Riccardo Conti
Riehen // fino al 23 gennaio 2022
Goya
FONDATION BEYELER
Baselstrasse 101
www.fondationbeyeler.ch
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