Ricordate il video promozionale della SAS, la Scandinavian Airlines, diffuso l’anno scorso? Spiegava come non ci fosse nulla di “veramente scandinavo” e che la forza di quell’area geografica risiedesse proprio nel riuscire ad assimilare, nel corso dei secoli, le tradizioni più varie, costruendo una società aperta e multiculturale. Al di là degli obiettivi della campagna marketing, il tema dell’identità culturale in Norvegia è per certi versi ancora scottante, attuale e poco conosciuto oltreconfine.
IDENTITÀ CULTURALI IN NORVEGIA E RICONOSCIMENTO DEI SÁMI
La Scandinavia e le fiabesche regioni dell’Artico raccontano una storia antichissima, ma certi capitoli legati al colonialismo nordico sono ancora poco noti, forse perché troppo distanti dai succitati cliché, o forse perché la versione più conosciuta della storia è quella che di regola scrivono i “vincitori”. Fatto sta che, in Italia, arte e cultura del popolo Sámi sono rimaste a lungo trascurate e immerse in una coltre di nebbia.
Unica popolazione indigena riconosciuta in Europa, i Sámi hanno abitato fin dall’antichità le regioni della Fennoscandinavia e identificano nel Sápmi la loro patria, un territorio transnazionale che comprende le regioni settentrionali di Norvegia, Svezia, Finlandia e la penisola russa di Kola. Parlano almeno dieci dialetti diversi a seconda del luogo di provenienza e costituiscono una comunità che conta circa 55mila persone soltanto in Norvegia.
Nonostante il legame storico con il loro territorio di appartenenza, i Sámi hanno dovuto lottare per il riconoscimento del loro status e dei loro diritti, restando tuttavia discriminati e ignorati “in casa” fino alla fine del XX secolo. La politica norvegese li ha vincolati di fatto per anni a un programma ufficiale di “norvegesizzazione” forzata in base al quale il tradizionale stile di vita, la lingua e la cultura Sámi sono stati sistematicamente repressi. E sarebbero andati distrutte del tutto se non fosse stato per la tenacia e la resilienza della popolazione indigena locale.
Importante punto di svolta dal punto di vista sociale, culturale e legale fu la prima protesta “eco-indigena” d’Europa, passata alla storia come Controversia di Álta (1979-1981). In quell’occasione, attivisti Sámi e ambientalisti unirono le forze per opporsi alla costruzione di una diga e di una centrale idroelettrica che avrebbero irrimediabilmente danneggiato una vasta area del Finnmark intorno al fiume Álta e alla città di Máze, compromettendo la sussistenza delle economie rurali della zona, l’allevamento delle renne e la conservazione di un ambiente animale e vegetale estremamente ricco.
Oltre a costituire un momento storico di cruciale importanza per la Norvegia in materia di sviluppo delle politiche energetiche e sfruttamento delle risorse naturali, la Controversia di Álta portò a una riforma sostanziale della Costituzione e della politica norvegese a tutela dei Sámi, a un crescente riconoscimento dei diritti di questa popolazione, nonché all’istituzione del Parlamento Sámi (Sámediggi), inaugurato dal re di Norvegia, Olav V, nel 1989.
I SÁMI ATTRAVERSO STORIA DELL’ARTE E IL COLLEZIONISMO ISTITUZIONALE
Gli artisti Sámi sono stati, e continuano a essere, profondamente impegnati nei movimenti di emancipazione politica e culturale del Sápmi e l’arte ha storicamente rappresentato il loro mezzo di espressione più importante per comunicare identità, idee e valori al di fuori dei territori del nord.
Eppure, la ricchezza della loro arte fu per anni raccontata sommariamente o addirittura oscurata del tutto nei manuali di storia dell’arte; opere e manufatti, salvo rarissime eccezioni, furono esposti unicamente in musei etnografici, tanto in Norvegia quanto nei vicini Paesi scandinavi.
Da una decina di anni a questa parte, la velata indifferenza verso le pratiche artistiche Sámi si sta diradando. Al suo posto sta fiorendo un vivace dibattito intorno alle prospettive postcoloniali grazie al supporto di alcune istituzioni e al prezioso lavoro di ricercatrici e ricercatori delle università scandinave, senza i quali sarebbero andate parzialmente perdute molte delle importanti testimonianze materiali e immateriali dell’arte Sámi, oggi raccolte, studiate, catalogate e valorizzate attraverso mostre, dibattiti e pubblicazioni.
Il riconoscimento nazionale e internazionale della cultura Sámi ha comportato più di recente maggiore attenzione da parte dei musei e delle istituzioni pubbliche anche nella capitale Oslo, dove hanno finalmente intrapreso una strada costruttiva e virtuosa, sia nell’aggiornamento scientifico degli addetti ai lavori, impreparati rispetto alle tematiche indigene, sia nell’arricchimento delle collezioni pubbliche.
Norsk Folkemuseum e Nasjonalmuseet di Oslo, ovvero due dei musei più importanti della Norvegia, sono coinvolti direttamente in questo processo di autentica emancipazione culturale del Paese. Mentre il primo ha avviato nel 2012 un ampio programma di restituzioni del patrimonio culturale e artistico Sámi verso i territori di origine (progetto Bååstede), il Nasjonalmuseet – il museo nazionale norvegese di arte, architettura e design – ha inaugurato un programma di acquisizioni volto a colmare le evidenti lacune fin qui emerse rispetto all’arte Sámi. Alle opere di John Savio e Iver Jåks, già presenti in permanente, si sono aggiunte dal 2017 anche quelle di Hans Ragnar Mathisen, Britta Marakatt-Labba, Aslaug Magdalena Juliussen, Synnøve Persen, Inger Blix Kvammen e Máret Ánne Sara, quasi tutte caratterizzate da un forte contenuto politico. In oltre duecento anni di storia del Nasjonalmuseet, le opere di questi artisti verranno esposte per la prima volta nella nuova sede museale, che aprirà al pubblico nel 2022 con una collezione più inclusiva, a segnare un cambio di passo e una nuova sensibilità verso le differenze culturali nazionali, quali parti integranti e imprescindibili dell’identità scandinava.
LA PRODUZIONE ARTISTICA SÁMI
Cosa sia, cosa rappresenti e che cosa definisca un’opera d’arte Sámi sono domande che oggi non trovano ancora una risposta univoca, sebbene il tema sia dibattuto dalla fine degli Anni Settanta. Sappiamo però che, tradizionalmente, l’arte in quanto disciplina e fenomeno indipendente è inesistente nella prospettiva indigena dei Sámi, che connette invece le pratiche estetiche all’epistemologia, alla mitologia e alle attività quotidiane, elevando ogni attimo dell’esistenza a un’esperienza artistica di per sé.
Nella cultura Sámi l’opera nasce dunque da un equilibrio di conoscenze riassumibili nel concetto di duodji. Nella prospettiva occidentale non esiste sinonimo o parola adatta a definire questo termine senza perderne significati e valori essenziali, e non può quindi essere tradotta e adattata a categorie come l’artigianato artistico o le arti applicate. L’ampio e importante significato del concetto di duodji è dunque un concentrato di tradizioni, storia, conoscenze collettive e spirituali espresse attraverso la fisicità di un oggetto realizzato con materiali naturali, come legno, pelle, corna di renna, argento o altri materiali derivanti da scambi e baratti. Duodji può anche essere il risultato di un atteggiamento o un approccio che contempla la capacità di assemblare materiali di riciclo. Viene realizzato dai duojárs, la cui abilità è tramandata nei secoli di generazione in generazione.
In quest’ottica cambia anche il criterio di valutazione del duodji, dove la sua bellezza non si ferma a un mero giudizio estetico ma contempla la perfezione rispetto allo scopo e all’utilità del manufatto prodotto. Ecco dunque che la bellezza di un semplice coltello da caccia, ad esempio, sta racchiusa in un insieme di caratteristiche: deve essere affilato, comodo da maneggiare, perfettamente forgiato per il suo scopo, mentre il raffinato decoro dell’impugnatura deve essere realizzato con le corna recise della renna.
Nel XX Secolo, tuttavia, si sono affermati artisti multidisciplinari, che hanno ampliato il loro repertorio spingendosi oltre il concetto duodji, pur ispirandosi alle tradizioni Sámi. È il caso, per fare qualche esempio, di Joar Nango (1978), Áillohaš / Nils-Aslak Valkepää (1943-2001), Iver Jåks (1932-2007) o del loro precursore John Savio (1902-1938), il primo artista Sámi ad aver ricevuto una formazione accademica.
Gli artisti appartenenti alle comunità Sámi e attualmente attivi lavorano con una grande varietà di media, tra cui scultura, video, installazione, stampa su legno, ricamo e fotografia, e sono ancora indissolubilmente legati al concetto di duodji.
TRE ARTISTI SÁMI ALLA BIENNALE DI VENEZIA
Il Padiglione dei Paesi Nordici alla 59. Biennale d’Arte di Venezia assumerà un’identità temporanea inedita, prendendo il nome di Padiglione Sámi. Selezionati per realizzare un ambizioso progetto coordinato da OCA – Office for Contemporary Art Norway, gli artisti Pauliina Feodoroff, Máret Ánne Sara e Anders Sunna, tutti e tre appartenenti alla comunità Sámi, saranno gli interpreti di un intervento artistico che si preannuncia di epocale importanza. Ne abbiamo discusso con Katya Garcia-Ántón, curatrice del Padiglione Sámi e storica direttrice di OCA, fresca di nomina come prossima direttrice del Nordnorsk Kunstmuseum di Tromsø.
Fin dagli inizi del tuo mandato come direttrice e curatrice di OCA hai avviato numerosi progetti volti a diffondere la conoscenza dell’arte Sámi e delle pratiche artistiche delle popolazioni indigene. Quand’è iniziato il tuo interesse per queste tematiche?
Devo all’artista Joan Jonas il mio primo contatto con l’arte e la cultura Sámi. Fu proprio lei, nel 2012, a farmi conoscere Andé Somby, un eccezionale pensatore, artista, musicista, professore di Diritto delle popolazioni indigene all’Università di Tromsø. Casualmente lo rincontrai qualche anno dopo in veste di direttrice dell’OCA e il confronto con lui su tante questioni legate all’arte Sámi, e alle culture delle popolazioni indigene in generale, suscitò in me una viva curiosità.
Perché hai deciso di approfondire la questione?
Rientrata a Oslo, notai che tra i colleghi aleggiava un sostanziale disinteresse rispetto alle questioni del popolo Sámi. Capii, dunque, quanto fossero ancora forti in Norvegia alcune resistenze culturali risalenti all’epoca della “norvegesizzazione” del Paese. L’OCA ha quindi raccolto la sfida di superare queste obsolete barriere sociali e strutturali, promuovendo sia localmente sia internazionalmente una serie di iniziative a supporto dello studio e della conoscenza delle popolazioni indigene del Nord Europa e della loro cultura. Nacque da queste premesse un programma di ricerca strutturato sul lungo periodo cui seguirono workshop, seminari, pubblicazioni, mostre e dibattiti. Il progetto espositivo curato da OCA nel 2018 a Oslo, Let the River Flow. The Sovereign Will and the Making of a New Worldliness, ha permesso di dare visibilità internazionale all’arte contemporanea Sámi, rivendicandone il pieno diritto a entrare all’interno della storia dell’arte e della museologia norvegesi e internazionali.
Quando si è internazionalizzato l’interesse?
La Documenta 14 ha consacrato l’arte contemporanea Sámi a livello mondiale, invitando otto artisti a esporre ad Atene e Kassel nel 2017. Legittimati da una fitta rete relazionale che si stava consolidando a ridosso e oltre i confini tracciati dalla Documenta, il Sápmi e i progetti dedicati alle culture indigene sviluppati in seno a OCA si sono moltiplicati e riceviamo oggi richieste di partecipazione a mostre e biennali da tutto il mondo.
LE CARATTERISTICHE DELL’ARTE SÁMI
Quali sono le tematiche che più ti hanno colpito in questi anni di collaborazione con artisti e colleghi situati dentro e oltre i confini del Sápmi?
Il perdurare delle conseguenze lasciate dal colonialismo, tanto nelle comunità indigene locali quanto nella nostra società contemporanea, rientra tra le cose più spiazzanti che ho potuto notare. Il processo di emancipazione da una cultura coloniale prevaricante ha caratterizzato la storia recente del Sápmi ed è una sfida transgenerazionale che le comunità Sámi stanno ancora affrontando, anche in un Paese riconosciuto per essere un pioniere del benessere sociale, dell’uguaglianza e dell’ecologia come la Norvegia. Ci sono ferite ancora aperte, tracce di un passato prossimo che le nuove generazioni di artisti affrontano con forza e determinazione, come già avevano fatto gli artisti del collettivo Mázejoavku nel 1978.
Quali altre caratteristiche sono emerse?
Il ruolo riservato alla figura femminile, non soltanto leader spirituale all’interno delle comunità ma anche figura essenziale nella gestione delle attività quotidiane legate all’allevamento delle renne e la pastorizia. La sua centralità venne meno durante il fenomeno dei processi alle streghe che si è diffuso in tutta Europa tra il XV e il XVIII secolo. Lo Steilneset Memorial, eretto a Vardø nel 2011-12 e progettato da Louise Bourgeois e Peter Zumthor, ricorda questo periodo in cui oltre un centinaio di persone furono processate e condannate. In seguito, il modello matriarcale nel Sápmi è stato nuovamente violato da quello patriarcale imposto dal colonialismo occidentale. Partendo da questo tema, OCA ha sostenuto nel 2019 il progetto SápmiToo sviluppato dal collettivo Dáiddadállu, che affrontava tematiche legate al genere, alla violenza e agli abusi sessuali nelle comunità Sápmi e indigene, il loro rapporto con l’esperienza coloniale e come l’arte riesca a farsi carico dei temi di queste conversazioni.
Ritieni che l’arte Sámi sia equamente rappresentata a livello istituzionale e conosciuta dai professionisti dell’arte non indigeni, sia in Norvegia sia all’estero?
Ritengo che da parte della comunità globale non indigena ci siano curiosità, consapevolezza e interesse sempre maggiori, anche grazie al prolifico dialogo avviato con altre comunità in Nuova Zelanda, Australia e Canada. Tuttavia, la strada da percorrere è ancora lunga, considerato che l’arte e la cultura Sámi non sono ancora adeguatamente rappresentate a livello nazionale. Si sente discutere molto di questioni indigene ma persistono lacune da colmare. Tra tutte, la quasi completa assenza di professionisti appartenenti alle comunità Sámi nello staff delle istituzioni culturali norvegesi, dove OCA resta uno dei rari casi virtuosi in questo senso.
IL CONCETTO DI ARTE “INDIGENA”
Quali altri spazi espositivi indipendenti, centri di ricerca e istituzioni scandinave collaborano con OCA su questi argomenti?
Stiamo collaborando con alcune istituzioni “sorelle”, come Norwegian Crafts, e con altri spazi culturali in città, come la Kunstnernes Hus. Interlocutori primari sono anche le organizzazioni simili a noi per dimensione e vocazione, come Frame a Helsinki o Iaspis e Tensta Konsthall a Stoccolma. Sul piano internazionale, OCA è coinvolta nello sviluppo di un grande progetto espositivo insieme al museo MASP di San Paolo previsto per il 2024, cui seguiranno diverse tappe internazionali, tra cui KODE a Bergen; la mostra conterà, tra gli altri, la partecipazione di artisti e curatori Sámi.
Qual è la tua opinione sull’uso dell’aggettivo “indigeno” per descrivere l’arte contemporanea Sámi? È un termine “neutrale” per riferirsi a essa?
L’utilizzo della parola “indigeno” è stato indicato dalle Nazioni Unite nel 2007 quale termine legittimo, rafforzativo ed efficace da utilizzare nelle discussioni internazionali per rivolgersi a queste comunità. Tuttavia, descrive un gruppo di persone eterogeneo e vario, che condivide solo alcuni aspetti della storia comunitaria, come le esperienze coloniali e il legame peculiare con la natura e la terra. A parte questo, le comunità indigene sono molto diverse tra loro e sarebbe erroneo omologarle.
OCA ha recentemente pubblicato una trilogia dedicata all’arte e alle pratiche curatoriali indigene con importanti contributi da parte dei membri di queste stesse comunità. Quanto è tangibile il rischio di incomprensioni quando a occuparsi di “questioni” indigene sono professionisti con altre culture, e viceversa?
Il rischio c’è ma lo scambio costruttivo di idee e la diffusione universale della conoscenza sono fattori essenziali per la cultura e l’arte contemporanea, quindi ben venga chi desideri parlarne. La sfida per i curatori norvegesi e, in generale, per tutti i professionisti che non fanno parte delle comunità indigene, è mantenere un atteggiamento umile di fronte a una cultura poco nota, per evitare imprecisioni ed essere sicuri che ciò che viene detto o scritto sia davvero in linea con le prospettive indigene.
Ci fai un esempio?
La parola duodji viene spesso tradotta come “arti applicate” e, così facendo, inserita automaticamente in una gerarchia lessicale occidentale secondo cui le “belle arti” occupano un ruolo di prim’ordine rispetto alle discipline minori. Il termine duodji, invece, indica una meta-categoria della cultura e dell’estetica Sámi che potrebbe tradursi con “cultura materiale”, perché non descrive solo gli oggetti, ma ha a che fare con la conoscenza della natura, con una prospettiva spirituale e con altri elementi che andrebbero perduti utilizzando un termine adatto ad altri ambiti, come il design occidentale.
IL PADIGLIONE SÁMI ALLA BIENNALE DI VENEZIA
Il progetto per il Padiglione Sámi collocherà i Paesi Nordici in prima linea nell’impegno per il riconoscimento e la valorizzazione delle pratiche artistiche riguardanti le popolazioni indigene. Ci sono stati progetti analoghi in Biennale che ti hanno ispirato?
La decisione di portare l’arte contemporanea Sámi a Venezia è il frutto di anni di lavoro. Significa aver conquistato la fiducia da parte di questa comunità e un sufficiente livello di conoscenza che ci permette di lavorare con consapevolezza rispetto alle attuali questioni che riguardano il Sápmi. Pur non ispirandosi a progetti specifici, il Padiglione Sámi si concentra su prospettive indigene che sono state toccate in passato da precedenti interventi artistici, dentro e fuori gli spazi della Biennale. Ricordo tre progetti: quello di Lisa Reihana per la Nuova Zelanda e di Tracy Moffat per l’Australia alla 57. Biennale e il progetto del Miracle Workers Collective esposto nel 2019 al Padiglione Finlandese. La Biennale del 2022 si prospetta ricca di novità (vedi i progetti presentati dalla Francia con Zineb Sedira, dagli USA con Simone Leigh e dalla Gran Bretagna con Sonia Boyce) e darà senza dubbio un forte contributo alla riflessione su quelli che sono i temi più scottanti della nostra contemporaneità.
Potresti approfondire alcuni aspetti del Padiglione Sámi e dei relativi progetti artistici?
Il progetto è strutturato in modo da avere un’ampia partecipazione di professionisti Sámi accanto agli artisti selezionati. Diretto da me e da due curatori Sámi, cui si aggiunge un assistente curatore Sámi, il team si avvale della preziosa collaborazione di due consulenti internazionali, Brook Andrew e Wanda Nanibush, curatori indigeni di grande esperienza. Abbiamo chiesto ai tre artisti selezionati, Máret Ánne Sara, Paulina Feodoroff e Anders Sunna, di farsi guidare da una persona della loro comunità nel processo di creazione delle loro opere. Interessante, ma non imprevedibile, è stata la scelta di tutti e tre gli artisti, che è ricaduta su persone anziane. Questo è un dato rilevante, perché nelle prospettive indigene gli anziani sono molto stimati e viene ritenuta fondamentale la trasmissione delle tradizioni e della cultura orale alle giovani generazioni. Il progetto di un Padiglione Sámi alla prossima Biennale include e pone le comunità del Sápmi in una posizione decisionale nei riguardi della diffusione di una vasta cultura, mostrando il profondo rispetto e il riconoscimento per questa popolazione indigena.
‒ Maria-Elena Putz
Si ringraziano per la collaborazione: Katya Garcia-Ántón (OCA), Karoline Trollvik (OCA), Anne May Olli (RiddoDuottarMuseat), Randi Godø (Nasjonalmuseet), Monica Grini (UiT – Norges Arktiske Universitet).
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #61
Abbonati ad Artribune Magazine
Acquista la tua inserzione sul prossimo Artribune
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati