Lasciate ogni speranza voi ch’entrate. Un avviso, affisso al portone a battenti chiusi che dà accesso a Francis Bacon: Man and Beast, ammonisce i visitatori che la mostra non è adatta a pudici e deboli di cuore per via dei suoi contenuti espliciti. Dispiegata attraverso nove gallerie della Royal Academy of Arts, la nuova retrospettiva dedicata al pittore forse più amato dagli inglesi (se la giocano lui e Lucian Freud) ripercorre l’evoluzione artistica di Francis Bacon (Dublino, 1909 – Madrid, 1992) dagli inizi – da Crucifixion, 1933, che mette in moto l’operazione tipicamente baconiana di dissacrare tutta l’iconografia religiosa – fino ad arrivare al suo ultimissimo e schematicissimo Study of a Bull, 1991, in prestito da una collezione privata, per la prima volta presentato al pubblico.
IL LINGUAGGIO PITTORICO DI BACON
Pareti in sang de boeuf e indaco, in un plausibile richiamo agli sfondi sgargianti che Bacon predilesse soprattutto dagli Anni Settanta in poi, avvolgono lo spettatore per l’intera visita e colorano un’atmosfera quasi crepuscolare. L’illuminazione diffusa sembra crescere man mano ci si avvicina a tele di grandi e piccole dimensioni, in un gioco di luci che spesso riflette la nostra stessa immagine attraverso il vetro. I soggetti rappresentati, difficilmente decifrabili, ci invitano prima a un’osservazione ravvicinata per poi spingerci lontano con veemenza, lasciandoci scossi, defibrillati dallo scandalo elettrizzante del poco che siamo riusciti a scorgere: un orecchio, perfettamente delineato, si staglia dalla massa informe di pittura a cui il corpo si riduce in Head I, in apertura. E poi lingue e labbra, mascelle agonizzanti che sembrano implorare a gran voce per un filo d’aria, deretani esposti, muscoli contorti e aggrovigliati: Man and Beast mette sul banco proprio tutto quello che ci si aspettava da un artista ossessionato dalla carne e dalle sue debolezze. Costruzioni spesso artificiose confondono l’interno con l’esterno, e imprigionano corpi e busti dentro teche e recinti in canne, come in uno zoo. Lo scopo è rappresentare la fragilità e l’isolamento del genere umano. Fragment of a Crucifixion (1950) mostra due creature biomorfe nel tentativo di fuoriuscire da una croce e un’impalcatura bianca appena abbozzate, mentre sagome nere di automobili e figurine stilizzate sfrecciano su uno sfondo desertico, incuranti delle loro sofferenze.
L’ANIMALE COME UOMO
L’esposizione londinese, unica nel suo genere, è la prima a dedicare ampio spazio alla curiosità morbosa che il pittore irlandese nutriva nei confronti dell’animale come alter ego dell’essere umano, e a come comportamenti animaleschi, a detta di Bacon, siano talvolta capaci di rivelare verità inderogabili e terribilmente scomode sulla stessa natura umana quando questa viene rappresentata senza veli e inibizioni. Emblematico è il trittico Three Figures in a Room (1964), dove una figura nuda (modello di Bacon è in questo caso l’amante George Dyer) sembra piroettare su sé stessa all’interno di una piattaforma circolare, evidenziando in tre sequenze il ciclo quotidiano della vita corporale che accomuna bestia e persona, dall’ingerimento alla defecazione. Gli animali fanno il nostro gioco e noi facciamo il loro – anche nella sfera sessuale, dove l’eros si materializza sotto forma di una selvaggia caccia all’uomo, fatta di inseguimenti, zuffe e accoppiamenti efferati, come illustrato da Two Figures in the Grass (1954).
L’UOMO COME ANIMALE
La fauna selvatica rimarrà un punto di riferimento fondamentale per Bacon nella rappresentazione dei nudi maschili e femminili, quasi sempre di genere ambiguo e frutto di osservazioni pseudoscientifiche compiute dal pittore durante i suoi viaggi in Sudafrica negli Anni Cinquanta. Wildlife è infatti il titolo di una delle gallerie, senza dubbio la più provocatoria dal punto di vista curatoriale poiché non conta soltanto gufi, cani e scimpanzé, ma anche categorie di persone che gli antichi con Aristotele, e i moderni con l’eugenetica, hanno egualmente etichettato come “bestiali”. Bacon, artista dichiaratamente gay in un’epoca dove l’omosessualità era considerata un reato, ebbe una storia travagliata e violenta con Peter Lacy. In Study for Portrait of P.L. No. 1 (1957), Lacy viene rappresentato come un inerme animale domestico, acciambellato sul divano a mo’ di gatto e nudo per accentuare la sua vulnerabilità. Se da un lato “wildlife” rimanda alla vita selvaggia, sregolata, che Bacon condusse per via del suo orientamento, dall’altro ci invita a riflettere sul senso di tale categorizzazione. Che cosa significa bollare il corpo omosessuale come “wild” ed esibirlo in una stanza che ospita per lo più creature esotiche? E che cosa significa, per noi, restare a guardare? Queste domande ci colpiscono come schiaffi, mentre osserviamo attoniti, nella quinta sala, Paralytic Child Walking on All Fours (1961), forse il pezzo più sconcertante dell’intera collezione, che ritrae un infante disabile dai tratti scimmieschi. L’opera riprende una fotografia che Eadweard Muybridge, fonte di grande ispirazione per Bacon, aveva scattato allo stesso soggetto per studiarne i movimenti, perpetrando tassonomie di corpi, “giusti” e “sbagliati”, dalle quali il mondo odierno sta finalmente cercando di liberarsi.
BACON E LO SPETTATORE
Francis Bacon: Man and Beast restituisce l’immagine di un artista nella sua forma più cruda, per il quale l’arte è “astrazione” nel senso di “riduzione all’essenziale”, una coagulazione di forma e colore che cattura e al tempo stesso smaschera l’illusione dell’uomo classico (e del suo ritratto nella tradizione pittorica) come misura di tutte le cose, indipendente, integro, razionale. È una mostra in perfetta sintonia con le sensibilità degli ambienti umanistici inglesi, i cui spazi accademici hanno oggi fortemente a cuore le preoccupazioni del Post umanesimo e del Post colonialismo, con il loro auspicio di un policentrismo ontologico, opposto all’antropocentrismo, e il desiderio di smantellare la barbarie dell’impero britannico e le sue gerarchie. Bacon lascia a loro come a noi un’eredità importante. Nel marzo 1992, un mese prima della sua morte, gli artisti Coco Fusco e Guillermo Gómez-Peña decisero di chiudersi in una gabbia vestiti da aborigeni. La performance era stata concepita con l’intento espressamente satirico di turbare la coscienza del pubblico di Irvine, California (e poi Londra, Madrid e altre), che avrebbe dovuto ricordarsi della pratica, tipicamente ottocentesca, di esibire individui provenienti da Africa, Asia e Sudamerica come oggetti museali. E invece i passanti credettero alla finzione, mettendosi a fotografare incuriositi i due “selvaggi”. Man and Beast ci domanda, in fondo, se siamo caduti nella stessa trappola, schiacciati da un voyeurismo insensibile.
‒ Caterina Domeneghini
Londra // fino al 17 aprile 2022
Francis Bacon: Man and Beast
ROYAL ACADEMY OF ARTS
Burlington House, Piccadilly
https://www.royalacademy.org.uk
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