Le vestigia di Persepoli nella pittura di Joseph Lindon Smith
Le sei grandi tele dipinte da Joseph Lindon Smith, in mostra per la prima volta dopo ottant’anni all’Oriental Institute di Chicago, raccontano di un tempo antico e della grande passione del pittore americano per l’archeologia
Quel giorno di dicembre del 1948 al tavolo da pranzo nella casa al Cairo dell’archeologo e architetto Abd Essalam Hussein, direttore del cantiere dell’Opera dei Monumenti dell’antico Egitto, c’era, fra gli altri ospiti, una coppia avanti nell’età, ovvero un raffinato ed esile gentiluomo e un’eloquente e distinta gentildonna.
Notando quel signore attingere moderate quantità di vivande che riponeva nel suo piatto con discrezione, l’ospitante gli chiese perché mangiasse così poco. Il signore fece una piccola pausa nei suoi gesti e adagiando con cura le posate rispose che con la nuova stagione dei lavori in arrivo non poteva permettersi di aumentare di peso e anzitutto di volume, perché una delle sue mansioni consisteva spesso nell’introdursi in tombe ed edifici antichi, frequentemente di scarsissima ampiezza, passando da un turbine improvviso di sabbia e dal sole abbacinante alla quiete e alla penombra per disegnare e dipingere. Quel signore era Joseph Lindon Smith (Pawtucket, 1863 ‒ Dublin, New Hampshire, 1950), 85 anni all’epoca del pranzo, pittore americano, celebre per le sue raffigurazioni di opere archeologiche dipinte su tela, prodigiosamente intense da apparire bassorilievi staccati dai loro siti, da suscitare il desiderio di sfiorarli con i polpastrelli delle dita; al fianco di Smith sua moglie, Corinna Putnam Smith, scrittrice, studiosa di arabo e di Islam, nonché appassionata archeologa, figlia dell’editore George H. Putnam. A raccontare con stupore e piacere questo episodio nel libriccino Joseph Lindon Smith. The man and the artist del 1949, una dozzina di pagine di celebrazione dell’amicizia con Smith, è M. Mahdi Allam, uno dei commensali di quella tavola imbandita, decano del Ministero della Pubblica Istruzione del Cairo di quei tempi.
L’EGITTO E LA PITTURA DI JOSEPH LINDON SMITH
L’attività in Egitto ebbe una profonda influenza su Smith e sulla tecnica pittorica. Il suo lavoro era basato sulla documentazione dei colori dei bassorilievi e dei panorami delle vestigia. Agli inizi del 1935 Smith era a Persepoli – città fondata da Dario il Grande intorno al 518 in Persia, l’attuale Iran, successivamente ampliata dal figlio Serse e data alle fiamme da Alessandro Magno nel 330 a.C. – su invito di James H. Breasted, fondatore e poi direttore dell’Oriental Institute della University of Chicago, per una serie di dipinti dei resti dell’antica città achemenide. Le sei grandi tele eseguite allora sono in mostra fino al 28 agosto 2022 al museo dell’Oriental Institute nell’esposizione dal titolo Joseph Lindon Smith: The Persepolis Paintings. A Special Exhibition a cura di Kiersten Neumann, ricercatrice del dipartimento di arte e archeologia del Vicino Oriente della stessa università.
LA FORMAZIONE E LE PRIME OPERE DI JOSEPH LINDON SMITH
Nato a Pawtucket, Rhode Island, Smith si formò alla School of the Museum of Fine Arts di Boston dal 1880 al 1882, per proseguire gli studi all’Académie Julian di Parigi dal 1883 al 1885 con il compagno di studi F.W. Benson. Viaggiarono in Grecia e in Italia. A Venezia conobbe Isabella S. Gardner, notevole collezionista d’arte e filantropa americana, la quale divenne sua sostenitrice e leale amica per tutta la vita.
Nel 1898 era in Egitto, dove dipingeva soggetti archeologici che vendeva ai viaggiatori. Fra questi la più affezionata alle sue opere era Phoebe A. Hearst, filantropa americana, vedova del facoltoso imprenditore George Hearst e madre del più celebre William R. Hearst, magnate dei mass media statunitensi, incontrata ad Abu Simbel all’inizio del 1899. Fu questa nuova amica a presentare Smith all’egittologo George A. Reisner, che di lì a poco sarebbe diventato, nel 1902, il direttore degli scavi archeologici della spedizione finanziata dalla signora Hearst.
LE TELE DI PERSEPOLI IN MOSTRA A CHICAGO
I dipinti sono esposti al pubblico oggi per la prima volta tutti insieme dalla loro presentazione del 1939 al Museum of Fine Arts di Boston. Due delle tele più grandi hanno visto la luce lo scorso gennaio, protette dal contenitore che le ha trasportate da Persepoli a Boston e custodite per più di ottant’anni. Le sei opere che l’Oriental Institute commissionò a Joseph L. Smith rappresentano il meglio del lavoro persiano dell’artista, il set dimostra il suo caratteristico stile a pennello asciutto – dry-brush style –, con setole rigide che stendono esigue quantità di colore. L’effetto è di pittura “secca” e non liscia di vernice, come appare comunemente nei dipinti.
Le tele esposte sono suddivise in due gruppi. Tre paesaggi luminosi e solenni delle rovine nel cielo azzurro e tre primi piani dei rilievi che catturano perfettamente la tridimensionalità e la qualità della pietra. Nel primo gruppo ci sono il panorama con le colonne dell’Apadana, ovvero la grande sala ipostila delle udienze del palazzo di Dario, il panorama della scalinata orientale, la terrazza monumentale con la Porta di tutti i Paesi. Nel secondo gruppo ci sono le guardie persiane della scala orientale, la delegazione scita, il leone e il toro in combattimento. Quest’ultima è la tela più grande e misura 3,65 per 2,14 metri. La coppia del leone e del toro ha una lunga tradizione nel Vicino Oriente ed era già nota circa 4000 anni prima della sua presenza sulla scalinata di Persepoli. Erano potenti animali reali, ma il significato preciso del loro combattimento è sfuggente. A Persepoli il leone che morde il dorso di un toro può riflettere l’ideale imperiale dei sovrani, il modo in cui consideravano se stessi e l’identità che volevano proiettare.
In queste ultime tre tele c’è la migliore abilità di Smith nell’imitare la tridimensionalità, nel simulare la qualità tonale della superficie scolpita dall’uomo e dalle intemperie in 2500 anni, le immagini sono instillate di una nuance che dà vivezza alla pietra.
Nell’esposizione le sei opere vengono messe a confronto con le fotografie, i disegni e i documenti dell’epoca, una scelta che fa emergere le soluzioni adottate da Smith nella composizione delle immagini sulla tela.
L’IMPERTURBABILITÀ DI RAMSES II
Nel 1947 Joseph Lindon Smith stava parlando a un gruppo di studenti di arte in visita alla sua mostra al Museo Egizio del Cairo. A uno di loro, che gli chiese perché avesse rinunciato al ritratto e si fosse dedicato a effigiare i resti antichi, Smith, con la sua usuale calma, rispose: “Quando dipingevo ritratti, i miei soggetti non arrivavano mai in orario per posare e spesso non si presentavano, avevano mariti o mogli, madri e altri parenti che criticavano il mio operato: una bocca dipinta che per loro non andava bene, un naso o un mento secondo la loro opinione troppo grandi o piccoli…”. Poi, indicando la statua di Ramses II, il grande faraone egizio, aggiunse: “Questo è il tipo di soggetto che mi piace, è sempre puntuale, non ha famigliari e non si muove mai”.
‒ Francesco Panaro
Chicago // fino al 28 agosto 2022
Joseph Lindon Smith: The Persepolis Paintings. A Special Exhibition
ORIENTAL INSTITUTE
1155 E 58th Avenue
https://oi100.uchicago.edu/jls
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