Alla fine degli Anni Novanta, Stuart Hall sulle pagine della rivista Third Text si chiedeva a chi appartiene il patrimonio: Whose Heritage? Un-settling “The Heritage” (1999). Se il patrimonio è legato alla conservazione e alla rappresentazione di arte e/o cultura che testimoniano della storia di una comunità nazionale, esso arriva ad essere “la materiale incorporazione dello spirito della nazione”, con una potente vocazione educativa tesa non tanto al comando (governing), quanto in un senso più ampio ai modi in cui lo stato, indirettamente e a distanza, induce e sollecita ne_ cittadin_ attitudini e condotte appropriate (governmentality), cioè ai modi in cui ogni cittadin_ incorpora letteralmente la propria cultura d’appartenenza e le norme sociali che ne derivano. Dunque, si chiede Stuart Hall, per chi è il patrimonio? Per coloro che “appartengono”. Cioè per coloro che appartengono a un’identità immaginata e postulata, nel passato, come culturalmente omogenea, unificata e tradizionale, come quella della nazione. Chi non vede se stess_ rifless_ nello specchio del “patrimonio nazionale” non può mai propriamente “appartenere” a quella comunità. È interessante rileggere queste riflessioni a distanza di più di vent’anni. Wayne Modest, nell’introduzione al volume Matters of Belonging. Ethnographic Museum in a Changing Europe (2019) si chiede in che modo queste riflessioni siano cruciali oggi, in un’Europa postcoloniale (ma non decolonializzata), con un tessuto sociale e culturale tutt’altro che omogeneo, anzi evidentemente interculturale, segnato da mobilità e migrazioni da paesi ex colonie e da altre parti del mondo, e da una sempre maggiore presenza di persone con origini o background culturali misti, non sempre riconosciute come cittadin_.
Se tuttavia pensiamo alla nazione, seguendo Stuart Hall, come “an on-going project, under constant reconstruction”, e il museo come un dispositivo-specchio che costruisce l’immagine della propria comunità mentre la mostra, il museo e il patrimonio, in particolare il patrimonio coloniale contenuto nei musei etnografici Europei, appaiono al centro di una sfida e di una possibilità senza precedenti: quelle di un riconoscimento del ruolo che ha avuto storicamente la diversità culturale per la formazione dell’identità nazionale della propria comunità, e della violenza che ha caratterizzato questo processo; di una ridefinizione contestuale dei possibili, legittimi, sensi di appartenenza a una stessa comunità da parte di persone con differenti background; e di una rinegoziazione radicale dell’appartenenza del patrimonio stesso, in particolare del patrimonio di origine coloniale, per rovesciare finalmente il segno di appropriazioni storiche in una nuova forma di giustizia.
Restituire letteralmente significa rendere un oggetto al suo legittimo proprietario, ma vuol dire anche re-istituire l’oggetto al suo contesto e agli usi e ai significati che in quel contesto si ritengono propri. Significa cioè permettere un processo di ri-appropriazione simbolica di quell’oggetto da parte della sua comunità d’appartenenza, dopo che quell’oggetto è stato dislocato, decontestualizzato, risemantizzato e inserito in un differente ordine simbolico da parte dello sguardo europeo.
Restituire gli oggetti, parte di un patrimonio sottratto in modi spesso illegittimi e brutali, non significa dunque restituirli così come erano prima, ma re-investirli di una funzione sociale. Un gesto che ha a che fare con una dimensione etica, e di restaurazione di relazioni di reciprocità fra le parti: nell’atto della restituzione viene esplicitamente riconosciuta l’illegittimità del possesso dell’oggetto da parte degli/delle attuali proprietari_, e la volontà di operare non solo un riconoscimento, ma anche una “riparazione” di quell’ingiustizia. Le implicazioni sono dunque non solo giuridiche ma anche di ordine politico e simbolico: si tratta di aprire attraverso questo gesto una riflessione profonda sul passato coloniale, e il modo in cui ha contribuito alla costruzione del patrimonio dei musei occidentali; ma si tratta anche di operare un rovesciamento epistemologico, riconoscendo l’esistenza di diverse (legittime) interpretazioni del “patrimonio culturale” (un concetto del resto prettamente europeo e tutt’altro che universale di per sé) e in generale della cultura materiale, del museo stesso come luogo pubblico e come spazio di relazione fra persone e fra comunità.
“Restituire letteralmente significa rendere un oggetto al suo legittimo proprietario, ma vuol dire anche re-istituire l’oggetto al suo contesto e agli usi e ai significati che in quel contesto si ritengono propri”.
Il processo delle restituzioni è anche un’occasione preziosa per noi, per demistificare le nozioni museali occidentali universalizzate e normalizzate come le uniche “scientificamente” corrette. Il modello di un museo centralizzato, devoto alla conservazione e all’esposizione del patrimonio, è solo una delle possibili configurazioni per la collocazione del patrimonio nello spazio sociale e, difficile per noi concepirlo, la conservazione non è una priorità museale universale.
Iniziare una riflessione seria intorno alle restituzioni può inoltre aiutare nei paesi ex colonizzati un processo di ricostruzione di identità attraverso le storie e le memorie, che è alla base della ri-costruzione di comunità politiche, aiutando le generazioni più giovani a conoscere la loro storia e a costruire la loro identità (anche) attraverso il proprio patrimonio, come sottolinea Achille Mbembe: “Le nuove generazioni stanno emergendo dalla visione etnologica che è stata imposta all’Africa per secoli. Sul piano intellettuale, il ritorno dei nostri oggetti dal loro lungo periodo di cattività in Occidente deve permettere di chiudere questo capitolo e, grazie a questo rinnovamento culturale e artistico, di ripensare l’Africa come uno dei centri di gravità del mondo”.
– Giulia Grechi
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #65-66
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