A che punto siamo con la restituzione delle opere d’arte alle ex colonie?
Il dibattito sulla restituzione di reperti e opere d'arte trafugate nelle ex colonie dei Paesi europei e occidentali è uno dei nodi principali della museologia contemporanea. E proprio per questo non è di facile soluzione. Cerchiamo di fare il punto della situazione, mentre in questi giorni si è riacceso il dibattito sulla restituzione alla Grecia dei Marmi del Partenone. Ma di questo parleremo in un articolo specifico
I bronzi del Benin sono conosciuti universalmente come simbolo di pregiata fattura artistica. Il complesso di oltre mille placche e sculture metalliche adornava il palazzo reale del Regno Edo, oggi nel sud della Nigeria, prima di essere depredato dall’impero inglese. Correva l’anno 1897 e le ambizioni coloniali britanniche in Africa si stavano espandendo. I soldati osarono entrare nel Benin durante una solenne cerimonia religiosa, un agguato che costò la vita alla maggior parte di loro. La risposta di Londra non si fece attendere: una spedizione punitiva mise a ferro e fuoco Benin City, trasformando in bottino di guerra i famosi bronzi, che intrapresero il loro viaggio verso circa cinquanta musei europei e nordamericani.
Negli ultimi anni, però, qualcosa sta cambiando e i bronzi hanno cominciato a tornare lentamente a casa, dove verranno accolti nel nuovo museo Edo. Nel 2014, un consulente medico britannico in pensione, Mark Walker, ha restituito due sculture rubate da suo nonno durante l’assedio del 1897. Poi è stato il turno dell’Università di Aberdeen, in Scozia, che aveva acquistato una testa di Oba, il sovrano del Benin, e del Jesus College dell’Università di Cambridge, che aveva ricevuto in dono dal padre di uno studente nel 1905 un gallo di bronzo. Anche la Germania, una delle principali destinazioni delle opere, ha chiesto ai musei un elenco dettagliato per restituire tutti i bronzi arrivati attraverso il commercio d’arte.
Non sempre è così facile stabilire l’origine degli oggetti, se siano stati saccheggiati oppure acquistati legalmente, soprattutto in un contesto di dominio come quello coloniale. Il tema della restituzione delle opere d’arte giunte nei Paesi europei durante quel periodo è all’ordine del giorno e i musei si dividono principalmente in due blocchi: chi, come il British Museum o l’Humboldt Forum di Berlino, crede nell’idea del museo universale e nel ruolo degli artefatti come testimoni di un passato sanguinario; chi, come il Museo Africa di Tervuren (Belgio), accetta che le opere abbiano bisogno del loro contesto originario per essere pienamente comprese.
REPARATION MOVEMENT
La morte di George Floyd per mano di un poliziotto statunitense nel maggio del 2020 e le successive proteste del movimento Black Lives Matter hanno ravvivato il dibattito. I manifestanti si sono scagliati contro alcuni simboli emblematici della disparità razziale e sociale, come le statue di Leopoldo II in Belgio, che aveva fatto del Congo il suo possedimento personale, o Hans Sloane a Londra, il padrino del British Museum accusato di schiavismo. Era già successo altre volte nella storia, per esempio con la statua di Giorgio III a New York nel 1776 o con i monumenti monarchici nella Francia rivoluzionaria. La scultura o la statua in questi casi diventa una sintesi delle ingiustizie, rappresentazione di un sistema da abbattere.
Questo discorso rientra nel più grande concetto di reparation o dei reparation movement, che chiedono ai responsabili del colonialismo, dello schiavismo e della discriminazione razziale non solo risarcimenti finanziari ma anche e, soprattutto, un’ammissione di colpa. Lo ha fatto ultimamente la Germania, che ha riconosciuto nel maggio scorso il genocidio degli Herero e dei Nama in Namibia e destinerà 1,1 miliardi di euro per la ricostruzione e lo sviluppo. Negli Stati Uniti sono nate numerose commissioni in Oregon, a New York, in California e alla Camera per studiare proposte di riparazione per gli afroamericani.
Ma il riconoscimento della propria responsabilità passa attraverso misure specifiche e la restituzione delle opere d’arte trafugate è sicuramente una delle più richieste. Per Beatrice Nicolini, professoressa di Storia dell’Africa alla Facoltà di Scienze politiche e sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, questa necessità risponde a obiettivi politici: “Le richieste provengono spesso dalle leadership politiche africane per avere un consenso più ampio dal basso. E poi invece c’è dall’altra parte una necessità di riconciliarsi con un’eredità molto faticosa, alla luce dei recenti movimenti che provengono dal mondo anglosassone”.
La battaglia delle ex colonie per riavere indietro il patrimonio rubato affonda le sue radici già nelle prime fasi della decolonizzazione. Nel 1954, la Convenzione dell’Aja per la protezione dei beni culturali ha sancito la tutela del patrimonio artistico in caso di conflitto armato e nel 1970 la Convenzione Unesco ha imposto il divieto di illecita importazione, esportazione e trasferimento di proprietà dei beni artistici. Queste iniziative non sono mai state applicate in modo retroattivo, impedendo alle potenze europee di riflettere sui saccheggi del passato coloniale. Quindi, le restituzioni sono state poche e sporadiche: la Nigeria ha cominciato per esempio a reclamare i bronzi del Benin già negli Anni Settanta, senza successo.
Oggi il dibattito è più vivo che mai. Paesi come Francia, Olanda, Germania e Belgio hanno cominciato ad affrontare più seriamente la loro pesante eredità. In assenza di un quadro legislativo internazionale di riferimento, ognuno propone un sistema diverso, più o meno centralizzato e con un ruolo più o meno nevralgico dei musei. Vediamo quali sono i diversi approcci.
L’APPROCCIO “CASO PER CASO”
Durante un viaggio in Burkina Faso nel 2017, il presidente francese Emmanuel Macron ha annunciato la fine della Françafrique, la strategia di influenza politica, commerciale e militare in Africa partendo dalla restituzione dei manufatti artistici. “Sarà una delle priorità”, ha detto a Ouagadougou. Come primo passo, Macron ha commissionato uno studio all’accademico senegalese Felwine Sarr e alla storica dell’arte francese Bénédicte Savoy per elaborare una strategia di ritorno delle opere. Il risultato è stato ampiamente criticato da alcuni musei e da riviste di destra come Le Point, alimentando la paura che gli istituti artistici sarebbero stati “svuotati”. Savoy e Sarr sostengono “una restituzione perenne” e senza condizioni come soluzione principale di fronte ai prestiti a lungo periodo. Il rapporto elabora un calendario che coinvolgerebbe innanzitutto ventiquattro opere da riportare in Mali, Benin, Nigeria, Senegal, Etiopia e Camerun, mentre la Francia dovrebbe occuparsi di creare un inventario di oggetti per ogni Stato africano. Le commissioni bilaterali discuterebbero a quel punto con i Paesi quali artefatti della lista vogliono recuperare.
Dalla pubblicazione del rapporto è già passato qualche anno e le iniziative del governo francese si contano sulle dita di una mano. Nel luglio del 2020, l’Algeria ha ricevuto i resti di ventiquattro resistenti alla colonizzazione francese, mentre un anno prima l’ex primo ministro Édouard Philippe aveva consegnato, in prestito, la spada dell’eroe El Hadj Omar Saidou Tall al Senegal. Queste scelte dimostrano che la Francia ha preferito prediligere un approccio di restituzione “caso per caso” piuttosto che un’analisi esaustiva del suo patrimonio artistico.
Resta complicato, però, piegare la legge francese a una restituzione incondizionata di tutte le opere, perché sono protette dal principio di inalienabilità. Questo obbliga il governo ad approvare leggi ad hoc per ogni oggetto, com’è avvenuto recentemente per il ritorno di 27 manufatti in Benin e Senegal. Il 4 novembre 2020 i senatori hanno approvato un disegno di legge limitato esclusivamente a questo caso e la ministra della Cultura Roselyne Bachelot ha specificato che si tratta di un’iniziativa di “carattere strettamente eccezionale e limitato”. A gennaio, il Senato ha risposto rilanciando l’idea di creare una commissione nazionale che comprenderebbe anche potenziali richieste di restituzione da Stati Uniti, Australia e Nuova Zelanda, ma il governo di Macron non è d’accordo ed è difficile che la proposta venga esaminata prima delle elezioni di aprile. “Ogni Paese ha dato una risposta diversa, mentre la Francia ha un’idea di restituzione a molti Paesi dell’Africa occidentale con cui non vuole perdere alcuni rapporti che di sicuro non sono basati su oggetti d’arte ma su altro”, spiega Nicolini.
Tra l’85% e il 90% del patrimonio dell’Africa subsahariana si trova fuori dal continente. La Francia detiene circa 88mila opere, la maggior parte custodite nel Musée du Quai Branly. Proprio lì, a giugno 2020, alcuni attivisti del gruppo Unité Dignité Courage hanno trasmesso in diretta social un primo atto di riappropriazione di una stele funeraria in legno del XIX secolo proveniente dal Ciad. A capo di questo movimento c’è Mwazulu Diyabanza, che rimase molto colpito quando la madre gli raccontò da piccolo, nell’allora Zaire, del furto di tre oggetti del suo bisnonno da parte di colonizzatori europei. “Ho scelto le opere una volta che ero lì nei musei. Scelgo quella che mi parla di più e che è disponibile in quel momento, senza alcuna premeditazione”, afferma via mail.
Nei mesi successivi ha ripetuto la stessa protesta con altri manufatti nel Musée des Arts africains, océaniens et amérindiens di Marsiglia, nel museo Afrika di Berg en Dal (Olanda) e al Louvre. Inoltre, ha fatto richiesta di restituzione di alcune opere anche ad altri istituti, come il Mas di Anversa. “Gli europei e gli occidentali hanno fatto del male ai popoli diseredati. Sono andato a recuperare ciò che è nostro di diritto”, dice Diyabanza. Oggi è sotto processo a Parigi ma è fiducioso che le accuse cadranno, perché non si tratta di furto ma di protesta politica, che lui definisce “diplomazia attiva”. “Il Presidente ha evidenziato la difficoltà di giudicare un tale atto, poiché richiederebbe un processo contro la colonizzazione”, aggiunge.
Come ha sottolineato il professore di archeologia contemporanea all’Università di Oxford e curatore del Pitt Rivers Museum Dan Hicks, la protesta visiva di Diyabanza implica un ribaltamento dei ruoli: per la prima volta un bene culturale viene sequestrato in Europa per conto delle popolazioni africane. E le quattro azioni non resteranno le uniche, perché l’attivista prevede di visitare presto altri musei. Da poco ha inoltre creato il Fronte multiculturale contro il saccheggio, che ha l’obiettivo di riunire non solo gli africani ma anche gli indigeni delle Americhe, gli Amerindi e le vittime indiane del saccheggio britannico.
Anche la Germania avanza lentamente verso le restituzioni, per ora affrontate soprattutto caso per caso. La Namibia ha riaccolto la croce di pietra della riserva naturale di Cape Cross oltre alla Bibbia e alla frusta dell’eroe nazionale Hendrik Witbooi, mentre resti umani di cinquantatré nativi sono tornati in Australia. Recentemente si sono aggiunti alla lista alcuni teschi hawaiani. Su altri esemplari di più alto valore, come il busto di Nefertiti che l’Egitto sostiene sia stato illegalmente portato via dall’archeologo Ludwig Borchardt nel 1912, non ci sono invece aperture.
Nel 2019, il Governo federale ha approvato con i Länder alcuni punti chiave per il rimpatrio delle opere sulla base della provenienza: “Vogliamo la restituzione di oggetti di origine coloniale, la cui appropriazione oggi non è più legalmente o eticamente giustificabile”, ha dichiarato l’allora Sottosegretaria alla Cultura Monika Grütters. Uno storico di Amburgo, Jürgen Zimmerer, ha criticato la misura sostenendo che spetti alle potenze coloniali il compito di dimostrare la legittima acquisizione dei beni, altrimenti da ritenere saccheggiati. L’iniziativa più significativa dall’approvazione delle linee guida riguarda ancora una volta i bronzi del Benin, per cui si prevedono le prime restituzioni nel 2022.
Nella riflessione della Germania sul proprio passato coloniale, che comprende le scuse ufficiali per il genocidio in Namibia, si è inserito prepotentemente l’Humboldt Forum, il museo inaugurato a dicembre 2020. Situato nel restaurato castello di Berlino, la sua collezione si fonda su oggetti provenienti da ogni parte del mondo, molti razziati o rubati. Il suo primo direttore, Neil MacGregor, ha gestito il British Museum dal 2002 al 2015 ed è un sostenitore della visione del museo universale ed enciclopedico. Pochi mesi fa è scoppiato l’ultimo caso, che riguarda la Luf-Boot, una barca di sedici metri trasportata in Germania dalle colonie della Papua-Nuova Guinea. Lo storico Götz Aly ha dimostrato in un libro che i soldati se ne appropriarono dopo due giorni di bombardamento e la Fondazione a capo dell’Humboldt Forum ha dovuto ammettere che non c’è traccia di alcuna compravendita. Nel 2017, l’autrice del rapporto francese Bénédicte Savoy si dimise dal Comitato consultivo del museo in segno di protesta, segnalando la mancanza di trasparenza sulla provenienza dei reperti.
I COMITATI DI ESPERTI
Le sale dell’Africa Museum di Tervuren, un comune fiammingo a diciotto chilometri da Bruxelles, sono state per molto tempo la massima esaltazione della colonizzazione belga del Congo sotto il re Leopoldo II. Il suo monogramma appare 45 volte lungo tutta la struttura, un edificio storico che aveva l’obiettivo di glorificare le gesta sanguinarie dei soldati anche dopo l’indipendenza dello Stato africano nel 1960. Poi, nel 2001 Guido Gryseels si è insediato come nuovo direttore: “Invece di un museo sull’Africa coloniale, volevamo diventare un museo sull’Africa contemporanea, con una visione critica sul passato e, al contempo, uno spazio dove la voce africana fosse centrale”, racconta.
Essendo un monumento storico, il museo non poteva essere sottoposto a interventi radicali, per esempio eliminando i simboli del re. Gryseels si è quindi dedicato a un’opera di reinterpretazione del patrimonio artistico con alcune mostre temporanee. Iniziò da un’analisi sull’origine della collezione, cercando di capire se le opere fossero giunte in Belgio perché acquistate o depredate con brutalità. Si soffermò poi sulla diaspora africana e sull’indipendenza del Congo vista dalla prospettiva dei congolesi, mettendo in secondo piano quella degli invasori. Nel 2013, la struttura era finalmente pronta per chiudere i battenti per alcune modifiche e aggiunte strutturali che avrebbero cambiato la sua concezione originaria.
Cinque anni dopo, il museo ha riaperto al pubblico con un ampliamento dello spazio e alcune novità nella collezione: “L’unico modo per affrontare il retaggio coloniale era attraverso l’arte contemporanea. Abbiamo chiesto a quindici artisti africani di realizzare un’opera che entrasse in contrasto con il messaggio coloniale dei vari spazi del museo”, racconta Gryseels. Così, tra i vari interventi, i visitatori possono vedere, quando splende il sole, i nomi dei 1.500 soldati colonizzatori che adornano una delle gallerie oscurati da quelli delle loro vittime in Congo.
L’Africa Museum giocherà probabilmente un ruolo fondamentale nella strategia del governo sulla restituzione del patrimonio artistico all’ex colonia, come annunciato dal Segretario di Stato per la Politica Scientifica Thomas Dermine: “Tutto ciò che è stato acquisito con la forza e la violenza in condizioni illegittime deve essere restituito. Non appartengono a noi, ma al popolo congolese”, ha dichiarato in una nota.
Il Belgio sta seriamente affrontando il suo passato, come testimoniato anche dalla lettera di scuse del re Filippo al presidente della Repubblica Democratica del Congo Félix Tshisekedi, dove si dice “profondamente dispiaciuto per le ferite” inflitte dal suo popolo. Adesso, il governo ha iniziato un processo che a lungo termine riporterà le opere a casa, nonostante Tshisekedi non abbia fatto ancora richiesta formale. A Kinshasa esiste un museo nazionale che però può ospitare fino a 12mila pezzi, molti meno di quanti già ne possieda. Il museo di Gryseels aiuterà nei prossimi cinque anni a formare nuovo personale, a creare siti di stoccaggio e a rinnovare gli istituti artistici locali.
Una commissione mista belga-congolese si è già messa all’opera per decidere come gestire le restituzioni. Il primo importante passo in avanti è arrivato a febbraio, quando l’ex potenza coloniale ha consegnato al Congo un inventario di 84mila oggetti custoditi nell’Africa Museum. Ma ciò che rende questa strategia più avanzata rispetto alle altre è la separazione tra i concetti di proprietà legale e ritorno materiale. Il Congo diventerà il proprietario legale delle opere acquisite illegalmente e potrà decidere se riportarle nel Paese oppure no, soprattutto se non dovesse avere spazio a sufficienza. Nel secondo caso, il Belgio pagherebbe una quota per mantenere l’oggetto nel suo territorio. “In Congo non parlano di restituzione, ma di ricostituzione. Hanno ancora molto del loro patrimonio culturale, ma non tutto”, dice Gryseels.
La stessa distinzione viene affrontata anche da ReTours, un progetto francese che cerca di spostare l’attenzione dal punto di vista occidentale a quello africano e pone al centro il ruolo della diaspora: “La restituzione non necessariamente implica il ritorno. Per esempio, la Francia nel 2002 doveva restituire le sculture Nok alla Nigeria perché frutto di scavi illegali. I due Paesi hanno poi firmato un accordo per lasciare le opere al Museo du Quai Branly per un periodo di 25 anni. Questa è restituzione senza ritorno”, spiega la professoressa dell’università di Nanterre e coordinatrice di ReTours Saskia Cousin.
Due mesi dopo l’atto di protesta di Mwazulu Diyabanza nel Museo Afrika di Berg en Dal, in Olanda, il Consiglio della Cultura ha consegnato un rapporto che invitava il ministero competente a restituire le opere sottratte alle ex colonie. Nel testo si legge che bisogna evitare “una ripetizione neocoloniale del passato in cui le proprie opinioni, sentimenti, norme e valori sono i principi rettori dell’azione” e si raccomanda di affidarsi a un comitato indipendente per studiare l’origine di ogni oggetto e creare un database. La risposta degli istituti museali è stata positiva: il Museo Nazionale delle Culture del Mondo, che comprende anche il Rijksmuseum, è stato uno dei primi a pubblicare le linee guida per il rimpatrio nel documento Return of Cultural Objects: Principles and Process.
Questi stessi enti sono parte di Pressing Matter, un progetto gestito dalla Vrije Universiteit che coinvolge dottorandi interni e ricercatori esterni provenienti da Africa, Asia e Americhe. La professoressa Susan Legêne è una delle coordinatrici: “Ci sono state restituzioni fin dall’indipendenza dell’Indonesia nel 1945, ma solo su una base caso per caso. Quindi noi abbiamo iniziato a discuterne in modo più generale”, spiega. Nell’arco di quattro anni, gli oggetti verranno catalogati in diverse sezioni, come saccheggi avvenuti durante campagne militari, resti umani o visite missionarie.
Ma soprattutto, Pressing Matter peserà l’importanza dell’opera per tutte le parti: “Può avere un significato per l’Olanda, può averlo per il Paese da cui proviene, può avere peso in molti modi e molti contesti. Non esiste solo il valore economico, c’è anche un valore rituale. Quindi, la restituzione non è l’unica soluzione”, afferma Legêne. La professoressa della Vrije Universiteit sottolinea che il risultato degli studi sarà principalmente accademico, ma potrà aiutare il governo a capire quali misure adottare.
UN CASO A SÉ: IL BRITISH MUSEUM
A novembre del 2018, il governatore dell’Isola di Pasqua, Tarita Alarcón Rapu, ha incontrato i dirigenti del British Museum per chiedere la restituzione dell’Hoa Hakananai, un monolite moai di quattro tonnellate portato illegalmente alla Regina Vittoria nel 1868 dalla fregata HMS Topaze. “Noi siamo solo un corpo. Voi, i britannici, avete la nostra anima”, ha detto quasi in lacrime. Il museo ha accettato di parlarne per la prima volta, prima di dichiararsi aperto a un prestito, escludendo la possibilità di un rimpatrio.
Non è la prima volta che un Paese o una comunità reclamano un oggetto al British Museum. Il caso sicuramente più noto riguarda i marmi del Partenone, portati in Inghilterra agli inizi dell’Ottocento da Lord Elgin, l’ambasciatore britannico nell’Impero Ottomano che aveva sfruttato un controverso permesso del sultano per appropriarsi di buona parte del fregio e diverse statue del frontone. I reperti sono stati accolti in una sala dedicata dopo la vendita al governo e sottoposti a un trattamento sbiancante molto dannoso, mentre la Grecia richiedeva periodicamente il suo patrimonio.
Di fronte a una delle scuse più ricorrenti del British, cioè la preoccupazione che i marmi non vengano adeguatamente custoditi, la Grecia ha costruito nel 2009 un grande museo a 300 metri dall’Acropoli, dove una sala è rimasta vuota in attesa dei pezzi mancanti. Anche Benin, Iraq, Cile, Egitto, Turchia, Cina chiedono a gran voce la restituzione del loro patrimonio e per questo motivo il museo è finito spesso sotto attacco.
Alla morte di George Floyd, l’account Twitter del British ha espresso la sua vicinanza al Black Lives Matter finendo per scatenare la reazione degli utenti, che lo accusano di ipocrisia. Gli Uncomfortable Art Tours della storica dell’arte Alice Procter hanno evidenziato il passato colonialista dei reperti di molti istituti britannici e hanno spinto il British a rispondere con una serie di conferenze, le Collected Histories Talks, che hanno cercato di dimostrare che non tutti gli oggetti accolti nelle sale sono stati trafugati. Procter ha risposto che bisognerebbe prendere in considerazione non solo quell’aspetto ma anche il contesto di disuguaglianza in cui le opere sono state acquistate.
L’ITALIA FUORI DAL DIBATTITO
In Italia il dibattito sulla decolonizzazione artistica è piuttosto arretrato, nonostante ci siano state alcune importanti restituzioni: nel 1984 l’Albania ha riaccolto la dea di Butrinto sottratta nel 1928 e nel 1999 è tornata in Libia la Venere di Leptis Magna donata da Hermann Göring a Italo Balbo. L’operazione più complicata risale al 2008, quando la stele di Axum è stata ricollocata in Etiopia nel punto in cui la trovò la spedizione archeologica italiana del 1935.
Trasportata a Roma nel 1937, venne posizionata di fronte al Ministero delle Colonie, oggi sede della FAO, prima di entrare dieci anni dopo negli obblighi assunti dall’Italia con il trattato di pace e in seguito nell’Accordo bilaterale tra Roma e Addis Abeba del 1956. Tuttavia, l’imperatore Hailé Selassié lasciò che l’obelisco restasse in Italia fino alla richiesta del governo etiope nel 1991. Nel 2004, un nuovo Memorandum con il Paese africano iniziò i lavori di trasporto dell’obelisco, terminati nel 2008.
Nello stesso anno, un altro episodio aiuta a capire la difficoltà dell’Italia nel relazionarsi con il suo passato coloniale: la restituzione della Venere di Cirene alla Libia. Ritrovata nel 1913, servì successivamente da simbolo per la retorica imperialista del fascismo: “Il suo ritrovamento venne inteso, innanzitutto, come un segno del fato. […] Da lì, si proseguì poi con un’autonoma interpretazione razziale: nel delicato marmo bianco, le forme eleganti e sinuose furono ritenute tipiche della razza mediterranea e appartenevano, quindi, all’Italia”, si legge nel libro Le memorie del futuro. Musei e ricerca, scritto da Evelina Christillin e Christian Greco, rispettivamente presidente e direttore del Museo Egizio di Torino. Una volta emanato il decreto per la restituzione nel 2002, l’associazione Italia Nostra fece ricorso al TAR appellandosi a questioni patriottiche e d’identità. L’iniziativa non passò, ma quando si diffuse la notizia della presunta sparizione della Venere nel 2015, le polemiche sul tema si riaccesero.
Come sottolinea anche la professoressa Beatrice Nicolini, l’Italia è sempre stata più attiva sulle richieste di restituzione del proprio patrimonio artistico. “Saremmo noi a dover chiedere un’eventuale restituzione. Abbiamo talmente tanta ricchezza artistica, monumentale e museale che non abbiamo abbastanza spazio per mostrarla. Siamo veramente oggetto di sottrazione da sempre”, sostiene. In effetti, il nostro Paese è riuscito a riottenere indietro alcuni artefatti, come la Venere di Morgantina, una statua di Zeus di oltre due metri restituita dal Getty Museum, o gli otto pezzi delle statue di Demetra e Kore ceduti dal Bayly Art Museum. Adesso la procura di Torre Annunziata sta chiedendo il ritorno del Doriforo di Stabiae al museo di Minneapolis, dove la statua è arrivata negli Anni Settanta grazie a un trafficante di opere d’arte.
Ma la vicenda più importante riguarda la restituzione della phiále d’oro alla Sicilia, un precedente per la lotta al commercio illegale dell’arte. L’opera era stata acquistata da un privato a Catania, rivenduta a un collezionista di Enna, ceduta al titolare di una società di Zurigo e infine acquistata dal miliardario Michael Steinhardt, uno dei principali benefattori del Metropolitan Museum. Nel 1999, la Corte d’appello di New York emise la sentenza che riportò in Italia il manufatto.
LE ALTRE RICHIESTE
In misura minore, altri ex imperi coloniali hanno un contenzioso aperto con le loro ex colonie. È il caso della Spagna, che ha ricevuto dalla Colombia un sollecito per il ritorno in patria del tesoro Quimbaya, un gruppo di oggetti precolombiani. Fu un regalo del presidente Carlos Holguín alla regina María Cristina nel 1893, ma si sostiene che sia avvenuto senza il consenso del Parlamento di Bogotá. Anche l’Angola reclama alcuni oggetti al Portogallo, mentre il traffico d’arte ha portato in Austria il pennacchio di Montezuma, richiesto dal Messico.
La Turchia è stato il Paese più attivo e aggressivo nella campagna di richieste di restituzione. Il governo ha annunciato nel 2012 la costruzione del gigantesco Museo delle Civiltà, una struttura di 25mila metri quadrati da inaugurare nel 2023, anno del 100esimo anniversario della Repubblica. Per riempirlo, Erdogan ha lanciato una sorta di guerra dell’arte che ha portato a pochi risultati. Durante una visita negli Stati Uniti il presidente turco è tornato in patria con l’Ercole Stanco, dopo una strategia di pressione contro il Boston Museum of Fine Arts. Le altre richieste, tra cui una sfinge di pietra del Pergamon Museum di Berlino o una statua d’oro del Met, non sono andate a buon fine. Il Louvre si è rifiutato di rinunciare a una collezione di piastrelle del mausoleo di Selim II e in risposta la Turchia ha impedito l’accesso nei suoi siti agli archeologi francesi.
Nei prossimi anni si capirà quale sarà il sistema più efficace, quello caso per caso di Francia o Germania, o quello basato sulle commissioni di esperti di Belgio e Olanda. E soprattutto, quale sarà il ruolo delle ex colonie in questo processo: “Il dibattito così com’è al momento sembra senza dubbio una tattica dilatoria da parte degli occidentali, che vogliono convincersi della validità della restituzione”, dice Mwazulu Diyabanza, che aggiunge: “Il discorso non è di per sé negativo, ma prima le nazioni europee e occidentali devono accettare l’idea della restituzione incondizionata e immediata. Solo allora il dibattito diventerà interessante per trovare soluzioni pratiche e materiali per il rimpatrio”.
‒ Alessandro Leone
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #65-66
Abbonati ad Artribune Magazine
Acquista la tua inserzione sul prossimo Artribune
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati