Manca poco alla chiusura di documenta 2022. Malgrado o grazie alle polemiche, è una mostra che va vista. Voi prenotate il viaggio a Kassel, noi vi regaliamo un glossario per arrivare preparati.
‒ Marco Enrico Giacomelli
A – ARTE
Se c’è un merito che nessuno potrà togliere a questa 15esima documenta, consiste nell’aver fatto porre per l’ennesima volta la questione – annosa e noiosa – “che cos’è l’arte?“. Se la sono indirettamente posta, e si sono risposti di no, anche coloro i quali hanno scritto che non espone arte ma altro, o quantomeno arte brutta (la lista è lunga: da Luca Beatrice a Tiziano Scarpa). Cascano un poco le braccia a dover ripetere che l’arte è un sistema autonomo e arbitrario: come la scrittura o il sistema metrico decimale. L’arte è un sistema sovrano oltre che autonomo, vale a dire che ridefinisce se stesso quando, come e quante volte vuole. Che Tizio o Caio, in maniera estemporanea, decidano che questa è arte e quella non è arte, ha la rilevanza che merita: nessuna. Questo significa che il sistema dell’arte è impermeabile alle critiche? Ovviamente no: è un campo di forze in continua evoluzione, e proprio per questo si fa scivolare addosso le varianti più o meno articolate del refrain “potevo farlo anch’io” (esempio di variante apparentemente intelligente: “poteva farlo un sociologo, un attivista, un…”). Che a documenta ci sia poca (relativamente poca, in realtà) arte tradizionalmente e romanticamente intesa è vero; d’altro canto, il movimento pendolare – di qua, di là – che attraversa le storie dell’arte, come ci hanno insegnato Gillo Dorfles e Renato Barilli, beccheggia da sempre tra figurativo e astratto, contenuto e forma, impegno e diletto. I segnali, esterni e interni al mondo dell’arte, sono ben visibili da tempo, e la documenta attualmente in corso ne è meramente un sintomo più chiaro. Così è, se vi pare.
B – BDSM
I pubblici non si mescolano, anche se da decenni insistiamo a dire che i confini sono porosi e che la inter- e multi-disciplinarietà è ormai la regola. Quante star presenti a Venezia per la Mostra del Cinema hanno visitato la Biennale Arti Visive? E invece capita che a Kassel, complice quel collettivo tailandese chiamato ruangrupa, ci si ritrovi tutti insieme nel biergarten della WH22, in un interno cortile dove a sinistra c’è Humus Humanitas, associazione caritatevole magari affiliata alla Chiesa Evangelica qui parecchio influente, mentre a destra c’è un club di quelli dove si usano gabbie e frustini. E ai tavoli del biergarten gli unici a disagio sembrano i visitatori di documenta, non i volontari seduti al medesimo tavolone degli amanti del sadomaso. Bisognerà rifletterci.
C – CLASSE
La documenta affronta, come noto, molti temi “caldi” della nostra attualità: dalle questioni di genere alla blackness, dal disastro climatico al dramma dei migranti. Nulla di così nuovo, si dirà. Qui però non è soltanto una questione di quantità – ovvero: sostanzialmente tutti i collettivi e i singoli invitati da ruangrupa ne affrontano almeno uno, e così fanno i collettivi e i singoli a loro volta invitati da chi ha ricevuto l’invito dei curatori, perché è così che funziona. In sintesi: qualsiasi “intersezionalità”, portata alle sue conseguenze non necessariamente estreme, condurrà a una base economico-sociale. La lezione marxiana è tutt’altro che obsoleta, anzi è più che viva che mai, e a questa documenta ci sono dimostrazione a iosa di tale fatto. Per farla ancora più semplice: appartenere a una o più minoranze non accomuna in maniera paritetica due individui che vivono condizioni economico-sociali differenti. Basti pensare a quel che è accaduto recentemente con il violento fermo di polizia ai danni di un calciatore del Milan: sarebbe finita nello stesso modo se si fosse trattato di un “qualsiasi” ragazzo afrodiscendente?
D – DOCUMENTA(RIO)
Nel 2005, la Biennale di Istanbul curata da Charles Esche e Vasif Kortun fu accusata di essere eccessivamente documentaria. Troppi video; o, meglio: troppi video “poco artistici”. Il dubbio, anche di chi qui scrive, è che somigliasse più a una rassegna di cinema documentario che a una biennale di arti visive. Era un errore. I codici del cinema documentario semplicemente erano in corso di digestione e rifunzionalizzazione da parte di una serie di artisti. E in questo modo diventavano arte, esattamente come era successo con i soggetti popolari di Caravaggio, le tache degli impressionisti, la fotografia, gli orinatoi rovesciati… Così avviene a Kassel quest’anno, con pratiche di artivismo la cui artisticità, se così vogliamo esprimerci, risiede innanzitutto nel processo di elaborazione e coproduzione. Fra l’altro, non è esattamente una novità: il libro di Nicolas Bourriaud sull’arte relazionale, per fare un unico esempio, è del 1998 (mentre sulle medesime basi è fondato il progetto curatoriale di Ute Meta Bauer, Amar Kanwar e David Teh per la Biennale di Istanbul che apre proprio in questi giorni). In fondo, la questione è semplice: esistono innumerevoli maniere di fare arte, di esporla, di curarla. Ne nascono continuamente di nuove e soprattutto non innescano (quasi) mai meccanismi esclusivi. Non c’è la documenta giusta e quella sbagliata; certo, si può – anzi si deve – esercitare il diritto di critica, che tuttavia ha senso soltanto se opera in quel particolarissimo campo trascendentale costituito dal potere autonomo e sovrano dell’arte stessa nella propria attitudine a ridefinirsi senza sosta. Se vi piacciono le liste suddivise in buoni e cattivi, siete nel posto sbagliato.
E – ECOLOGIA
Il tema è più che mai all’ordine del giorno. Se ne parla moltissimo anche in Italia e la disciplina è evoluta parecchio dai tempi della sua nascita. Quel che va compreso è che non si tratta di una questione “alla moda” e che qui i “gretini” sono soltanto coloro i quali non hanno ancora capito che ne va dell’esistenza stessa del pianeta, e quindi anche della loro. Di ecologia parla con insistenza anche la documenta e, fra le voci più interessanti, c’è quella di Cao Minghao e Chen Jianjun e del loro progetto a lungo termine Water System Project, iniziato nel 2015 nella provincia cinese del Sichuan.
F – FEMMINISMO
Un ottimo esempio di artivismo che si dispiega attraverso il mezzo dell’archivio è quello rappresentato dagli Archives des luttes des femmes en Algérie, fondato nel 2019 – l’anno dell’Hirak – da Awel Haouati, a cui si sono presto unite Saadia Gacem e Lydia Saïdi. L’obiettivo è “fornire un accesso libero e digitale ai documenti relativi ai collettivi e alle associazioni femministe algerine“, con particolare riguardo al periodo successivo all’indipendenza del Paese, conquistata nel 1962. Da segnalare anche il meccanismo collaborativo messo in atto da Jumana Emil Abboud, che ha coinvolto Issa Freij, Anna Sherbany, Yasmine Haj, Mounya El Bakay, Lydia Antoniou e Sourabh Phadke in una “storytelling performance” che prende avvio dalla pericolosa situazione in cui versano sette fonti d’acqua nei pressi di Ramallah.
G – GENERE
Le questioni di genere non si esauriscono naturalmente nell’ambito del femminismo – né in generale né alla documenta. Anche in questo caso, dovendo scegliere un esempio particolarmente efficace, optiamo per il “non-gruppo” argentino Serigrafistas queer, nato nel 2007. Inizialmente la sua attività era focalizzata sulla realizzazione di stampe per l’LGBTTTIQ+ Pride e le proteste femministe di piazza. Dal 2013 è stato aperto l’Archivo Serigrafistas Queer a Buenos Aires, contraddistinto da una politica de-autorializzata. Nel 2017, infine, sono iniziati i workshop, “rimuovendo la serigrafia dal suo status di tecnica o dalla stampa come obiettivo finale, concentrandosi invece su tutto quel che avviene durante il processo: collaborazioni, condivisione, svolgimento di compiti specifici, idee che generano nuovi progetti“. Per documenta, il collettivo ha portato alla Sandershaus l’esperienza del Rancho Cuis, progetto che è insieme abitativo, socio-economico ed editoriale.
H – HOLOBIONT
L’ecologia contemporanea passa attraverso la ridefinizione dei concetti stessi di individualità e relazione. Per comprenderne le basi scientifiche, viene in soccorso un termine che alla documenta spunta fuori con una certa regolarità e che si traduce in italiano con olobionte. Se guardiamo all’etimologia, si tratta di una pluralità di vite la cui configurazione supera la somma delle sue parti. Dal punto di vista biologico, dove il termine è stato coniato all’inizio degli Anni Novanta da Lynn Margulis, la questione è assai stimolante, oltre che dibattuta: dato il fatto che il corpo di un essere umano è abitato da un numero astronomico di microrganismi, il cui nome complessivo è microbiota; che l’informazione genetica totale contenuta nel microbiota prende il nome di microbioma; che quest’ultima informazione genetica supera di cento volte l’informazione contenuta nel genoma umano; allora sarebbe forse più corretto considerare il “nostro” corpo come un ecosistema. Le conseguenze sulla teoria della selezione naturale e dell’evoluzione sono importanti, anzi rivoluzionarie. E naturalmente anche tutte le estensioni che potremmo definire metaforiche o, meglio, sineddochiche.
I – ISRAELE
La documenta solleva (quasi) sempre polemiche. Durante l’ultima edizione era una questione economica; questa volta, manco a dirlo, è politica. Con Hito Steyerl che ritira il proprio lavoro dall’Ottoneum e uno scambio di accuse di antisemitismo e islamofobia. Ora, a costo di dire l’ovvio, occorre innanzitutto distinguere l’antisemitismo dall’antisionismo, ed entrambe dalla critica all’operato di tale o tal altro governo israeliano. Basta leggere Haaretz di tanto in tanto per capire quanto sia aspro il dibattito politico interno. Tornando a Kassel: una delle opere che ha sollevato clamore è quella del collettivo Subversive Film, consistente in un documentario a sua volta collettivo, realizzato da filmmakers di varie nazionalità dagli Anni Sessanta ai primi Ottanta e conservato fino a pochi anni fa da un’associazione giapponese. Documentario che racconta in maniera molto cruda e diretta la sofferenza del popolo palestinese e la resistenza all’occupazione. Cosa ci sia di “sbagliato” non è dato saperlo.
L – LUMBUNG
Se n’è parlato talmente tanto che il modo migliore è riportarne la definizione fornita dai curatori: “In indonesiano significa ‘granaio del riso’. Nelle comunità rurali indonesiane, il raccolto in eccesso viene immagazzinato in granai di riso comunali e distribuito a beneficio della comunità secondo criteri definiti congiuntamente. Questo principio è alla base della pratica di vita e di lavoro di ruangrupa ed è utilizzato per un lavoro interdisciplinare e collaborativo su progetti artistici“. Si dirà: è un concetto tutt’altro che nuovo. Non ci risulta tuttavia che ruangrupa lo abbia mai sostenuto. Lo dimostra Lumbung Stories, che da un lato è un meta-lumbung, per come è stato realizzato il libro; dall’altro racconta come il concetto sia, con nomi differenti, presente in numerose comunità.
M – MUSICA
Alla documenta di quest’anno c’è tantissima musica, sia con esecuzioni dal vivo che diffusa in opere video e sonore. C’è tantissimo audio, sarebbe meglio dire. Ci sono – fra le altre – le voci dei visitatori nel sottopassaggio tra la Fünffenstrasse e la Frankfurter Strasse (Black Quantum Futurism); nella Rondell c’è il suono del vento che proviene dal Vietnam, dove il fil rouge sono tuttavia campi di detenzione e camere di tortura (Nguyễn Trinh Thi); suoni umani e naturali invadono anche gli spazi della sala da ballo dell’Hotel Hessenland, disegnato da Paul Bode – il fratello del fondatore della documenta, Arnold – e trasformato in guesthouse per gli artisti durante questa edizione (MADEYOULOOK); c’è il coro delle donne dell’isola coreana di Jeju (ikkibawiKrrr). C’è addirittura il black metal antirazzista (Safdar Ahmed con Kazem Kazemi).
N – NEGAZIONE
Ai movimenti di protesta si imputa spesso un’attitudine che farebbe prevalere la pars destruens su quella construens. A parte la discutibile tenuta storica di questa tesi, alla documenta si assiste invece a una serie di pratiche che propongono di costruire insieme, di coprogettare alternative, e di iniziare a farlo adesso, sin dalla “mostra” stessa. Ovviamente la denuncia è ben presente, ma bene equilibrata con questo secondo versante. Chiaro che limitarsi a guardare non permette di attivare il meccanismo stesso su cui si basa la proposta artivistica. Ma almeno il concetto di spett-attore dovremmo ormai averlo metabolizzato, nevvero?
O – OOK_
La Neue Brüderkirche è l’epitome di questa documenta. Quasi uno stress test. Qui ha sede l’ook_visitorZentrum, dove un collettivo di collettivi offre workshop per i collettivi invitati da ruangrupa e per i visitatori. Anche limitandosi a una visita passiva, si può apprezzare quanto questa edizione sia concepita per evolvere nel tempo. Guardare per credere le foto della sede nei primi e negli ultimi giorni di apertura. L’ook_ è uno spazio – anzi, come lo definisce il suo fondatore, reinaart vanhoe, un “also space” – di Rotterdam che ha nel suo programma quattro punti: first visitors, inhabited space, being alternative, common ground. Quest’ultimo punto, come gli altri, è suddiviso in una serie di brevissimi statement; l’ultimo recita: “artist among others”. Per saperne di più, l’ook_ ha prodotto un magazine in occasione della documenta, mentre sul sito books.lumbung.space si possono scaricare moltissimi materiali.
P – PERSONALI
Va da sé che, in una rassegna così concepita, il concetto di “mostra personale” o “solo show” c’entra poco o niente. Ma poiché s’è scritto che “le opere non ci sono”, riportiamo qualche esempio a prova contraria, pur ribadendo che anche quelle nate dall’interazione e dalla documentazione sono “opere”, così come quei prodotti umani che in Occidente siamo stati abituati a non classificare come tali ma che, adottando una visione meno esotica e più plurale, ci permette non tanto di includerli – con un gesto neocoloniale – nella categoria “arte”, bensì di ampliarne il campo semantico. Ecco dunque qualche spunto: la mostra di Amol K Patil (visto in musei come il Pompidou di Parigi e lo Stedelijk di Amsterdam) nel basement della Hübner Areal; la retrospettiva del gruppo indonesiano Taring Padi allo Hallenbad Ost; il solo show dello Nhà Sàn Collective, di base a Hanoi, al terzo piano dello Stadtmuseum.
Q – QUIET SPACE
L’attivismo è logorante per il fisico e per la mente. E poi, quanto sia machista il “primato della prassi” esclusivamente esogena ce lo dovrebbe aver insegnato il femminismo sin dagli Anni Settanta del secolo scorso. Dunque, se non vogliamo proprio iniziare da noi stessi, almeno passiamoci di tanto in tanto, per comprendere come e perché siamo parte del problema, e soprattutto di quell’olobionte estremamente complesso che è il pianeta Terra. Anche a questo servono i quiet space disseminati in molte sedi della documenta. Ottima idea.
R – RUANGRUPA
La storia è sempre la stessa. Va bene essere “tolleranti” e “accettare” altri punti di vista, ma relegati in una posizione di non eccessivo potere. Se invece succede che a un collettivo indonesiano viene affidata la curatela di una delle più importanti rassegne d’arte al mondo, allora si inizia a storcere il naso. E dire che il gruppo basato a Giacarta di partecipazioni internazionali ne ha già parecchie: due Biennali di Gwangju (2002, 2018), la Biennale di Istanbul (2005), la Biennale di Singapore (2011), l’Asia Pacific Triennial di Brisbane (2012), la Biennale di San Paolo (2014), l’Aichi Triennial a Nagoya (2016), e anche Cosmopolis al Centre Pompidou (2017). Non sarà mica che il dibattito italiano è un poco provinciale?
S – SEDI
Nell’esperienza personale di chi scrive ci sono due esperienze limite nell’ambito della visita delle biennali, e curiosamente erano entrambe co-curate da Massimiliano Gioni: la Manifesta 5 a Donostia-San Sebastian (con Marta Kuzma, nel 2004) e la Biennale di Berlino del 2006 (con Maurizio Cattelan e Ali Subotnik). La seconda si svolgeva tutta, proprio tutta, in una serie di venues lungo la corta – perdonate il bisticcio – Auguststrasse; la prima era sostanzialmente una caccia al tesoro. Fra l’altro, a quest’ultima dovremmo essere abituati, visto che ogni due anni vaghiamo alla ricerca di inauditi palazzi in una città piena di canali e senza numeri civici utili all’orientamento. Insomma, la documenta di quest’anno ha trentadue sedi, che non sono poche; ma la città è davvero piccola, i mezzi per percorrerla sono i più disparati (piedi, bicicletta, monopattino, mezzi pubblici e via dicendo) e sono pochissime le opere installate in luoghi difficilmente reperibili. In due giornate intense, o tre più rilassate, si visita (anche se questo è evidentemente un approccio che mal si attaglia all’impostazione di questa documenta). Fra l’altro, l’organizzazione ha rapidamente fatto fronte alla difficoltà nell’individuare alcune opere, distribuendo gratuitamente un booklet che contiene addirittura le coordinate GPS.
T – TEMPI
L’organizzazione è stata perfetta? Niente affatto. Dobbiamo scordarci il mito del tedesco rigoroso e puntuale. C’è stata un’edizione di documenta in cui parecchie sedi, durante i giorni della preview, erano ancora chiuse per allestimento. Quest’anno invece cosa non ha funzionato? Beh, proprio i press days. Con una mostra così, non puoi ragionare in maniera tradizionale, altrimenti i colleghi vanno a vedere i props e poi scrivono che non c’era niente. Certo, qualcuno l’aveva capito, e infatti di stampa ce n’era meno del solito; e non perché non fosse interessata, bensì perché è andata – giustamente – dopo qualche settimana. A livello di comunicazione e marketing è indubbiamente una bella rogna, ma proporre la tempistica abituale è stato controproducente. (Chi scrive non è stato particolarmente intelligente e/o informato: averla vista alla fine di agosto è pura casualità.)
U – UNIVERSALISMO
Fa sorridere (amaramente) quando si sentono proclami universalisti sbandierati ai quattro venti e poi, appena esce la lista degli artisti di una qualsiasi rassegna internazionale, si spulcia avidamente per vedere quanti italiani sono stati invitati. Qui i discorsi da aprire sarebbero davvero tanti, e a qualcuno abbiamo già dedicato spazio nei lemmi precedenti. Per cui ci limitiamo a segnalare che no, non è vero che non c’è alcun italiano alla documenta: lo spazio all’interno della stazione ferroviaria regionale, il KAZimKuBa, è dedicato al compianto Jimmie Durham e al collettivo da lui fondato, A Stick in the Forest by the Side of the Road; e fra gli artisti che espongono c’è Elisa Strinna, con un video e una scultura.
V – VOLUMI
Di volumi, e di stampati in generale, è piena la documenta. Dentro The Black Archives al Fridericianum, ad esempio, c’è da perdersi. Ma estremamente interessante è anche l’operazione editoriale condotta da ruangrupa, che non propongono il solito catalogo muscolare, bensì: uno Handbook che è esattamente quel che dichiara di essere; il Majalah Lumbung, ovvero “A Magazine on Harvesting and Sharing”, dove sono raccolti saggi e interventi (brossura, copertina morbida, 224 pagine: nulla di esagerato); Walking, Finding, Sharing. A Graphic Companion to documenta fifteen, che, se proprio dobbiamo, possiamo indicare come una pubblicazione rivolta ai più piccoli; e infine le Lumbung Stories di cui si parlava alla voce ‘Lumbung’ e che speriamo vengano tradotte anche in italiano (nel momento in cui scriviamo, sono disponibili le versioni spagnola, portoghese, indonesiana, tedesca, araba, basca e inglese). Da segnalare anche la versione “easy-to-read” dell’Exhibition Booklet gratuito, testimonianza di un’attenzione reale per l’accessibilità.
Z – ZOE
La documenta esplora in maniera estesa il concetto di vita, della sua qualità e dignità. Lo fa con un’attitudine marcatamente politica quando si occupa di minoranze e discriminazioni d’ogni foggia – in ciò rivolgendosi soprattutto al bios umano. Non lesina d’altro canto le riflessioni ecosistemiche, affrontando i grandi temi – in primis quello climatico – che concernono la vita sulla e della terra. Quel che sembra mancare è uno sguardo intermedio che stia tra la critica all’eccezionalismo umano e la visione planetaria. Manca insomma la vita animale, ed è piuttosto dissonante con l’impostazione della mostra vedere l’affollamento di fronte ai camioncini che piastrano i pur ottimi Bratwürst nel quadro di un’iniziativa gastronomica orchestrata dalla stessa documenta. Sostenibilità à la carte, viene da pensare.
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