Collaborare per creare. Il festival della creatività in Arabia Saudita raccontato dal direttore
Il progetto, il design, l’innovazione e la condivisione della propria esperienza sono stati gli elementi decisivi del festival Tanween in Arabia Saudita. A raccontarci del nuovo panorama creativo saudita è Robert Firth, direttore di Ithra
Con la quinta edizione del festival Tanween, il King Abdulaziz Center for World Culture (Ithra), situato a Dhahran, sancisce il suo ruolo di produzione e centro di riferimento della creatività dell’Arabia Saudita. Collaborate to Create è stato il titolo-ombrello sotto al quale si sono riuniti sette workshop, cinque masterclass, 17 conferenze e talk, con relatori provenienti da tutto il mondo, per parlare di creatività a 360 gradi di fronte a un pubblico di studenti, artisti, designer, addetti ai lavori e non. A dimostrare la trasversalità su cui si fonda l’identità del festival e del museo stesso, è stata la presenza di ospiti provenienti da disparati ambiti, dal cofondatore della società di gaming Electronic Arts Dave Evans al professore di design di Stanford Bill Burnett, passando per il cofondatore di Reebok Joe Foster, l’astronauta Reeps One, l’urbanista green Huda Shaka e “l’architetto dell’aria” Alan Parkinson. Storie e testimonianze diversissime tra loro riunite sotto l’importanza della collettività come dimensione fondante della creatività e dell’innovazione. Ma qual è il rapporto tra l’Arabia Saudita e la creatività, soprattutto in questi ultimi anni di cambiamenti sociali e politici per il Paese? Lo abbiamo chiesto al direttore di Ithra Robert Frith.
Con che approccio avete scelto i relatori di quest’ultima edizione di Tanween?
È un processo che richiede sempre più tempo a ogni edizione. Il punto di partenza è tematico: da quando iniziamo, ci interroghiamo su quali ambiti esplorare e quali possano essere le storie più coinvolgenti da raccontare. Inoltre, bisogna considerare anche gli sconvolgimenti causati dall’arrivo della pandemia. I creativi non sono interessati a quale sarà il “new normal”, ma piuttosto a quale sarà il “new next”!
Come avete reso possibile questa narrazione negli ultimi anni?
L’edizione 2021 si è concentrata sugli strumenti: di quali strumenti hai bisogno per creare? Quest’anno, invece, il focus è stata la collaborazione. Quindi, di quale tipo di collaborazione necessita un creativo per fare qualcosa di impatto? Si tratta di un’azione che avrà a che fare con la natura, con la tecnologia, con la cultura o sarà trasversale a tutto questo? Questo ci ha reso possibile strutturare i panel.
Ci puoi fare un esempio?
Un momento molto interessante è stato quello con Carlos Mare, leggendario street artist che ha cominciato a fare graffiti negli anni ’70-’80. Ha raccontato del suo viaggio di creatività e collaborazioni nel mondo dell’hip hop, che tocca differenti culture e tecnologie che l’hanno messo in contatto con tanti artisti. Una bellissima storia che è stata seguita da una serata di beatboxing e nuove tecniche di registrazione che hanno a che fare con il campo del digitale.
Penso, inoltre, che il modo in cui un panel è costruito racconti tanto delle intenzionalità di un festival o di un museo. Prendiamo ad esempio la presenza di Joe Foster, fondatore di Reebok, uno dei brand simbolo dell’industria americana. Possiamo considerarlo come un segnale, da parte dell’Arabia Saudita, di guardare a questo modello di business, aprirsi alla cultura occidentale?
Sì, penso che la testimonianza di Foster rappresenti un’analogia importante per il Medio Oriente ma soprattutto per l’Arabia Saudita, che basa socialmente grande importanza sui rapporti famigliari. Lui ha spiegato come si fa a creare un business di rilevanza globale partendo da una azienda a conduzione famigliare, un’esperienza che può diventare modello per tanti.
Ancora una volta il concetto di collaborazione, ma in senso trasversale.
Esatto, è un’intenzionalità che si può riscontrare anche dall’impostazione logistica dell’evento. Tutti i relatori sono chiamati a parlare su un palco che è sullo stesso piano del pubblico, su un’arena circolare, nel pieno concetto di orizzontalità. È una delle cose che ci interessa maggiormente, che le persone si relazionino tra di loro, che pongano degli interrogativi, che riflettano assieme ai relatori e in una dimensione collettiva.
Come viene considerato da Ithra il concetto di creatività?
Pensiamo che non sia una questione di DNA, bensì qualcosa di cui le persone possano fare esperienza, sperimentare, approfondire e mettere in pratica. Crediamo che ognuno di noi sia diverso e possiamo aiutarlo a sviluppare la propria creatività e le proprie passioni fornendogli strumenti adeguati. È per questo che abbiamo una biblioteca, un teatro e un cinema, collezioni e spazi espositivi. Penso che sia una missione fondamentale del festival Tanween, quella di rompere questo grande mito del genio innato e entrare in un’ottica di collaborazione, e il titolo di questa ultima edizione lo conferma. La capacità di creare stando con gli altri è un potere, giusto?
I giovani creativi sauditi stanno entrando a grande velocità in uno scenario internazionale usando un linguaggio molto contemporaneo per la prima volta nella loro storia. Qual è, mi domando, il modello saudita?
Tempo fa hanno chiesto a Tim Marlow, direttore Design Museum in London, “cos’è il design inglese?”. E lui ha risposto che non esiste nessun design inglese. I designer inglesi creano cose e poi tutti dicono che è design inglese. Ma non ci si può chiedere quale sia la cosa più britannica che possano fare, come debba essere, se debba avere la bandiera sopra. Sicuramente i nostri creativi si stanno domandando cosa significhi essere un designer saudita. Prendere i simboli del paese, rielaborarli in chiave contemporanea? Penso che il punto di svolta sia quando un creativo creda in quello che fa e lo faccia diventare poi un linguaggio collettivo. Per essere saudita non devi avere alcun simbolo su te stesso. Ed è quello che Ithra intende fare, guidarli affinché possano sentirsi liberi di esprimere se stessi.
Sappiamo che Ithra è stato voluto e realizzato da Saudi Aramco, compagnia nazionale saudita di idrocarburi. Dopo aver investito nell’estrazione di petrolio e idrocarburi si punta sulla creatività e sulle idee degli artisti. Ci spieghi questo cambio di paradigma?
Saudi Aramco ha investito pesantemente sull’energia intesa come energia del carbon fossile, ma ora vuole investire nell’energia umana, e questo è diventato il claim che accompagna i nuovi progetti. È consapevole che il mondo sta cambiando e, come sempre, vuole essere in prima linea. Per questo, la scelta è stata quella di investire nelle persone che possano contribuire alla realizzazione di questa missione e prendere parte al cambiamento.
Giulia Ronchi
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati