Una Barbie con la Sindrome di Down. Quando il giocattolo è inclusivo
Nuova arrivata in casa Mattel, la Barbie che ha i tratti delle persone con un’alterazione del cromosoma 21 arricchisce un catalogo esteso, intitolato al rispetto delle differenze. Crescono i modelli di bambole non omologate e non idealizzate, per insegnare ai più piccoli il rispetto e l’accoglienza. Ma un giocattolo quali significati porta con sé? E quanto marketing c’è dietro?
Luca Trapanese, Assessore al Welfare di Napoli, è l’uomo che lo scorso settembre aveva indirizzato una lettera alla neo Premier Giorgia Meloni, invitandola a cena per discutere di adozioni lgbt, nella speranza magari di ammorbidirne le posizioni conservatrici. Luca è un giovane papà single, la piccola Alba è diventata sua figlia nel 2017: la condizione della bambina, affetta da Sindrome di Down, è considerata dallo Stato italiano talmente “speciale” – come tutte le disabilità – da estendere il diritto all’adozione anche a chi non rispetta i canoni previsti dalla legge, ovvero un matrimonio eterosessuale contratto da almeno tre anni.
Luca e Alba in questi giorni compaiono sui social con un paio di scatti, in compagnia di una Barbie. Sono i testimonial italiani – a titolo assolutamente gratuito – scelti per veicolare un’iniziativa particolare: “È un giorno speciale per Alba e per tutti i bimbi come lei. Ringrazio Mattel per questo regalo e per questa straordinaria intuizione”. Parole che invitano a sospendere il giudizio e a valutare da una prospettiva “altra” l’ultimo prodotto lanciato dallo storico marchio per giocattoli: una Barbie con la Sindrome del Cromosoma 21. Forse la prima bambola al mondo che replica le caratteristiche fisiche di chi nasce con questa anomalia genetica. Non una novità, per Mattel, che dell’inclusività e dell’impegno sociale negli ultimi anni ha fatto una bandiera, connotando il marchio in una chiave sempre più engagé, militante, progressista.
MATTEL E L’IMPEGNO SOCIALE
Multietnica, in carriera, femminista, sedotta dalla moda ma anche dalla cultura, dai temi ambientali, dallo studio, Barbie nel tempo ha cambiato pelle. Di successo la serie in edizione limitata “Shero”, che a proposito di empowerment femminile celebra importanti figure della modernità, da Frida Kahlo ad Amelia Earhart, prima donna a volare attraverso l’Oceano Atlantico, da Katherine Johnson, matematica e fisica della NASA, fino all’astronauta Samantha Cristoforetti, mentre la serie realizzata con il National Geographic interpretava donne alle prese con discipline scientifiche (racchiuse dalla sigla STEM) per incoraggiare la bambine a scegliere studi tradizionalmente identificati con i machi. Per non parlare della Barbie con la pelle scura, già sulla piazza negli anni ’70, e poi via così, sopprimendo i tanti cliché legati al mondo femminile e alla bambola stessa, amata da generazioni di ragazzine, ma accusata a più riprese di incarnare uno stereotipo tossico. Troppo bella, troppo perfetta, troppo alta, bionda e magra, troppo benestante, sempre circondata da beni di consumo, tra auto cabriolet, ville a Malibu, vasche idromassaggio e scintillanti abiti da sera. Effettivamente un’incarnazione dello standard di donna giovane, borghese, vincente e desiderabile. Come il mercato e la pubblicità hanno imposto, colonizzando ogni angolo del desiderio e dell’immaginazione collettivi.
Ecco allora spingere l’acceleratore, progressivamente, sul tasto dell’inclusività, del gender gap, dell’emancipazione, dell’autodeterminazione, dei diritti civili. Oggi, nell’immenso catalogo Mattel, si trovano esemplari di Barbie e Ken in sedia a rotelle, con protesi agli arti, con l’apparecchio acustico, con la vitiligine, o semplicemente con qualche chilo in più e con qualche centimetro in meno, con corpi e abiti assolutamente realistici e variegati.
Il tema è quello della diversità e della rappresentazione del mondo, nella consapevolezza che, per un bambino, la bambola, il cartoon, il personaggio di fantasia, diventano specchio di sé, tra tensione desiderante e costruzione identitaria: un meccanismo di identificazione che è parte del processo evolutivo e che può generare piacere, quanto frustrazione. Da qui la scelta di offrire anche modelli comuni, non idealizzati, figli di una realtà necessariamente molteplice, imperfetta, complessa. Modelli in cui tutte e tutti possano riconoscersi.
BARBIE CON SINDROME DI DOWN: LA CURA DEI DETTAGLI
Come di consueto, anche nel caso della sua nuova creatura Mattel è ricorsa alla collaborazione di esperti in materia: la National Down Syndrome Society americana ha aiutato i creativi a sviluppare il prodotto, definendo i tratti del viso, le linee del corpo, l’abbigliamento e gli accessori. Così, la collana rosa con un pendente a tre punte rappresenta le tre coppie del cromosoma 21, il giallo e il blu dell’abito sono i colori utilizzati per la comunicazione della Giornata mondiale della Sindrome di Down (21 marzo) e i tutori in dotazione sono stabilizzatori dell’equilibrio, a volte utili ai più piccoli. Una Barbie che non fa parte di una tiratura limitata per collezionisti, ma che rientra nella linea “Fashionistas”, destinata alla grande distribuzione, venduta a prezzi modici e prodotta in un’infinita varietà di stili, prototipi, caratteristiche.
Accolta con un plauso da molti, l’iniziativa non ha evitato diffidenze e perplessità. Quello di Mattel è puro marketing che schiaccia l’occhio, furbescamente, al politically correct imperante? Una moda passeggera? E c’è davvero bisogno di fare a pezzi il mondo incantato dei giochi, la favola della bellezza e della perfezione, nel nome del rispetto e dell’empatia, che dovrebbero riguardare piuttosto l’educazione, la scuola, l’esempio familiare? Il famoso “orgoglio” identitario non rischia infine di rimarcare l’idea di separazione, di anomalia, ovvero lo status singolare di ciò che dovrebbe invece essere considerato normale?
BARBIE INCLUSIVA: MARKETING O VALORE AGGIUNTO?
L’integrazione e la consapevolezza di sé, com’è evidente, passano da meccanismi complessi e si misurano, nel quotidiano, con difficoltà concrete. Mentre un’azienda deve fare business, essenzialmente. Esiste oggi, però, anche una postura etica alla base delle strategie di mercato e di comunicazione. Che le istanze di rinnovamento della società spingano le imprese a dotarsi di parametri nuovi, riconosciuti come “valore aggiunto” (attenzione per la cultura, l’ambiente, l’inclusività sociale, etc.) è indice di un profondo cambiamento in atto, generato da pressioni che arrivano dal basso. Una conquista, semmai. E un giocattolo non è forse uno straordinario oggetto culturale, antropologicamente inserito in un campo di relazioni e di significati che sono storici, mutevoli, stratificati, e che portano con sé sistemi di valori, simboli, segni in divenire? Giocattoli che infine, dal punto di vista psico-pedagogico, funzionano come dispositivi utili al bambino per trasformare la materia sensibile che il mondo gli consegna e per mediare i conflitti, nutrire l’immaginazione, avvicinare il reale e farlo proprio.
Ma se è vero che il giocattolo occidentale – come spiegava Roland Barthes in Pour une histoire de l’enfance – “costruisce il mito dell’Infanzia, non l’infanzia”, occorre interrogarsi ancora su quale sia il punto di vista che stiamo assumendo: “I giocattoli più diffusi”, prosegue Barthes, “sono essenzialmente un microcosmo adulto. Anch’essi testimoniano dell’impossibilità a immaginare l’altro: sono riproduzioni in formato ridotto di oggetti umani, come se agli occhi del pubblico il bambino non fosse in fondo che un uomo più piccolo, un homunculus a cui si debbano fornire oggetti sulla sua misura. (…) Il fatto che i giocattoli francesi prefigurino letteralmente l’universo delle funzioni adulte può solo, evidentemente, preparare il bambino ad accettarle tutte, costituendogli, prima ancora che possa ragionare, l’alibi di una natura che da sempre ha creato soldati, ‘vespe’ e impiegati postali. Il giocattolo fornisce così il catalogo di tutto ciò di cui l’adulto non si meraviglia: la guerra, la burocrazia, la sordidezza, i Marziani etc”.
Quale universo consegniamo dunque ai più piccoli e quanto davvero siamo in grado di porgere loro il senso e la bellezza dell’alterità, dello stupore, dell’imprevisto? Vale la pena rammentarlo: una bambola “inclusiva” è un antidoto adulto a un mondo sbagliato edificato dagli adulti. Un mondo da decostruire e reinventare, per ristabilire quella dis-misura delle cose che escluda il pregiudizio, lo scandalo, l’omologazione. Tutte sovrastrutture che ai bambini non apparterrebbero e non appartengono, se non per accettazione ed emulazione.
Helga Marsala
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