Non solo Basilea e Zurigo. Viaggio nel contemporaneo a Ginevra
Multiculturale e sfaccettata: per esemplificare questa doppia caratteristica di Ginevra, basti pensare che è stata la città di Calvino ma anche di Borges. Qui c'è il CERN e la Croce Rossa. E tanti spunti se si cerca arte contemporanea
“Tra tutte le città del mondo, tra tutte la patrie che un uomo tenta di meritarsi durante i suoi viaggi, Ginevra mi sembra la più propizia alla felicità”: siamo nel cuore antico della “piccola metropoli” svizzera, e queste parole di Jorge Luis Borges le leggiamo sulla targa che contrassegna la casa da lui abitata fino al 1986, anno della sua morte.
Che questa città sia sovente apparsa sotto il segno di patria elettiva, di luogo dello spirito e di rifugio ideale, lo conferma non solo il giudizio dello scrittore argentino, che vi aveva passato l’adolescenza e vi era tornato in età avanzata, ma anche il lungo elenco di artisti, letterati e uomini politici che vi soggiornò o vi trovò asilo: da Bakunin a Lenin, da Goethe a Byron, da Hugo a Musil. Lo stesso Jehan Cauvin (noto in Italia come Giovanni Calvino), che, all’epoca della Riforma, di Ginevra forgiò l’anima e incanalò il futuro, proveniva dalla lontana Piccardia.
E proprio da Calvino è d’uopo partire, se si vuole penetrare il carattere unico di questo agglomerato urbano sorto nel punto in cui il lago Lemano si restringe e lascia che il Rodano riprenda il suo corso. Fu Max Weber, nel suo famoso saggio sulla nascita del capitalismo, a mettere in evidenza come le rigide regole calvinistiche, ben lungi dal paralizzare l’intraprendenza dei cittadini, ne avessero invece incrementato le aspirazioni a guadagnarsi onestamente e con un duro lavoro un’esistenza di prosperità e benessere economico. Come che sia, il fatto è che oggi questa secolare roccaforte del calvinismo si ritrova a essere una delle città più vivibili al mondo, un luogo unico in cui la miscela di austerità e lusso si traduce in una reazione chimica di colta eleganza, idealizzato pragmatismo, visionaria concretezza.
Se la cattedrale di Saint-Pierre, nel punto più alto di Ginevra, con il suo interno spoglio e la sua austera grandiosità, testimonia di un passato in cui la vita cittadina era scandita da scarni rituali e rigidi canoni, tutto intorno a essa vediamo aprirsi una realtà che si appresta a entrare a grandi passi nel futuro.
LE ARCHITETTURE MODERNE E CONTEMPORANEE
Ginevra, città internazionale e magnete delle organizzazioni umanitarie, è decollata verso il nuovo millennio sulle ali di uno straordinario sviluppo urbanistico, rispettoso del patrimonio naturale e in grado di accogliere le molteplici risorse multiculturali, attento alle esigenze di efficienza energetica e di tutela ambientale.
L’architettura contemporanea, nel corso del Novecento, non aveva lasciato in città molti esempi memorabili. Su tutti spicca, costruito tra il 1930 e il 1932, l’edificio La Clarté di Le Corbusier, uno dei capolavori più innovativi e meno noti del maestro svizzero. Situato nella parte alta del quartiere di Aigues-Vives, l’edificio rappresenta una tappa importante nella storia dell’architettura modernista e delle tecniche di costruzione: si regge infatti su uno scheletro d’acciaio che, liberando le pareti da ogni funzione portante, consentì un abbondante uso di grandi pannelli di vetro.
Solo verso la fine del secolo scorso cominciamo a riscontrare qualche novità degna di nota, come l’Eglise de la Sainte Trinité, che si presenta come una sfera di granito rosa di venti metri di diametro, inaugurata nel 1994 su progetto di Ugo Brunoni. Negli stessi anni, gli architetti Rino Brodbeck e Jacques Roulet progettavano il nuovo edificio dell’OMM, l’Organizzazione Meteorologica Mondiale, che si eleva per nove piani come una grande astronave ellittica in alluminio, vetro e acciaio.
Inaugurata nel 2013, la Maison de la Paix consiste in sei corpi distinti, dalla superficie vetrata convessa, che si trovano scaglionati come petali di forma ogivale, progettati da Eric Ott dello studio IPAS di Neuchâtel. Il suo scopo: favorire nuove sinergie nella ricerca di soluzioni innovative ed efficaci per la promozione della pace, della sicurezza umana e dello sviluppo sostenibile.
Accanto all’edificio sede del quartier generale dell’OMPI, l’Organizzazione Mondiale della Proprietà Intellettuale, che si erge come una spessa lastra incurvata di cristallo azzurro, risalente al 1978, ha visto la luce nel 2014, a opera dello studio Behnisch Architekten di Stoccarda, la struttura che ospita la sala conferenze dell’organizzazione, composta di corpi cubici aggettanti e variamente inclinati, che si dice abbia aperto una nuova dimensione nella costruzione strutturale in legno.
Se le nuove costruzioni si trovano tutte nella zona della stazione di Sécheron, in un contesto in cui vetro, cemento e acciaio sono di casa, il placido décor architettonico del Quartier des Bains è stato turbato dalla innovativa riconfigurazione del MEG, il Museo Etnografico della città di Ginevra, ampliato con la realizzazione di un nuovo edificio progettato dallo studio zurighese Graber e Pulver e caratterizzato da una spericolata conformazione a cuneo. La facciata, modulata da losanghe incrociate di alluminio, non è altro che lo spiovente del tetto che precipita quasi verticalmente, nei cui interstizi si aprono finestre romboidali e triangolari. A lungo oggetto di critiche, solo grazie all’esito favorevole di un referendum cittadino i lavori hanno potuto essere avviati e il nuovo museo essere inaugurato nel 2014. La sua esposizione permanente si presenta a noi oggi come Archivio delle differenze umane.
I LUOGHI DELLE ARTI PERFORMATIVE
La più recente performance architettonica della città riguarda l’edificio che ospita la nuova Comédie de Genève nell’area della stazione ferroviaria di Eaux-Vives: progettato dallo studio parigino FRES Architectes, completato nel 2020, consiste in un corpo squadrato orizzontale da cui emergono come torrioni quattro volumi separati da intervalli regolari. In questa enorme struttura prende vita un sistema di produzione teatrale che non ha uguali al mondo, e che riassume in sé tutti gli aspetti e i processi necessari alla realizzazione di un singolo spettacolo: su ogni piano è infatti sistemato un atelier diverso, ciascuno dei quali provvede a tutte le necessità di allestimento delle scene e dei costumi. In un contesto dove tutto è automatizzato, troviamo un palcoscenico retrattile e inclinabile nel teatro principale, diverse sale di prova, matronei che permettono un’osservazione dall’alto, addirittura una salle modulable, con palco e tribune spostabili e ricomponibili secondo le più varie esigenze: in una città dove per due secoli si trovò bandito dal fondamentalismo calvinista, si può dire che il teatro trovi oggi la sua più completa valorizzazione.
Ma se questo è il nuovo tempio europeo della commedia e del dramma, opera e balletto a Ginevra restano ancora appannaggio del glorioso Grand Théâtre, inaugurato nel 1879. Dopo che un incendio nel 1951 risparmiò solo il foyer, l’ingresso principale e la facciata, in seguito a un ultimo e decisivo restauro può ora sfoggiare tutta la ritrovata magnificenza dei suoi superstiti stucchi fin de siècle e continuare ad alzare sulle scene il suo singolare sipario di placche istoriate d’alluminio argentato e dorato. E i concerti? Il loro luogo deputato è il Victoria Hall, che stando alle opinioni dei musicofili ha una delle migliori acustiche del mondo, col suo monumentale organo e il suo salone con sontuose decorazioni Liberty, anche queste recentemente restaurate dopo i danni di un incendio.
Adibito prevalentemente a teatro è oggi anche il Bâtiment des Forces Motrices, che fu costruito al centro del letto del Rodano tra il 1883 e il 1892 per rifornire le fontane, le case e le fabbriche della città fornendo loro l’acqua del fiume tramite un sistema a pressione. Fu proprio l’esigenza di avere una valvola di sfogo per la pressione che diede luogo all’idea del Jet d’eau, in seguito spostato nell’attuale posizione e potenziato fino a raggiungere l’altezza di 140 metri.
I MUSEI STORICI CON UN OCCHIO AL FUTURO
Con la sua cupola ellittica e la volta stellata al suo interno, l’Ariana, un palazzo fatto erigere tra il 1877 e il 1884 dal collezionista e mecenate Gustave Revilliod nella sua tenuta di Varembé e donato nel 1890 alla città, con le sue ceramiche e oggetti in vetro di tutte le epoche, è uno dei musei più gloriosi, ed era sicuramente anche il più scenografico, con l’immenso parco raggiungibile direttamente da un imbarcadero: almeno fino al 1929, data in cui, secondo il progetto che prevedeva una sede per l’organo delle Nazioni Unite, fu dato inizio al mastodontico complesso di edifici che ne impedisce oggi l’accesso al lago.
Spostiamoci ora sull’altra sponda, sul declivio di Cologny, il luogo in cui Byron e i suoi amici, ospiti di Villa Diodati nella fredda e tempestosa estate del 1816, si divertivano a scrivere storie di fantasmi e di vampiri, e Mary Shelley concepì il suo Frankenstein. Su questo declivio, in due speculari palazzine in stile neoclassico, Martin Bodmer, volendo tradurre in atto l’idea goethiana di una Weltliteratur, apprestò nel 1951 il primo nucleo della Bibliotheca Bodmeriana, collezione di documenti scritti a cui dedicò tutta la vita: oggi può contare 150mila volumi, tavolette cuneiformi, papiri greci e copti, quasi 300 incunaboli e varie centinaia di manoscritti. Dopo l’intervento di Mario Botta, che ha ritagliato nel sottosuolo lo spazio espositivo inaugurato nel 2003, la Fondazione, creata nel 1971 alla morte di Bodmer, ha assunto oggi una dimensione museale.
Il più grande complesso della città resta comunque il Musée d’Art et d’Histoire, inaugurato nel 1910, con la sua collezione comprendente 650mila reperti, dalla preistoria ai giorni nostri, spaziando dall’archeologia alla numismatica, dall’orologeria alle arti grafiche, oltre naturalmente alla pittura e alla scultura. Il direttore Marc-Olivier Wahler, entrato in carica all’inizio del 2020, ha dato un impulso decisivo a un inedito modo di concepire un museo storico, mettendo in relazione le collezioni con l’edificio che le ospita e invitando annualmente un rappresentante della contemporaneità a confrontarsi con i lasciti del passato. Se i precedenti interventi sono stati affidati all’artista austriaca Jakob Lena Knebl, della quale resta memorabile l’idea di inserire una scultura del Canova in un box doccia, e al famoso curatore Jean-Hubert Martin, la più recente “carta bianca” viene data in mano a Ugo Rondinone, con una grande mostra aperta fino all’inizio dell’estate, intitolata Quando tramonta il sole e sorge la luna. Oltre duecento reperti della collezione sono chiamati a interagire con le opere dell’artista svizzero. Il titolo allude a un percorso narrativo che ci immerge in un universo notturno e nel lato nascosto delle cose.
All’occorrenza di altre mostre temporanee soccorre poi, come una prestigiosa succursale del MAH, anche il Musée Rath, il quale, aperto al pubblico nel 1826, detiene il record di essere il più antico museo d’arte appositamente costruito di tutta la Svizzera.
ARTE CONTEMPORANEA OLTRE GLI STECCATI DISCIPLINARI
Ginevra appare oggi come una città in fase di accelerazione, transitiva e partecipativa, in cui tutto, dal punto di vista culturale e organizzativo, sembra interconnesso. La complicità e l’interscambio fra istituzioni e il dialogo tra discipline diverse qui è la regola. A partire dalle due organizzazioni che, oltre alle Nazioni Unite, hanno assicurato alla città la sua fama mondiale: CERN e Croce Rossa. Se vogliamo dare uno sguardo sul panorama artistico contemporaneo di questa città bisogna partire proprio da qui, in un’ottica di progetti condivisi e di interscambio dei saperi.
Dalla sua fondazione nel 2011, il programma Arts at CERN, attualmente sotto la direzione di Monica Bello, ha promosso il dialogo tra artisti e scienziati nel più grande laboratorio di fisica delle particelle del mondo. Il suo obiettivo è quello di coinvolgere artisti di tutte le nazionalità e di tutte le discipline in un contesto aperto alla cosiddetta fundamental research, un tipo di ricerca pura in cui le categorie di umanistico e scientifico come saperi separati non hanno più ragione di sussistere.
Spostandoci su un altro versante, di carattere umanitario e assistenziale, un esempio lampante di come certe istanze diventino particolarmente veicolabili e condivisibili attraverso la mediazione dell’arte e dell’architettura contemporanee è Il Museo Internazionale della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa: addentrandoci in un taglio che si apre nella collinetta su cui si erge l’ex Hotel Carlton, sede del Comitato della Croce Rossa Internazionale, arriviamo al suo ingresso, che ci immette in uno spazio recuperato totalmente nelle viscere della terra. Le sale dedicate alle esposizioni permanenti sono state ordinate tematicamente nel 2015, mentre era in carica Roger Mayou, coinvolgendo nell’allestimento tre distinti architetti. Anche l’attuale direttore Pascal Hufschmid ha varato dal canto suo un programma di mostre secondo “annate tematiche”. Nel 2022-23 l’argomento è quello della sanità mentale.
Ma il vero motore dell’arte contemporanea lo possiamo vedere in azione nel Quartier des Bains al BAC, Bâtiment d’Art Contemporain, che designa l’edificio dove si trovano il MAMCO, diretto da Lionel Bovier, e il Centre d’Art Contemporain, diretto da Andrea Bellini, il quale ha anche riqualificato e rivitalizzato una storica istituzione come la Biennale de l’Image en Mouvement. Il quartiere ne ha tratto una straordinaria energia, e se pure la pandemia ha ovviamente frenato lo slancio che aveva investito l’area, si può parlare ora di un clima di netta ripresa nell’attività delle gallerie. In città il mercato dell’arte sta ringranando la marcia, grazie anche all’impulso che la locale fiera, artgenève, sta dando al settore, funzionando da calamita per il collezionismo. Il suo creatore, Thomas Hug, ha saputo tradurre con grande sensibilità l’esigenza di coniugare il mercato con la ricerca culturale e l’attività delle istituzioni, sia locali che internazionali. Un’altra realtà concretizzatasi nel 2018 grazie all’intuizione di Hug è la Genève Biennale con il suo Sculpture Garden, che, svolgendosi d’estate e all’aperto, ha avuto modo anche di dribblare le limitazioni imposte dall’emergenza sanitaria.
La garanzia per una sempre più aggiornata proiezione nel futuro è infine assicurata dalla HEAD, una delle scuole d’arte più prestigiose e innovative d’Europa, nata nel 2006 dalla fusione dell’Ecole Supérieure des Beaux-Arts e della Haute Ecole d’Arts Appliqués, entrambi centri di formazione con due secoli di storia.
In conclusione, se fino a qualche anno fa si poteva constatare qui un passo diverso, rispetto a centri da tempo in posizione molto più avanzata nel sistema dell’arte contemporanea quali Zurigo o Basilea, oggi ci troviamo di fronte a una città che sta bruciando le tappe, compensando la minore quantità in termini di peso mercantile con una dinamicità organizzativa e un’originalità culturale che valgono ad assicurarle un ruolo di anno in anno sempre più incisivo nell’ambito della scena internazionale.
LIONEL BOVIER E IL MAMCO
Nel Quartier des Bains si trova il BAC, Bâtiment d’Art Contemporain. Uno dirimpetto all’altro, due istituzioni devote all’arte dei nostri tempi. Sulla destra il Museo d’Arte Moderna e Contemporanea, diretto da Lionel Bovier.
Quali sono le mostre attualmente visibili al MAMCO?
Il 2023 è iniziato con diverse mostre [fino al 18 giugno, N.d.R.] che ruotano attorno alla questione dell’elemento politico nell’arte: dall’arte come forma di discorso e critica sociale alla riflessione sulla politica delle immagini, passando attraverso una puntualizzazione sull’attivismo. Gli spazi sono occupati da una retrospettiva dedicata a Ian Burn, esponente australiano dell’arte concettuale, da una mostra dedicata al collettivo canadese General Idea e da un giro d’orizzonte focalizzato sulla “Pictures Generation”, ricorrendo alle collezioni del museo. In autunno riprenderemo il discorso relativo alla valorizzazione di alcune donne artiste che dal nostro punto di vista non hanno ricevuto l’attenzione che avrebbero meritato, come Tania Mouraud o Emma Reyes. Un piano sarà inoltre dedicato, sempre attingendo dalle nostre collezioni, a una panoramica delle nuove pratiche artistiche emerse dall’inizio del XXI secolo.
Quali saranno le conseguenze dei lavori di ristrutturazione del BAC nelle vostre strategie espositive e cosa prevedete per il periodo in cui saranno in corso i lavori?
La ristrutturazione ha due obiettivi principali: mettere a norma la struttura edilizia e incrementarne la funzionalità, migliorando la circolazione del pubblico e ricavando altri locali, come un “espace de médiation”, un salone d’ingresso e una caffetteria. Durante il periodo in cui saremo fuori sede intendiamo lavorare all’organizzazione di una mostra annuale a Ginevra e di una seconda in un museo in un’altra città. Abbiamo proposto al Musée d’Art et d’Histoire di occupare una volta all’anno la sua sede distaccata, il Musée Rath. Ci relazioneremo con i musei della Svizzera tedesca, della Francia e dell’Italia per offrire loro collaborazioni negli anni 2025-2027, con particolare riferimento alle nostre collezioni, che saranno in via eccezionale interamente disponibili per il prestito.
Fai parte del comitato d’organizzazione della Biennale di Ginevra. Quali sono le considerazioni dopo due edizioni? Esporre opere d’arte in spazi pubblici comporta una grande responsabilità e rispetto per la sensibilità delle persone: è un limite o uno stimolo per la creatività degli artisti?
La Biennale di Ginevra è organizzata da artgenève, MAMCO e Città di Ginevra. Sono stato responsabile della programmazione della prima edizione. Gli incarichi affidati a Balthazar Lovay e Devrim Bayar hanno permesso di estendere la riflessione sull’arte nello spazio pubblico attraverso la produzione di numerosi progetti con artisti internazionali. Finora siamo riusciti a consentire lo sviluppo di eventi di qualità nei parchi pubblici di Eaux-Vives e La Grange senza interferire con la loro fruizione pubblica, ma aggiungendo le opere come altrettante proposte di nuove scoperte e interazioni. I Comuni del Cantone di Ginevra mostrano sempre più interesse a sostenere la produzione di questo o quel progetto con l’obiettivo di presentarli sui loro siti anche dopo la Biennale. È quindi un progetto che si sta sviluppando bene, anche se le questioni di raccolta fondi sono state rese difficili negli ultimi anni dalla crisi sanitaria o dalle incertezze economiche legate alla situazione politica che stiamo vivendo.
È opinione comune che nel panorama artistico contemporaneo le città svizzere di riferimento siano Basilea e Zurigo. Ma Ginevra è in una fase di straordinaria accelerazione…
Basilea è indiscutibilmente la città svizzera dei musei: non solo per l’eccezionale qualità del Kunstmuseum Basel e per l’importanza delle sue collezioni, ma anche per l’orgoglio che la sua popolazione nutre per queste istituzioni. Zurigo riunisce le gallerie più importanti della Svizzera. Ma, a differenza della maggior parte dei Paesi confinanti, la Svizzera offre una particolare caratteristica geografica: è decentralizzata e multiculturale. Dobbiamo ormai tenere conto anche del polo museale di Losanna, e dire che l’ecosistema ginevrino, nonostante una totale mancanza di coordinamento politico, riguardo all’arte contemporanea è attualmente in fase di riorganizzazione. Le relazioni che esistono tra la Kunsthalle della città, la scuola d’arte, la fiera artgenève e il MAMCO oggi sono molto buone ed esistono interscambi con teatri, spazi indipendenti, enti lirici e sale concerti. Ginevra deve poi la sua vitalità artistica anche agli artisti, che non hanno ceduto alla tentazione dei prezzi più accessibili di Berlino o all’attrazione di capitali come Parigi o New York e continuano a sviluppare la loro pratica nella nostra regione.
Ginevra è forse la città con la migliore qualità della vita al mondo. Sapresti individuarne un difetto?
Il problema che Ginevra deve ancora affrontare è quello di accettare di essere davvero una città, con i suoi problemi di crescita, la sua ambizione internazionale, la presenza di apparati economici, diplomatici ecc., e non un villaggio il cui aspetto e stile di vita debba essere preservato il più a lungo possibile. Zurigo ce l’ha fatta ed è una città in cui non è meno piacevole vivere.
ANDREA BELLINI E IL CAC
Siamo sempre all’interno del BAC ma stavolta, entrati nella hall, ci muoviamo verso sinistra. Destinazione il Centro d’Arte Contemporanea diretto da Andrea Bellini.
Sono trascorsi dieci anni dal tuo insediamento: quali sono le mete raggiunte e quali gli obiettivi futuri?
Io non credo troppo nelle mete raggiunte, ma sicuramente uno dei risultati più importanti degli ultimi dieci anni consiste nell’aver reinventato la Biennale delle Immagini in Movimento. Con la mia direzione questa storica manifestazione, la cui prima edizione risale al 1985, si è trasformata in una piattaforma di produzione di opere inedite. Fin dal 2014 tutte le opere che presentiamo sono commissionate e prodotte dal Centre d’Art Contemporain. Si tratta credo della sola biennale al mondo che presenta esclusivamente lavori concepiti e prodotti in seno alla manifestazione. Credo poi che, grazie alle mostre di riscoperta e alle grandi retrospettive, siamo riusciti a trasformare l’istituzione in qualcosa di più complesso di una semplice Kunsthalle.
In un’intervista di sei anni fa a questa stessa testata dicevi che il sistema dell’arte di Ginevra era ancora alla prima adolescenza. A che punto della crescita siamo oggi? E qual è stato il ruolo del CAC in questo processo?
Mi fa un po’ ridere adesso quella risposta, comunque – dal punto di vista della creazione e dell’energia – meglio l’adolescenza che l’età adulta, la quale in fondo rimane sempre e solo una chimera. Oggi direi che il sistema dell’arte di Ginevra è in grado di offrire al pubblico progetti diversificati e complessi, grazie a buone istituzioni pubbliche, ma anche a numerosi e dinamici spazi non profit, come i vostri lettori possono constatare andando a consultare il podcast in otto episodi sul Quinto Piano, la nostra piattaforma digitale. A rendere poi interessante il sistema dell’arte cittadino contribuisce in modo sostanziale un’ottima scuola d’arte, la HEAD, la quale attira in città giovani studenti, molto motivati, da tutto il mondo.
La sede del CAC coabita nello stesso palazzo che ospita il MAMCO, nel contesto del Bâtiment d’Art Contemporain. In che modo si sono attuate e si attuano le sinergie con l’istituzione diretta da Lionel Bovier, un tuo coetaneo, entrato nel 2016, anche lui da quarantenne, a dirigere un’istituzione di livello internazionale?
Conosco Lionel da più di vent’anni. Quando dirigeva la casa editrice JRP Ringier ho pubblicato con lui diversi libri e cataloghi. Questa nostra amicizia facilita ovviamente i rapporti tra le due istituzioni. A proposito di obiettivi raggiunti: con il MAMCO siamo finalmente riusciti a far partire un grande progetto di rinnovamento del vecchio edificio industriale che ospita le nostre istituzioni e il Centro della Fotografia. L’anno scorso abbiamo lanciato un bando di concorso internazionale, vinto dallo studio di architettura Kuehn Malvezzi di Berlino. I lavori di restauro inizieranno a fine 2024 e dureranno tre anni. Nel 2028, se tutto va bene, avremo a disposizione un bellissimo edificio industriale rinnovato, con spazi comuni, una grande hall, una caffetteria, un cinema e un controllo climatico che risponde alle più recenti esigenze di conservazione delle opere.
Già qualche anno fa il New York Times parlava del Quartier des Bains come della “nuova SoHo”. Com’è evoluta la situazione in questi ultimi tempi?
È vero che la maggior parte delle gallerie della città sono concentrate nel Quartier des Bains, dove si trovano il Centre d’Art Contemporain e il MAMCO. I due anni di Covid sono stati drammatici, alcune gallerie purtroppo hanno chiuso, ma al tempo stesso qualcun’altra ha aperto. Queste fluttuazioni credo siano strutturali, nel senso che fanno parte della storia di ogni città.
Raccontaci della mostra attualmente allestita al CAC.
È una mostra alla quale lavoro da tre anni: Chrysalis, the butterfly dream [fino al 4 giugno, N.d.R.]. Si tratta di una grande collettiva dedicata alla questione della trasformazione e della metamorfosi. È la nostra seconda collaborazione con la Collection de l’Art Brut di Losanna ed è una mostra complessa e sontuosa, nella quale ogni artista è rappresentato da un polittico di immagini, un’esposizione nella quale tutto si muove e tutto è in procinto di trasformarsi in altro, in qualcosa di inatteso e sorprendente. Attraverso Chrysalis cerchiamo di sottolineare la necessità fondamentale – politica, direi – della trasformazione: tutto cambia e tutti noi dobbiamo cambiare, perché non c’è nulla di più innaturale e anticulturale della stasi, delle identità fisse e delle posizioni dogmatiche.
UNA VISITA AL CIMITERO DEI RE
Se a Ginevra è sempre stato piacevole vivere, può anche essere bello andarvi a morire. Almeno per quei suoi cittadini, autoctoni od onorari, che hanno avuto il privilegio di essere sepolti nel cimitero di Plainpalais, il “Cimitero dei re”. Trovandosi a passare di lì, l’ultima cosa che verrebbe in mente è trovarsi in un camposanto, nel vedere studenti col computer seduti sull’erba, bambini che giocano, famiglie a spasso: un tranquillo e rigoglioso giardino. Si scorgono poi le lapidi, alcune quasi consunte e coperte di licheni, altre più recenti.
Ci sono tra gli altri lo scrittore Robert Musil, lo psicologo Jean Piaget, il saggista Denis de Rougemont, il regista Claude Goretta. La sepoltura più visitata, a detta dei guardiani, è quella di Borges, che andò ad aspettare la morte nella città dove aveva passato la sua adolescenza. A pochi metri di distanza dalla tomba di quest’ultimo, col suo décor da saga vichinga, ci imbattiamo in una lapide con una targa che attira l’attenzione: “Grisélidis Réal. Scrittrice, pittrice e prostituta. 1929-2005”. Su quella inumazione non tutti furono d’accordo, ma anche questo è un segno di apertura e multiculturalismo. Ancora un po’ più in là troviamo un cubetto di pietra quasi invisibile, su cui a malapena scorgiamo le iniziali J. C.. Sembra incredibile, ma con questa sigla viene ricordato Giovanni Calvino: il terribile riformatore si spense all’età di 55 anni e lasciò detto di voler essere sepolto in una fossa comune. Un’altra piccola placca ricorda Sofija, la figlioletta di Dostoevskij morta a tre mesi di età durante il soggiorno ginevrino del padre, il quale forse aveva per questo qualche giustificazione per levare la sua voce fuori dal coro: “Ginevra è spaventosa… È un orrore, non una città”. Pur comprendendo i suoi crucci, ed essendogli grati per il frutto delle sue angosce, c’è motivo di non credergli.
https://www.geneve.ch/fr/cimetiere-rois-plainpalais
ARTGENÈVE: LA FIERA EMERGENTE DA TENERE D’OCCHIO
Thomas Hug, il quale – insieme a Lionel Bovier, Andrea Bellini e Marc-Olivier Whaler, rispettivamente alla guida del MAMCO, del CAC e del MAH – è uno dei giovani interpreti che più stanno contribuendo all’exploit di Ginevra nell’ambito della scena artistica, ha concepito una fiera d’arte unica nel panorama internazionale, animata da una vocazione che potremmo definire di stampo umanistico ed enciclopedico. Musicologo e pianista di formazione, cultore di gastronomia, ha varato pure la fiera artmonte-carlo nel Principato di Monaco, che a luglio festeggerà il suo settimo anniversario. Nel 2018 ha dato il via al programma della Genève Biennale e al suo Sculpture Garden.
artgenève, che si svolge a fine gennaio al Palexpo, ha festeggiato quest’anno il suo 11esimo compleanno con una novantina di gallerie accuratamente selezionate, tra le quali spiccavano, nel settore del moderno, Tornabuoni e Applicat-Prazan. Nel contemporaneo i nomi erano quelli di Gagosian, Perrotin, Templon, Thaddaeus Ropac e Almine Rech, mentre fra le italiane erano presenti Continua, Noero, P420, Studio Trisorio e A arte Invernizzi.
“La particolarità di questa fiera d’arte è una caratteristica originaria”, dice il direttore. “Fin dall’inizio, nel 2012, abbiamo fatto delle scelte precise, limitando il numero delle gallerie ed estendendo la partecipazione ad altre realtà istituzionali: musei, Kunsthalle, scuole d’arte, fondazioni, residenze d’artista, collezioni private”. Questa è la filosofia. Ecco dunque riuniti nell’edizione 2023 ospiti internazionali di altissimo livello: tra gli altri, Centre Pompidou, Musée du Quai Branly, Dubuffet Foundation, Serpentine Galleries; e poi Poush, la dinamica residenza per artisti di Parigi, e ovviamente i fiori all’occhiello cittadini, tra cui il MAH, il CAC, il MAMCO e il Grand Théâtre di Ginevra, mentre Losanna era rappresentata con un omaggio alla storica Galerie Rivolta, una realtà attiva e propositiva nell’ultimo trentennio del secolo scorso, e con la convocazione del giovanissimo spazio All Stars. Presente anche HEAD, la sempre più rinomata scuola d’arte di Ginevra. artgenève/estates ha presentato un focus sull’artista inglese Barry Flanagan, scomparso nel 2009.
Considerato il training pianistico e musicale del direttore, non poteva mancare una sezione dedicata all’importanza del suono nelle arti figurative contemporanee, mentre la novità forse più originale è consistita in una serie di performance che mettevano in evidenza il fattore olfattivo. E, non da ultimo, anche in quest’ultima edizione aveva ampio spazio la “cultura materiale”, con grandi chef chiamati a competere con gli artisti.
FOCUS SULL’ARTISTA GIANNI MOTTI
Se c’è un artista che a Ginevra ha lasciato e continua a lasciare tracce importanti, questi è Gianni Motti (Sondrio, 1958). Dire che da moltissimi anni abita in questa città non sarebbe del tutto esatto, perché alle domande che riguardano il suo luogo di residenza e i suoi concittadini egli glissa e risponde da nomade, da cultore di paradossi, da attivatore della sensibilità, da sabotatore di luoghi comuni quale realmente è: che il posto dove gli capita di incontrare più ginevrini è Zurigo.
Di sicuro c’è che, a Ginevra, abitano stabilmente e permanentemente alcune sue opere. A cominciare dal frontone del Musée d’Art et d’Histoire, dove è stato piazzato il Big Crunch Clock, un suo lavoro concepito nel 1999, un orologio digitale che conta alla rovescia, secondo per secondo, il tempo che rimane fino all’implosione del Sole, programmato in più o meno cinque miliardi di anni. È singolare che nella città simbolo del tempo esatto e dell’orologeria di precisione scorra ora questo paradossale cronometro.
Ancora una traccia resta al Cimetière des Rois, dove Motti ha eretto una lapide, unica opera facente parte della mostra collettiva Open End, lì allestita nel 2016, a essere rimasta in loco. Vi leggiamo questa frase: “Je vous avais dit que je n’allais pas très bien”. Si parla qui di un tempo definitivamente scaduto, che continua però nella riflessione o nel sorriso amaro di chi legge.
Memorabile poi il video di quasi sei ore che lo riprende mentre percorre a piedi tutto il tragitto di 27 km dell’acceleratore di particelle del CERN. In questo lunghissimo film il tempo scompare, come se non passasse più.
Anche l’opera esposta nel solo show di artgenève 2022 presso la Galerie Mezzanin esprimeva con un simbolismo brutale il passare del tempo, in questo caso il tempo atroce della pandemia: un’automobile tenuta, così come il consueto corso della nostra vita, due anni ferma e rimasta sconciamente imbrattata dai piccioni.
Ma il dialogo di Gianni Motti con la città di Ginevra e i suoi abitanti non si arresta qui: a febbraio ha inaugurato Echo, la sua nuova opera permanente nell’immobile Saphir, appena sorto nell’emergente quartiere della stazione di Chêne-Bourg.
Alberto Mugnaini
UN ARTISTA METTE LE MANI SUL MAH
Per la nuova mostra del programma Carta bianca, il Musée d’Art et d’Histoire di Ginevra ha invitato l’artista svizzero Ugo Rondinone a ripensare gli spazi e le collezioni del museo. Ne abbiamo parlato con il direttore Marc-Olivier Wahler.
Quando il sole tramonta e la luna sorge. Già a partire dal titolo, la mostra di Ugo Rondinone (Brunnen, 1964) al MAH rivela la natura ciclica del suo percorso, potenzialmente eterno come l’alternanza del Sole e della Luna. Sono infatti i due astri, che Rondinone traduce in altrettante sculture circolari di cinque metri di diametro, a guidare il visitatore durante la mostra, per scoprire non solo le opere dell’artista svizzero, ma anche la sua reinterpretazione degli ambienti e della collezione del museo. Suddivisa in undici ambienti, la mostra – allestita fino al 18 giugno – si presta a infinite interpretazioni. Mai esplicita né criptica, l’arte di Rondinone viaggia sul calar della sera, in una dimensione romantica e sovrasensibile da cui emergono analogie, riflessi e contrapposizioni.
Dopo le “carte bianche” a Jakob Lena Knebl nel 2021 e a Jean-Hubert Martin nel 2022, ora tocca a Ugo Rondinone. Di cosa si tratta?
Carta bianca nasce dalla volontà di lasciare agli artisti la libertà di interpretare e trasformare il museo. L’unica regola è includere la collezione permanente del museo all’interno della mostra. Il Musée d’Art et d’Histoire di Ginevra conserva oltre 800 pezzi tra dipinti, sculture, arredi e oggettistica, con un’estensione temporale che va dalla preistoria al Novecento: per un artista contemporaneo, potersi confrontare con tale diversità storico-artistica rappresenta certamente una sfida e uno stimolo non indifferenti.
Quali sono le sfide e i benefici di lasciare carta bianca agli artisti?
La sfida maggiore è convincere il team e il consiglio d’amministrazione del museo di alcune scelte che potrebbero a un primo sguardo sembrare audaci, ma che poi si rivelano vincenti. Dal mio punto di vista, tuttavia, per creare una mostra è necessaria una mente creativa: quando ci relazioniamo con le opere d’arte, non dobbiamo dimenticare che sono state realizzate da una creatività, quella dell’artista, che deve essere rispettata.
In che modo il lavoro di Rondinone interpreta gli spazi del museo e la sua collezione?
Quando venne a visitare il museo e la collezione fu subito colpito dall’estrema simmetria del pianterreno, così come dalla sua circolarità. Ebbe immediatamente l’idea di ragionare su queste qualità per creare un percorso multidirezionale di oltre 2mila metri quadrati, dialogando con due importanti figure della storia dell’arte svizzera, Ferdinand Hodler e Félix Vallotton, e incorporando le sue stesse opere. I lavori di Ugo aiutano la transizione da un autore all’altro, da un ambiente del museo a quello successivo. L’analisi della collezione da parte di Rondinone e l’attenzione con cui ha considerato lo spazio in cui è andato a intervenire sono forse i maggiori punti di forza di questa mostra.
La mostra invita a ripensare il nostro approccio al museo, in modo da percepirlo, più che come un’istituzione inaccessibile, come un luogo in cui può trovare spazio anche l’amore.
Questa è una delle nostre grandi battaglie. Il nostro museo è stato costruito secondo un modello del XIX secolo, molto enciclopedico e talvolta persino intimidatorio o autoritario. Noi cerchiamo di creare mostre che siano radicali, profonde, scientifiche, avendo in mente un processo e un esito creativo. In questo modo i visitatori possono esperire le mostre e il museo in modi differenti. When the sun goes down and the moon comes up è costruita sul concetto di ciclicità: non ha un inizio o una fine, è un percorso continuo e potenzialmente infinito. Nei classici musei ci sono categorie, gerarchie. Questa mostra cerca invece di riconciliare gli opposti. Interno-esterno, soffice-duro, luce-ombra non sono più contrari, ma parti di uno stesso sistema. Questo è quello che significa “amore” per me.
Alberto Villa
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #71
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