A Milano le opere di Aljoscha immaginano l’utopia del futuro
L’artista ucraino, celebre per le sue installazioni psichedeliche e trasparenti, dà forma a nuovi ambienti e organismi ideali, rispondendo in modo positivo al difficile presente. Ce ne ha parlato in occasione della sua mostra
Eudemonismo, bioetica. Filosofie antichissime, che risalgono agli albori della storia umana. Eppure, ancora attuali, tanto da toccare la curiosità di alcuni (pochi) uomini contemporanei. “Le sto ancora scoprendo – queste antiche sfere della conoscenza – come se stessi a poco a poco trovando un giardino segreto, nascosto nel profondo di una giungla densa”. Così commenta l’artista ucraino Aljoscha (Lozova, 1974), rivelando la sua profondità concettuale fuori dal comune. Profondità che si ritrova in ciascuna delle sue opere – complessi utopici di nuovi mondi e organismi – attualmente in mostra da Tempesta Gallery. Lo spazio milanese, noto per il suo impegno a promuovere forme artistiche legate all’ambiente e alle dinamiche della società contemporanea, ospita un progetto esclusivo, pensato proprio per i suoi ambienti in Foro Bonaparte. Mettere piede in galleria è come ritrovarsi in un mondo altro, non del tutto riconducibile a qualcosa di già noto. “Un prototipo per un nuovo ambiente fisico di un futuro utopistico”.
La mostra di Aljoscha da Tempesta Gallery a Milano
Davanti alle opere che fluttuano nello spazio della galleria – per non parlare di quelle poste a terra, come propaggini animali fuoriuscite dal pavimento – la tentazione di associarle a oggetti a noi familiari è altissima. Una pare una ragnatela, un’altra un corallo strappato da chissà quale barriera corallina, e poi ce n’è persino una simile a un fenicottero. Eppure, la tentazione inganna, e non fa che allontanare dal vero significato di queste installazioni. “Noi, in quanto esseri umani, tendiamo a ricondurre sempre tutto a schemi e modelli” – dice Aljoscha, sorridendo davanti a questa irriducibile debolezza umana. “La mia missione è proprio creare nuovi prototipi di estetiche biologiche, pur sapendo già che le persone vi ritroveranno modelli familiari”. Provando dunque a immergervisi senza interpretare in base a ciò che si conosce, ecco che il fascino delle opere viene allo scoperto. Sculture di materiale plastico sottile, multiforme, mutevole alla luce. Sono attraenti, ma anche inquietanti. Parlano di un mondo ideale, ma allo stesso tempo rispecchiano la struttura di quello in cui viviamo: un microcosmo composto da infiniti, piccolissimi individui. Noi. E non sono solo le loro forme composite a stupire, ma anche i colori. “Ogni persona ha le sue convinzioni soggettive sui colori. Io uso il rosa, il blu, il violetto. Molto spesso il trasparente; il verde quasi mai. I colori sono complessi”. Complessi… almeno quanto il pensiero alle spalle dei lavori di Aljoscha. Abbiamo cercato di approfondirlo proprio con lui in questa intervista esclusiva.
Intervista ad Aljoscha in occasione della mostra a Milano
Eudemonismo e bioetica: due sfere di studio antichissime e allo stesso tempo molto attuali. Come le hai scoperte?
La mia è una continua scoperta, tutt’ora in corso, come se stessi scoprendo a poco a poco un giardino nascosto nel profondo di una giungla densa e impenetrabile. Fin dalla mia infanzia, mi sono chiesto come mai la nostra società tendesse a razionalizzare tutto, persino la complessità della vita biologica e umana, pur di ottimizzare le risorse. E da allora, continuo tutt’oggi i miei studi e le mie riflessioni.
Come le definiresti per spiegarle anche a chi non ha ancora avuto il piacere di scoprirle?
Sono concetti che risalgono al passato: a pensatori che hanno plasmato la storia della nostra specie – Democrito, Platone, Aristotele, Avicenna. Cercavano il segreto del nostro apparentemente infinito oceano di sofferenza, mappando le vie per la felicità come obiettivo morale di vita. Si parla di eudaimonia – ossia il nostro buon demone interiore – come fosse un inseguire la felicità: un concetto tanto sfuggente quanto prezioso. La bioetica, invece, con le sue radici impigliate nel terreno biologico e nei principi che guidano e governano la nostra biosfera, invita a riflettere su quale sia il nostro posto in questo mondo, e sul rapporto dell’uno verso l’altro, superando i luoghi comuni. Queste due antiche ricerche sulla felicità e sull’esistenza etica mi ricordano i sogni infantili, in cui tutto era possibile. Sogni in cui il vero piacere era uno stato mentale coltivato dalla gentilezza, e il benessere era un gioco di scoperta. Eudaimonia e bioetica sono, in fondo, un tentativo di comprensione su cosa significhi vivere bene. Sono come un cantiere in costruzione – strettamente personale – di un nuovo essere noi stessi utopico.
Come affronti questi temi nelle tue opere?
La mia forza trainante è la bellezza della diversità, nelle sue deviazioni gentili ma permanenti rispetto alla norma. Concetto, quest’ultimo, di fatto inesistente. C’è qualcosa di profondamente umano nella ricerca della felicità. Vedo nella biosfera – una delicata e intricata rete di vita – un macrocosmo delle condizioni mentali, in cui la tenerezza prende il posto della crudeltà autodistruttiva, e la serenità si conquista e si perde nei momenti di auto-riflessione.
Nel contesto di guerra di oggi, parlare di “tendenza umana naturale alla felicità”, come suggeriscono le due discipline, è difficile.
In quanto artista ucraino, trovare la pace in mezzo alla cacofonia dei crimini di guerra attuali è una sfida morale e filosofica molto ardua. Questo però mi spinge a rivalutare la natura della violenza, degli omicidi e dell’anti-etica della guerra, che permeano le nostre vite quotidiane. Riflettere su queste pesanti realtà attraverso la lente della non violenza, in particolare di un pacifismo deontologico. Un pacifismo che non vuole essere approvazione della difesa disarmata, bensì un invito a comprendere le cause biologiche, genetiche ed evolutive sottostanti delle aggressioni. Come argomenterebbe il filosofo David Pearce, bisogna capire le basi biologiche dei comportamenti violenti. Solo questo può offrire una via d’uscita. Esaminando – e potenzialmente modificando – la nostra genetica per ridurre le aggressioni innate, possiamo davvero arrivare a mitigare le cause profonde della violenza.
Credo in un futuro che non sia deciso e vincolato dalle determinanti genetiche, culturali, sociali o dogmatiche, del nostro stato attuale.
E come credi si possa ri-costruire questo futuro?
L’idea che un giorno si possa ricalibrare la stessa biologia dell’aggressione è parte di una prospettiva ambiziosa del bio-pacifismo: quella in cui le radici biologiche della violenza sono riconosciute e affrontate all’interno del più ampio quadro etico della Creazione. Piuttosto che di Nazioni Unite, credi si debba parlare di un’Ecosfera Unita, in cui i diritti delle piante, degli animali e di tutti gli individui si intreccino con i nostri concetti di umanesimo e cooperazione.
Le opere di Aljoscha come speranza contro la guerra
Che cosa può fare l’arte in tutto questo?
Nel contesto della sofferenza dell’Ucraina, io credo nel potere dell’arte di comunicare, guarire e portare speranza. È attraverso l’arte che possiamo esprimere l’ineffabile natura delle nostre paure, dei nostri sogni e del nostro desiderio collettivo di pace. Possiamo immaginare un mondo in cui l’etica della biotecnologia, gli imperativi morali del pacifismo e la convinzione di poter costruire un mondo migliore, convergono, offrendoci uno sguardo su ciò che potrebbe concretizzarsi se solo osassimo metterlo in pratica. E non è una visione ingenua. È, piuttosto, un invito alla biotecnologia – pacifica – che ci esorta a impiegare tutta la nostra comprensione, scienza e umanità, per creare un futuro diversificato e basato sulla pace.
Come concretizzi questo ideale nelle tue opere?
Le mie opere incarnano la speranza per l’umanità attraverso la vivacità di combinazioni di colori chiari e visibili, ma anche abbracciando i concetti di trasparenza e traslucenza. Rivelano la bellezza di forme cresciute organicamente, che mutano e richiamano l’estetica dell’ignoto e dell’alieno. Intrecciando visioni di biologia sintetica, progettazione cellulare complessa e forme di vita non funzionali, propongo un biofuturismo trascendente, che sfida la xenofobia celebrando una bellezza strana e non antropomorfa. Così, con la creazione di nuovi disegni di vita che esplorano le complessità e le potenzialità delle mutazioni stesse, le mie opere vogliono superare le fobie e le limitazioni attuali, suggerendo una felicità espansa e reinventata in modo inclusivo.
Parliamo dell’installazione che hai realizzato per Tempesta Gallery. Come ce la racconti?
Si può solo venire di persona a vederla e viverla. Sarà un’opera complessa specifica per la galleria, con alcuni nuovi elementi sperimentali. E ovviamente sarà una sorta di avventura e sorpresa anche per me. Il titolo dell’installazione “Mutative transitions into Organic Utopia” potrebbe cominciare a stimolare la tua immaginazione.
Le opere in mostra parlano di utopie e sogni umani antichissimi che si fondono tra loro. Come ce le racconti? Pensi che l’arte possa servire ad avvicinarsi e a realizzare questi sogni? O serve altro?
In questo mio lavoro – il progetto di un nuovo superorganismo- ho elaborato i sogni dell’homo sapiens in tutta la sua continua metamorfosi in nuove specie. Sogni di pace, beatitudine, bellezza, e di profonda connessione con tutti gli esseri.
Attraverso la sua traslucenza, l’opera riflette prima di tutto il sistema prioritario che mappa i contorni di questi sogni, sottolineando l’importanza di valutarne la bontà. E poi, rispecchia anche la realtà vista come forma di pensiero, intrisa di ricerca della conoscenza, metafisica e approccio razionalista. Infine, il mio lavoro vuole diventare un catalizzatore per realizzare davvero queste antiche aspirazioni umane, avvicinandoci a questi ideali.
Emma Sedini
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