Non è facile comprendere l’Australia, così come questa Biennale di Sydney. Il Paese è grande quanto l’Europa (che vanta 700 milioni di abitanti) ma è abitato da soli 26 milioni di individui addensati lungo le sue coste con alle spalle aree di deserto (in aumento) pari a sette volte la superficie italiana. La percezione della sua storia (quella scritta) è bizzarra: inizia con l’arrivo degli europei alla fine del XVIII secolo. Gli aborigeni però erano già qui da 50.000 anni, separati in gruppi ben distinti: le semplificazioni nemmeno qui funzionano. E proprio di questo si occupa la Biennale curata da Cosmin Costinas e Inti Guerrero, che l’hanno intitolata Ten Thousand Suns, dislocandola in sette luoghi scelti per esporre 96 artisti di ogni parte del mondo. Oltre alle proiezioni serali che colorano i celebri gusci della Sydney Opera House, ogni genere di espressione artistica è presente nei musei più celebri della città, raggiunge l’Università di Sydney e infine l’ultima arrivata, la vasta White Bay Power Station. L’intento di questa Biennale è quello di trasmettere la molteplicità culturale degli “aussie” (come i locali chiamano loro stessi). Innanzitutto la comprensione del cosmo delle Prime Nazioni: in Australia esistono almeno 500 diversi popoli aborigeni organizzati in clan ognuno con la propria identità linguistica e territoriale. Ten Thousand Suns racconta come le loro culture siano sopravvissute in situazioni potenzialmente fatali. L’immagine di “diecimila soli” evoca inoltre un mondo rovente, sia nelle visioni cosmologiche che nell’attuale momento di emergenza climatica: la siccità in questo grande Paese rappresenta un incubo di cui non si conosce il rimedio. Tutto questo in un mondo che rischia di essere bruciato da un altro sole, questa volta artificiale: del nucleare qui si conserva un ricordo vivido dovuto agli esperimenti condotti negli Anni Cinquanta nelle regioni desertiche del sud senza preavviso alle popolazioni residenti.
La Biennale di Sydney all’Art Gallery del New South Wales
Tra i sette luoghi delegati di questa Biennale ne segnaliamo tre di particolare interesse. Nella Art Gallery del New South Wales, il museo per eccellenza di Sydney, una parte degli artisti interpellati esplora costumi e ornamenti quali potenti espressioni di sé e della propria comunità. Altri si interrogano sul valore delle immagini del passato e su come trasmettere oggi quelle inerenti alle emergenze globali. Qui è stata posizionata un’opera che meglio di ogni altra potrebbe essere assunta a manifesto di questa Biennale: si tratta di un acrilico su tela di grandi dimensioni che Frank Bowling, nel 1971, ha intitolato Australia to Africa. Bowling, nato nella Guyana britannica all’inizio degli Anni Cinquanta, raggiunge Londra, per poi venir respinto dal Royal College of Art per non aver superato la prova di disegno a mano libera. Diventerà più tardi il primo artista di colore ad essere eletto membro della Royal Academy of Arts e il primo artista nero presente nella collezione permanente della Tate. Australia to Africa è una mappa immaginaria dove i continenti nuotano in un mare di luce dorata. L’Australia vi appare più volte mentre tutto l’emisfero australe assume una posizione predominante in netta contrapposizione con la visione geografica eurocentrica.
Le comunità aborigene alla Uswn Gallery
Alla Uswn Gallery l’accento è posto sulle pratiche in cui le comunità aborigene hanno svolto ruoli chiave. Appaiono paesaggi infernali come quelli legati all’estrazione mineraria o alle prime piantagioni esplorative. Ma sorprendente risulta soprattutto la narrazione delle storie di connessione tra l’Australia e il mondo musulmano. Per la storiografia occidentale una novità. Perché l’arrivo prima di olandesi e portoghesi e poi dell’inglese Cook, che diede il via alla colonizzazione vera e propria, è stato preceduto nel XVI secolo dal commercio di trepang (un frutto marino) tra gli australiani delle Prime Nazioni e i mercanti musulmani provenienti dall’Indonesia, su rotte commerciali che raggiungevano la Cina. Percorsi che hanno lasciato eredità culturali da entrambe le parti.
Le opere alla White Bay Power Station di Sydney
Nonostante un’analisi spesso spietata tanto del passato che del presente, Ten Thousand Suns abbraccia una visione di speranza attorno a un futuro da costruire in comune e da vivere gioiosamente, contro ogni proiezione millenaristica che qui viene indicata come oscuro cascame della cultura occidentale. È quanto emerge dalle opere disposte nella White Bay Power Station, un tempo centrale elettrica a carbone, oggi reliquia architettonica degli inizi del XX secolo. Inaugurata in occasione di questa Biennale dopo imponenti lavori di bonifica si propone ora come nuovo grande spazio espositivo e culturale comunitario. Qui sono esposte le opere di 32 artisti, per lo più di grandi dimensioni con una sottolineatura particolare per gli aspetti queer che anche in questa esposizione non potevano mancare.
La 24a Biennale di Sydney si propone insomma come testimonianza della resilienza dello spirito umano e del potere di trasformazione dell’espressione. Intorno alla auspicabile sintesi tra la cultura degli abitati delle Prime Nazioni e quella dei coloni europei giunti in seguito si sviluppa anche l’esposizione del Padiglione Australiano della 60a Biennale di Venezia. Come spesso accade però l’intento non sembrano essere in sintonia con la realtà sociale da cui pure la Biennale di Sydney scaturisce. Durante il referendum dello scorso ottobre la maggioranza degli australiani, a sorpresa rispetto ai sondaggi, ha votato no alla modifica della costituzione che avrebbe concesso maggiori diritti alle comunità aborigene. Per l’occasione è stato pubblicato un ricco catalogo.
Aldo Premoli
Sidney // fino al 10 giugno 2024
Ten Thousand Suns, 24a Biennale di Sydney
https://www.biennaleofsydney.art/
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati