Viaggio culturale a Dakar. Lo specchio di un colonialismo mai finito
La capitale senegalese è un avamposto di storia coloniale e, se da un lato è stata in grado di emanciparsi grazie a una coscienza indipendentista guidata da intellettuali di spessore, dall’altro soffre ancora le conseguenze del suo passato. Ci siamo stati per raccontarvi la storia, i quartieri, la cultura, le personalità e la scena artistica emergente di Dakar

Capitale di uno dei Paesi più stabili della tormentata regione dell’Africa Occidentale, Dakar è una città da approcciare con rispetto, tenendo ben presente quale sia stato il peso delle tragedie causate dal colonialismo europeo, e dei problemi della sua eredità che ancora oggi sono parte dello scenario quotidiano: una città brulicante di vita precaria, fra quartieri in espansione dove ancora mancano i servizi di base, e la zona storica che ha perso gran parte del pregevole patrimonio architettonico coloniale, sostituito da anonimi palazzi in vetrocemento delle grandi multinazionali, o da scheletri di cantieri incompiuti. Nonostante ciò, a differenza di Mogadiscio, Luanda, Karthoum e altre martoriate città africane, a Dakar non si cammina sui cadaveri di endemiche guerre civili, ed è una città solare dove brulica la vita di un popolo che non è ancora riuscito a conquistare la sua totale indipendenza. Il peso del neocolonialismo è evidente, il potere economico risiede in Francia, in Cina, in Russia, un’élite privilegiata si forma all’estero e poi perde progressivamente di vista l’interesse nel Paese, occidentalizzandosi nella mentalità e nei costumi. Un beffardo schiaffo agli sforzi di Cheikh Anta Diop e Léopold Senghor, che tanto si spesero in vita per formare una coscienza africana, una consapevolezza delle proprie radici e una società unita contro lo sfruttamento da parte dei Paesi colonialisti.
Per punti
Dakar e le sue contraddizioni
A 64 anni dall’indipendenza, poco sembra essere veramente cambiato in Senegal, dove il tasso medio di alfabetizzazione è stimato fra il 45 e il 51% (ma scende al 40% fra la popolazione femminile), e l’opinione pubblica ha pochi strumenti per leggere la realtà con spirito critico; Dakar è lo specchio di questa situazione di limbo, dove la popolazione sopravvive nella precarietà e il Paese continua ad essere depredato (vale la pena ricordare, ad esempio, che nelle acque senegalesi pescano flotte cinesi e giapponesi, e che le miniere d’oro sono proprietà della compagnia canadese Teranga e dell’australiana Resolute Mining). A Dakar si vedono quindi contraddizioni non ancora risolte, in primo luogo il divario fra la ricca borghesia, che abita la zona del Plateau, e la classe povera, stipata in quartieri come Fass e Medina; come in tante altre città del genere nel mondo, anche qui è stridente il contrasto fra le ville, i palazzi e gli uffici della minoranza bianca e dell’élite nera che vi intrattiene relazione d’affari e i quartieri popolari, dove le strade sono in gran parte sentieri sterrati, ingombri di ogni genere di persone e cose, dove anche i bambini spesso lavorano e dove si affacciano edifici cadenti appena animati da squallide botteghe. Nonostante negli ultimi trent’anni Dakar abbia perso gran parte del suo fascino, a causa dell’incuria e dell’inquinamento, guardandosi intorno si scopre la paradossale gioia del sopravvivere, la si respira nei mercati caotici ma colorati, nelle vesti leggere che le donne indossano come fossero dee, nei banchetti improvvisati lungo i marciapiedi dove si mangia in comunità, sfiorati dal traffico di veicoli, persone e animali; una gioia paradossale che vede lo spreco di tante energie e si accompagna inesorabilmente alla rassegnazione. Perché la dignità degli africani è innegabilmente ancora oggi calpestata da invisibili poteri che da fuori detengono le leve del Paese, aiutati dalla corruzione che per adesso ancora affligge la classe politica. Dakar non è quindi una meta per turisti, ma uno di quei luoghi utili da conoscere per comprendere le ragioni e le responsabilità delle ingiustizie che affliggono il mondo.

Storia di Dakar
Il nucleo originario della futura città si sviluppò attorno ai villaggi di Ouakam, Ngor, Yoff e Hann, che il popolo Lebu – un sottogruppo del popolo Wolof – fondò sulla penisola di Cap-Vert all’inizio del XV Secolo; questi quattro villaggi fanno ancora oggi parte della città, e sono abitati dall’etnia Lebu, anche se i rapidi e spesso drastici processi di urbanizzazione sviluppatisi alla fine dell’Ottocento hanno causato una perdita di identità. I primi europei che videro questa parte dell’Africa furono i marinai portoghesi della spedizione comandata da Nuno Tristão, esploratore e mercante di schiavi che nel 1444 raggiunse la foce del fiume Senegal (all’epoca considerato un affluente occidentale del Nilo) spingendosi poi a sud nella baia su cui oggi si affaccia Dakar; gli scopi della missione non erano unicamente geografici, perché Tristão tornò in patria con un carico di circa venti schiavi.
Dakar tra colonizzazione e commercio degli schiavi
I contatti con il Senegal ripresero nel 1456, quando Diogo Gomes, nel corso di una missione alla ricerca di informazioni sulle rotte che collegavano le regioni aurifere del Senegal e dell’Alto Niger con Timbuctu e la costa atlantica del Marocco, esplorò accuratamente la baia che battezzò “di Bezeguiche”, dal nome del sovrano locale, ma il primo insediamento portoghese sorse pochi anni più tardi sull’isola di Gorée, a 3,5 chilometri dalla costa; questo villaggio, dal 1536, divenne la base più importante dell’Africa occidentale per il nefando commercio degli schiavi, cui erano interessati diversi Paesi europei. Infatti, nel 1588 l’isola fu conquistata dalle Provincie Unite (Paesi Bassi), che si alternarono nel dominio con i portoghesi, fino al 23 gennaio 1664, quando Gorée cadde sotto il controllo dell’ammiraglio inglese Robert Holmes, e infine dell’esercito francese il 1° novembre 1677. Invece, la penisola di Cap-Vert continuava a rimanere sotto il controllo del popolo Lebu, e nel 1566 tutta la provincia di Cayor divenne un regno indipendente; nel XVII Secolo sorse il villaggio di Ndakaaru, proprio davanti all’isola di Gorée, che intratteneva paradossali rapporti commerciali con i mercanti di schiavi, portoghesi e olandesi prima, inglesi e francesi poi; tutta la penisola di Cap-Vert, comunque, rivestiva importanza logistica per le flotte portoghesi in viaggio verso l’India, che qui facevano sosta per riparare eventuali danni alle navi, fare scorta di acqua e viveri, curare eventuali malattie degli equipaggi e commerciare con le popolazioni locali. L’infame commercio di esseri umani verso le piantagioni delle colonie europee in America costituì a lungo il principale elemento di lucro in questa zona dell’Africa, e fra il 1758 e il 1814 Francia e Inghilterra si disputarono militarmente il controllo del villaggio di Saint-Louis, alla foce del fiume Senegal, così come dell’isola di Gorée; qui, nel 1776, sotto l’amministrazione francese, fu eretta la famigerata Casa degli schiavi, il cui commercio era controllato da famiglie meticce, discendenti da commercianti olandesi e francesi che avevano impalmate donne africane. Nonostante la tratta degli schiavi fosse stata abolita in Francia nel febbraio del 1794, a Gorée sarebbe continuata fino al 1848. Intanto, nel 1795, la popolazione della penisola di Cap-Vert si ribellò al potere centrale del regno di Cayor, e nacque così quella che i francesi chiamarono “Repubblica di Lebu“, con capitale Ndakaaru. Quando, il 30 maggio 1814 il Trattato di Parigi – che stabiliva le frontiere francesi dopo la sconfitta di Napoleone e il riassetto delle colonie africane – assegnò il Senegal alla Francia, questa stabilì definitivamente il suo potere coloniale su tutto il Paese; il villaggio di Ndakaaru acquistò importanza a partire dal 1857, quando i francesi vi stabilirono una guarnigione militare e ne cambiarono il nome in Dakar; poco dopo fu annessa anche la Repubblica di Lebu, dove, per sostituire il commercio degli schiavi da poco abolito, venne incentivata la coltivazione delle arachidi, così come in altre zone della terraferma, attività che è ancora fiorente.

Lo sviluppo di Dakar nel Novecento
L’amministrazione coloniale investì forti somme di denaro per costruire adeguate infrastrutture, e Dakar conobbe un notevole sviluppo urbano inglobando anche i villaggi di Ouakam, Ngor, Yoff e Hann; per le esigenze commerciali le strutture portuali furono migliorate con la costruzione di nuovi moli, fra Dakar e Saint Louis furono costruite la linea telegrafica e la ferrovia, e negli Anni Novanta dell’Ottocento la città divenne un’importante base militare per la conquista del Sudan occidentale; il quindicennio seguente vide Dakar svilupparsi in maniera considerevole, grazie agli ingenti capitali dalla Francia, e nel 1902 sostituì Saint Louis nel ruolo di capitale dell’Africa Occidentale francese. Fra il 1906 e il 1923 venne costruita la ferrovia per Bamako, e la città crebbe. Il lato negativo di questo sviluppo economico e urbano fu la segregazione razziale che lo accompagnò, foriera di profonde discriminazioni in termini di accesso ai servizi e a condizioni di vita salubri e dignitose; in seguito a un’epidemia di peste che si verificò nel 1914, le autorità costrinsero la maggior parte della popolazione locale a lasciare le loro abitazioni nella zona del Plateau e a trasferirsi nella nuova Medina, isolata da una sorta di “cordone sanitario”; i Lebu, che erano di fatto gli abitanti originari della zona, cercarono di opporsi agli espropri delle loro case e terre e alla deportazione nella Medina, sostenuti anche da Blaise Diagne, il primo africano ad essere eletto deputato all’Assemblea Nazionale francese; la protesta non ebbe però successo, perché il Plateau divenne un distretto amministrativo, commerciale e residenziale sempre più riservato agli europei e servì da modello per simili enclave in altre capitali dell’Africa francese, come Bamako, Conakry, Abidjan. Comunque, grazie anche alle buone strutture portuali e ferroviarie che facilitavano la commercializzazione dei prodotti finiti, sempre più numerose società commerciali stabilivano a Dakar le loro filiali e vi realizzavano investimenti in attività industriali (mulini, birrerie, raffinerie, fabbriche di conserve); inoltre, la città era una tappa importante delle prime rotte aeree intercontinentali, grazie al leggendario aeroporto di Mermoz (oggi non più esistente).
Fra gli Anni Venti e Trenta Dakar conobbe una vasta immigrazione commerciale dal Libano, comunità ancora oggi molto numerosa; nel tempo si sono aggiunte quella marocchina, mauritana, capoverdiana e guineana.
Dakar durante la Seconda Guerra Mondiale
Dakar ha vissuto anche le vicende della Seconda Guerra Mondiale, quando nel 1940, fuggito dalla Francia occupata dall’esercito tedesco, il generale Charles de Gaulle, comandante in capo delle forze armate della Francia Libera, cercò di fare della città la base delle operazioni della resistenza, da estendere poi verso la Tunisia. Purtroppo, i servizi segreti tedeschi, insieme alle forze collaborazioniste di Vichy, riuscirono a prendere il controllo della città prima dell’arrivo degli uomini di de Gaulle. Fu quindi necessaria un’azione militare, e fra il 23 e il 25 settembre le forze navali britanniche e francesi tentarono il bombardamento dal mare della città e un successivo sbarco di truppe (Operazione Ménace), confidando anche nel sostegno della popolazione locale. La risposta tedesca e delle forze di Vichy fu però veemente, anche con l’impiego di sommergibili, che causarono diversi danni alle navi avversarie. La battaglia si concluse quindi con il ritiro delle truppe anglo-francesi. Nonostante la sconfitta, de Gaulle riuscì a stabilire il suo quartier generale a Douala, in Camerun, e quando, nel 1943 le forze dell’Asse erano state ormai sconfitte ed espulse dall’Africa, anche Dakar tornò sotto il controllo della Francia Libera, come base per continuare la guerra in Europa. Ma anche nel momento di uno sforzo comune contro l’oppressione nazista, le forze democratiche si macchiarono di un crimine di stampo coloniale contro i combattenti di colore; alla fine di novembre del 1944, nel campo di Thiaroye, alla periferia di Dakar, si verificò un ammutinamento di alcune compagnie del 1° e 7° reggimento tirailleurs sénégalais, inquadrati sotto la bandiera francese, a causa delle pessime condizioni degli alloggiamenti militari; l’episodio fu invece letto come un segnale di sfida al potere coloniale, e dopo due giorni di attesa, il ° dicembre i soldati francesi che montavano la guardia al campo aprirono il fuoco sui loro commilitoni africani, uccidendone circa 300. Un massacro inutile e crudele, che provocò una lunga ondata di risentimento contro la Francia, poi confluita nel movimento per l’indipendenza.

Il dopoguerra di Dakar
Con la fine della Seconda guerra mondiale, le potenze europee pianificarono la dismissione delle colonie in asiatiche e africane, e fra il 1959 e il 1960 Dakar fu la capitale della Federazione del Mali, Stato federale ispirato alle teorie di Cheikh Anta Diop; al suo scioglimento, Dakar divenne la capitale del Senegal indipendente, che il primo presidente del Paese, il poeta e filosofo Léopold Sédar Senghor, cercò di trasformare nell’Atene dell’Africa sub-sahariana, promuovendo l’apertura di musei e istituti dedicati allo studio e alla valorizzazione della cultura africana, purtroppo oggi non troppo ben tenuti e quindi depotenziati. Dai primi Anni Sessanta, pur con parentesi di attenuazione delle libertà democratiche, il Senegal ha comunque conosciuto una stabilità interna (con l’eccezione del movimento separatista nella regione della Casamance) che ha permesso un pacifico e discreto sviluppo, del quale ha beneficiato anche Dakar, divenuta importante centro finanziario dell’Africa Occidentale, sede di una dozzina di banche nazionali e regionali (fra cui la Banca Centrale degli Stati dell’Africa occidentale che gestisce la valuta unificata del franco CFA) e di numerose organizzazioni internazionali. Ma da questo sviluppo, nella realtà Dakar ha ricevuto poco. E la corruzione che sotto la presidenza di Abdoulaye Wade ha raggiunto l’apice, ha certamente contribuito a diffondere nel popolo un clima di profonda sfiducia.
La Dakar contemporanea
Una certa, relativa vivacità la si trova nella scena artistica che, dagli Anni Novanta, con la nascita della pur controversa Biennale, è nata in città, e in cui si muovono sia gli artisti della diaspora (formatisi però in Europa e che con il Senegal hanno ormai poco a che fare) sia quelli che hanno scelto di compiere i loro studi e di continuare a lavorare in patria; gallerie e spazi indipendenti sono molto attivi nella promozione dell’arte, il cui mercato è però costretto a guardare all’Europa, perché l’interesse su scala locale è ancora oggi limitato, e del resto le priorità devono, purtroppo, essere necessariamente altre. Inoltre, l’incuria e la speculazione edilizia hanno distrutto circa metà del patrimonio architettonico coloniale di Dakar, che aveva comunque il suo pregio di estetica e funzionalità, e fra gli esempi più interessanti sono ancora visibili la stazione ferroviaria e l’ex municipio, convertito in centro culturale.
Dakar è una città dalla bellezza ferita e, come il Senegal e gran parte dell’Africa, è ancora in attesa di una presa di coscienza che permetta il riscatto definitivo dei suoi abitanti; una spinta che può venire soltanto dall’interno.

La spiritualità di Dakar
I principali edifici sacri sono moschee, in quanto il Senegal è Paese a schiacciante maggioranza musulmana, grazie ai contatti con mercanti berberi che già attorno al 1200 introdussero l’Islam in Africa Occidentale; la Moschea della Divinità sorge direttamente sull’Oceano Atlantico, sulla Corniche-Ouest nel sobborgo di Ouakam, e dall’alto dei suoi due minareti si può apprezzare una splendida vista della costa e dell’entroterra. Costruita fra il 1992 e il 1997 dal mistico musulmano Mouhamed Seyni Gueye e dalla comunità Naby Allah (confraternita sufi dell’Islam africano), vanta una cupola sospesa in cemento armato del peso di oltre 80 tonnellate; il minbar (pulpito) e i serramenti sono stati realizzati da falegnami ed ebanisti della comunità Naby-Allah, che hanno prestato la loro opera a titolo gratuito. La Grande Mosquée, invece, inaugurata nel 1964, è stata costruita con fondi messi a disposizione dal re del Marocco Hassan II. Di architettura arabo-andalusa, la moschea ha un minareto alto 67 metri ed è riccamente decorata, sia all’interno sia all’esterno. Dal 1974 ospita l’Istituto Islamico di Dakar, importante centro per l’insegnamento e la ricerca sull’Islam; e il 9 ottobre 2004 è stata inaugurata la biblioteca, donata dal principe saudita Nayef bin Abdulaziz Al Saud. Retaggio dell’epoca coloniale, la Cattedrale di Notre-Dame-des-Victoires (o du Souvenir africain) è la più grande chiesa cattolica di Dakar; sorge sul sito di un vecchio cimitero del popolo Lebu, un luogo appositamente scelto da Hyacinthe-Joseph Jalabert, undicesimo vicario apostolico del Senegal, affinché i defunti di tutta l’Africa vi siano simbolicamente riuniti e onorati. Progettata nel 1924 dall’architetto Charles-Albert Wulffleff, fu inaugurata il 31 marzo 1929. Lo stile architettonico s’ispira a molteplici fonti: i due campanili ai lati della facciata sono in stile neo-sudanese, le cupole e le terrazze richiamano l’arte bizantina, i quattro angeli monumentali che sormontano il portico d’ingresso hanno le fattezze delle giovani donne Fulani e furono scolpiti nel 1936 dall’artista africanista francese Anna Quinquaud. Qui, nel 2001, sono stati celebrati i funerali dell’ex presidente Léopold Sédar Senghor.

L’arte contemporanea di Dakar
Tra una Biennale che nel 2026 spegnerà 30 candeline, spazi culturali indipendenti e gallerie, Dakar presenta una scena artistica fra le più sviluppate dell’Africa Occidentale.
La Biennale di Dakar
Concepita nel 1989 come una biennale che alternava letteratura e arte, dal 1996 è diventata una mostra specificamente dedicata all’arte contemporanea africana. Pur sostenuta dal governo senegalese, con la presidenza del discusso e controverso Abdoulaye Wade, la Biennale ha perso parte del suo carattere di laboratorio di riflessione sulla cultura e la società africana, per diventare un appuntamento legato al mercato dell’arte occidentale, con una qualità non sempre necessariamente pari al prezzo. Pur restando ancora una grande manifestazione in cui si possono vedere opere di artisti interessanti (ma sempre lasciati ai margini), la Biennale è lo specchio delle grandi contraddizioni in cui la città di Dakar e l’intero Senegal vivono dal 1960, e che da allora si sono aggravate, a causa della mancanza di un vero progresso civile che potesse creare nel popolo senegalese la consapevolezza di essere libero e una dignità da spendere nei confronti del resto del mondo. Dei tanti principi, dall’ecologia all’uguaglianza alla “coscienza africana” che vengono trattati nelle varie mostre della Biennale, solo una piccola parte si traduce in realtà; lo dimostrano purtroppo il grado di degrado, abbandono e sporcizia in cui versano le sedi della Biennale stessa, le condizioni di sporcizia e povertà in cui vive gran parte della popolazione di Dakar, lo sfruttamento delle risorse del Paese da parte di grandi compagnie straniere. L’edizione 2024, chiusasi il 7 dicembre, s’intitolava The Wake, e intendeva documentare una situazione di piena consapevolezza della propria cultura e dei propri diritti da parte delle popolazioni africane; ma appunto la situazione reale dimostra che il risveglio, anche per gravi responsabilità dei poteri stranieri, è ancora lontano dall’essere realtà. Visitare la Biennale è quindi istruttivo per superare le immagini da cartolina con cui da Parigi e dintorni si continua a illudere gli africani.

La scena indipendente a Dakar
RAW Material Company
È un centro culturale attivo nella pratica curatoriale, nell’educazione artistica, nelle residenze, nella produzione di mostre. Attraverso un programma transdisciplinare, che si ispira a letteratura, cinema, architettura, politica, moda, arte, RAW promuove la crescita della creatività artistica e intellettuale in Africa. Del progetto fanno parte anche RAW Academy, un programma sperimentale per la ricerca e lo studio della pratica e del pensiero artistico e curatoriale, e RAW Base, una ricca collezione di libri, film, giornali e altre risorse specializzate in arte contemporanea, con particolare attenzione alle pratiche, alle idee e alle opere provenienti dal continente africano.
Villa 2A, Zone B
OH Gallery
Nel cuore del Plateau, centro storico della città di Dakar, OH Gallery, fondata da Océane Harati nel novembre 2018, ospita mostre monografiche e collettive di artisti noti ed emergenti dell’Africa occidentale, e organizza vari eventi anche in altri spazi cittadini, con l’obbiettivo di stabilire forti legami con la scena culturale cittadina per costruire un fattivo dialogo critico.
143 Avenue Lamine Gueye
Selebe Yoon
Nel centro di Dakar, Selebe Yoon è una galleria d’arte contemporanea e una residenza artistica e curatoriale fondata da Jennifer Houdrouge nel dicembre 2020. Il programma è scandito da grandi mostre tematiche e monografiche con artisti della generazione più giovane e figure di spicco del periodo postcoloniale. Momenti di ricerca dedicati a discipline parallele in collaborazione con storici dell’arte, curatori e architetti, accompagnano le mostre e diventano oggetto di presentazioni in una delle nostre sale espositive.
Rue Parchappe

Dakar in quattro musei
Musée des Civilisations noires
Inaugurato il 6 dicembre 2018, occupa un edificio circolare ispirato alle capanne ad impluvio della Casamance ed è stato concepito con l’obbiettivo di evidenziare il contributo dell’Africa allo sviluppo del patrimonio culturale e scientifico di tutto il mondo, ad esempio con il fatto che la lavorazione del ferro è stata scoperta in Africa 2.500 anni prima di Cristo, mentre in Medio Oriente e in Grecia sarebbe comparsa mille anni più tardi. La collezione, di circa 18mila pezzi, è composta da abiti, utensili d’uso quotidiano, armi, gioielli, oggetti decorativi.
Museo delle Donne Henriette-Bathily
Ideato nel 1987 dal regista Ousmane William Mbaye e aperto nel giugno 1994, fino al 2014 era situato sull’isola di Gorée, per essere poi trasferito in città, in Place du Souvenir africain, nel 2015. È dedicato alle donne senegalesi, e rende omaggio al loro importante ruolo sociale attraverso una piccola collezione di oggetti d’uso quotidiano del periodo coloniale, abbigliamento, gioielli, attrezzi agricoli, strumenti musicali, ceramiche. Una sezione è specificatamente dedicata a quelle donne contemporanee che si sono distinte sulla scena culturale senegalese, fra cui la cantante jazz Aminata Fall. Il piano terra ospita mostre temporanee, rinnovate ogni sei mesi, su varie questioni femminili, contribuendo al percorso dell’emancipazione femminile che purtroppo non è ancora completamente concluso.
Museo d’arte africana Théodore Monod
Aperto nel 1938, è uno dei più antichi musei d’arte dell’Africa Occidentale; istituito come museo etnografico annesso all’Università Cheikh Anta Diop e all’Institut fondamental d’Afrique noire (un istituto di ricerca in materia di scienze sociali e fisiche, fondato dal governo coloniale francese), dopo il 1960 fu ampiamente promosso da Léopold Sédar Senghor, il primo presidente del Senegal, che ne intuì il potenziale di strumento di valorizzazione dell’identità africana. È ancora oggi il principale centro di ricerca etno-culturale sulle ex-colonie dell’Africa Occidentale Francese, e custodisce un’importante collezione di circa 9mila oggetti (di cui circa 300 esposti permanentemente) fra maschere, statuette votive, ceramiche, cesti in vimini, tessuti e strumenti musicali.
La Casa degli Schiavi
La Casa degli Schiavi e la sua Porta del Non Ritorno, patrimonio UNESCO dal 1978, sono insieme museo e memoriale delle centinaia di migliaia di vittime della tratta degli schiavi sull’isola di Gorée. Aperto nel 1962, è stato curato da Boubacar Joseph Ndiaye fino alla sua morte nel 2009. Costruita nel 1776, la Casa degli Schiavi apparteneva ad Anne Pépin, una donna meticcia che possedeva diverse navi e partecipava alla tratta degli schiavi; questi, prima di essere imbarcati, venivano rinchiusi in celle buie (ancora visibili) e incatenati al pavimento; molti di essi morivano ancora prima di essere deportati. Dagli Anni Ottanta del Novecento vari studi accademici hanno ridimensionato il ruolo che l’isola ha avuto nella tratta atlantica degli schiavi, tuttavia il suo significato non viene meno, in quanto memoriale di tutti gli africani, uomini e donne, adulti e bambini, che da tutta l’Africa sono stati deportati, sfruttati e uccisi nelle piantagioni del Centro e del Nord America. Secondo l’ex Presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, che l’ha visitata nel 2013, Gorée è “un testamento per capire cosa può succedere quando non siamo vigili nel difendere i diritti umani”.

I volti di Dakar
Cheikh Anta Diop (1923-1986), considerato con Théophile Obenga e Asante Kete Molefe uno degli ispiratori della corrente dell’afrocentricità, già nel 1947 cominciò la sua attività politica per l’indipendenza dei Paesi africani e quando si laureò alla Sorbona nel 1951, lo fece con una tesi in cui affermava che la civiltà dell’Antico Egitto era stata anche espressione di una cultura nera africana. Segretario generale del Movimento Democratico Africano dal 1950 al 1953, denunciò in un articolo pubblicato su La Voix de l’Afrique noire, come l’unione coloniale francese fosse sfavorevole agli interessi degli africani. Fino al 1960 lottò per l’indipendenza dell’Africa e del Senegal e contribuì alla politicizzazione di molti intellettuali africani in Francia. In quell’anno, pubblicò quella che sarebbe diventata la sua piattaforma politica: Le basi economiche e culturali di un futuro Stato federale nell’Africa nera. Nel 1966 si distinse nel corso del primo Festival Mondiale delle Arti Nere a Dakar, come l’autore africano di maggiore impatto sulla cultura del XX Secolo, perché aveva svolto, e continuerà a svolgere, un ruolo fondamentale nel rivoluzionare lo studio delle civiltà africane e nello smascherare i pregiudizi culturali che fino allora erano considerati verità scientifica. Scomparve prematuramente nel 1986.
Madjiguène Cissé (1951-2023), è stata un’attivista e portavoce del movimento degli immigrati clandestini. Dopo il diploma liceale, nel 1972 studiò tedesco all’Università di Dakar, e nel 1974 continuò il suo percorso accademico a Saarbrücken grazie a una borsa di studio. Rientrata a Dakar insegnò il tedesco in un liceo cittadino, poi nel 1996 si trasferì a Parigi, dove si unì al movimento emergente dei sans papiers e ne divenne portavoce. Il 28 giugno partecipò con circa 300 migranti all’occupazione della chiesa parigina Saint-Bernard-de-la-Chapelle, a scopo di sensibilizzazione dell’opinione pubblica. Rientrata a Dakar nel 2000, vi fondò la Women’s Network for Sustainable Development in Africa per migliorare le condizioni di vita delle donne attraverso l’istruzione, il microcredito e alloggi protetti, che ancora oggi sostiene ogni anno migliaia di donne senegalesi.
Youssou N’Dour (1959). Attivo nel campo musicale, è considerato il re del Mbalax, un genere musicale senegalese, nato dai griot dell’etnia Wolof, in origine accompagnato con il sabar, uno strumento a percussione tradizionale. N’Dour vi ha aggiunto strumenti moderni quali chitarra, basso elettrico e tastiere, lanciando questi ritmi nel resto del mondo e guadagnando collaborazioni con artisti di fama internazionale come Peter Gabriel, Paul Simon, Manu Dibango, Alan Stivell. Cantante impegnato, Youssou N’Dour organizzò nel 1985 un concerto per la liberazione di Nelson Mandela allo Stade de l’Amitié di Dakar. Ha anche organizzato diversi concerti a beneficio dell’organizzazione umanitaria Amnesty International. Vincitore di un Grammy Award per il suo album Egypt del 2005, N’Dour è stato Ministro della Cultura e del Turismo del Senegal fra il 2012 e il 2013, prima di essere nominato consigliere culturale del presidente Macky Sall.
Boubacar Boris Diop (1946), Consulente tecnico al ministero della Cultura senegalese, è stato professore di letteratura e di filosofia per circa un decennio e ha esordito nella scrittura nel 1981. Nel 2000 ha ricevuto il Grand prix littéraire d’Afrique noire. Fondatore di Defuwaxu.com, l’unico quotidiano online in lingua wolof in Senegal, e di EJO, casa editrice con sede a Dakar che pubblica testi scritti in dialetti africani, Diop è impegnato da tempo nella riscoperta delle lingue africane minori. In Italia è stato pubblicato Murambi, il libro delle ossa (E/O), risultato dal progetto Rwanda: écrire par devoire de mémoire, cui Diop ha partecipato con altri nove intellettuali africani, allo scopo di raccogliere materiale sul genocidio del 1994.
Niccolò Lucarelli
Libri consigliati:
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati