Giubilinus. Linus compie 50 anni
L'aprile 2015 è stato punteggiato da una miriade di rievocazioni dell'aprile 1965, celebranti il cinquantenario della seminale rivista “Linus”. La quantità e la qualità degli amarcord, anche eccellenti, dà da pensare: a quanto pare, se a suo tempo non fosse nato questo mensile, la cultura italiana oggi sarebbe diversa.
Più di una generazione è stata influenzata dalle pagine della rivista dei Peanuts & Co. Ma in particolare chi se l’è trovata sul proprio cammino di giovane e adolescente negli Anni Sessanta sa di doverle molto, se non moltissimo. La quasi totalità di “intellettuali” italiani oggi 60-70enni, se ha lavorato e ancora lavora nei settori dell’immagine e della creatività, sa bene chi incolpare soprattutto per le proprie scelte di vita sciagurate e meravigliose. Linus, con svagata nonchalance, è stata l’istitutrice puntigliosa e indimenticabile di migliaia (non scherziamo) di anime irrequiete che sulle sue pagine hanno appreso le migliori curiosità.
Quando è uscita nelle edicole italiane, così diversa da tutto quanto l’aveva preceduta, ha rappresentato un fulmine a ciel sereno. Non si poteva non notarla, a partire dalla grafica di copertina, così elegantemente preminimalista e allo stesso tempo deliziosamente ed esplosivamente pop. Se poi la sfogliavi, venivi sommerso e catturato da una galassia di suggestioni inaudite, non solo visive. Ti parlava di fumetti e illustrazione, sì, finalmente come se fossero cose serie e importanti; ma anche di umorismo, cinema d’animazione, cinema, teatro, letteratura, musica, società in cambiamento, tutto con un’allure sempre coinvolgente, proprio in quanto all’apparenza distratta ma sempre intelligente e incuriosente. Ti indicava e consigliava il nuovo e il meglio che si poteva trovare nel mondo in quel momento. Mese dopo mese ti insegnava tanto, tantissimo, senza parere. Ti faceva sembrare tutto appetitoso, stimolante, eccitante. Erano anni fantastici, d’accordo, in cui il mondo stava cambiando velocemente ovunque, ma tutto quello, nella sonnolenta Italia democristiana, se non te lo raccontava Linus non te lo raccontava nessun altro.
All’origine di questo miracolo di briosa intelligenza v’era un manipolo di eroi, oggi quasi tutti involatisi nel Walhalla che li accoglie con doverosi sfavillii. È storia, o leggenda, e forse ormai quasi mito, squisitamente milanese. Si ricorda pertanto, incisa a lettere di fuoco, la precedente fatidica nascita in via Verdi, di fianco alla Scala, della tuttora viva e vegeta libreria Milano Libri, con al centro i begli occhi chiari e splendenti di Annamaria Gregorietti in Gandini. E tutt’intorno volteggianti, prima lì stesso e poi nella vicina via Spiga ancor felicemente non invasa dai barbari del fashion, su tutti suo marito Giovanni (il giocherellone visionario più indispensabile alla nascita del Sacro Evento), e in ordine sparso il fratello di lei e cognato di lui Salvatore Gregorietti (graphic designer di scuola svizzera, appunto fedele adepto del culto dell’Helvetica) e gli amici di sempre Ranieri Carano (timido scapolone non-avvocato di ampie conoscenze e frequentazioni culturali soprattutto mitteleuropee), Franco Cavallone (elegantissimo notaio con strepitose orecchie da elfo, pure lui rigorosamente celibe, sfarfallante regolarmente tra Londra e New York) col più defilato fratellone Bruno, e infine Guido Crepas (anzi vezzosamente Crepax, non-architetto disegnatore di copertine di dischi Ricordi come di sontuosi wargame da tavolo). Invece i sempre citati Umberto Eco ed Elio Vittorini, in verità, passavano di lì abbastanza per caso. E il piccolo Oreste del Buono si sarebbe fatto avanti, con la sorniona determinazione che lo caratterizzava, soprattutto più tardi.
Dalla semplice amichevole collaborazione di quello sparuto plotoncino di amici è dunque nato e cresciuto, per gioco, diciamolo pure, un non trascurabile capitolo di storia culturale italiana. Giovanni Gandini, col suo nasone al vento e i suoi maglioni slabbrati e macchiati ma portati con incurante leggiadria, ne era il fulgido fulcro, ma i suoi compagnucci della parrocchietta non erano da meno. E si verificò quel mirabile fenomeno che altrove aveva messo insieme gruppetti di amici in nobile gara tra loro a fondersi in un tutto armonico, un po’ come quei quattro ragazzotti di Liverpool, o quei poetastri di San Francisco, o quei disparati pittori scalcagnati a Parigi qualche decennio prima. Ma qui eravamo a Milano: quella antica col cuore in mano, non quella futura da bere. Ed era una Milano ancora “provinciale” e meravigliosa, dove pur nel grigio smog ne succedevano ogni settimana di tutti i colori. Era la Milano – che sarebbe passata tutta per le pagine di Linus, salotto sempre pieno di altri amici in visita – di Giorgio Gaber ed Enzo Jannacci, di Franco Nebbia e dei Gufi, e dei primi inconcepibili Cochi e Renato, una Milano che voleva e sapeva ridere, e per farlo si inventava linguaggi espressivi nuovi.
La cultura del ridere, ecco la parola d’ordine. Ma che bei tempi, allora era più possibile e più facile, ci si credeva davvero, in gruppo, e senza problemi di coscienza. Linus era la capitale internazionale – e infatti fu ripetutamente copiata all’estero, a cominciare dalla famosa Charlie costola del pugnace gruppone parigino di Hara-Kiri – della Vita col Sorriso. Prima o poi ci arrivavano tutti i migliori del momento: Ralph Steadman dalla Gran Bretagna, Jean-Michel Folon dal Belgio, Bob Blechman dagli Stati Uniti, Jean-Claude Forest e Alain Resnais e Georges Wolinski dalla Francia… I soci fondatori, meneghini avventurosi, sguinzagliati per le capitali del gusto e dell’intellighenzia planetaria, riportavano in redazione – e da lì, tramite le pagine del giornale, nelle nostre camerette di sognatori – le meraviglie di quel mondo contemporaneo in fermento. Ma se li frequentavi a casa loro, non solo dagli angelici coniugi Gandini nel loro bell’attico di via Montebello, o dal caro notaio Cavallone nell’austero studio di via Annunciata, o nell’elegante rifugio del Neri Carano in corso Monforte, ma anche nei bar qualunque del centro, ti potevi ritrovare ora a bere con il parigino polacco Roland Topor o con il panico-ispanico Fernando Arrabal, ora a chiacchierare con il londinese asciutto Frank Dickens o con il leggiadro diavoletto argentino Raul Damonte detto Copi. Fumavano (fumavamo) ancora tutti, o quasi. Ma, galleggiando tra nuvolette di sigaretta e di sigaro, quello era un continuo paradiso trasversale di sorprese e di allegrie.
Tutto ciò, i primi anni. Poi, una volta che il mensile toccò l’inaudito apice delle 100mila copie vendute mensili, Gandini vendette la testata a Rizzoli, per entrambe le parti un affarone, e alla direzione subentrò l’abile e occhiuto Oreste del Buono. La fase due fu ricchissima e intelligentissima, ma noi nostalgici della prima ora continuiamo a preferire la precedente. Perché fu baciata dalla grazia dell’imprinting, evidentemente. Poi, certo, continuavamo a comprare Linus perché con i suoi innumerevoli supplementi continuava a essere un pozzo inesauribile di tesori. OdB si trincerava dietro una redazione tutta femminile retta dall’art director (e anche qualcosa in più) Fulvia Serra; ma intanto arrivavano, e andavano e venivano, tipetti imprescindibili come Andrea Pazienza e Hugo Pratt; e in un angolo c’era la silenziosa e bellissima Adriana Nodari, amore segreto di Hugo che la voleva sposare…
Altri tempi, davvero lontani. Quella di Linus è una storia – dolcemente ribellistica, ovvero democraticamente aristocratica e/o aristocraticamente democratica – anzitutto di persone speciali, personaggi scomparsi; in second’ordine di un tramontato metodo comunicativo, ludico e complice, che ti faceva crescere senza accorgertene, e col sorriso sempre sulle labbra; e infine di una città: Milano capitale, com’era ieri e come più non è stata, inevitabilmente (quantunque oggi, forse, paia riprendersi dopo lunga eclissi, e speriamo bene). Festeggiamo il giubileo di Linus, pertanto, da un lato consci di ciò che fu l’entusiasmo della giovinezza in rapporto a ciò che è il disincanto della maturata età, e dall’altro un po’ smarriti interrogandoci sulla differenza non irrilevante tra essere spiritosi e fare gli spiritosi, sperando di sbagliarci nel tirare delle conclusioni.
Ferruccio Giromini
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