Arte e critica contro la gentrificazione della mente
Una lunga chiacchierata con Michele Dantini attorno al suo nuovo libro. Dove si affrontano temi importanti sull’arte, la sua storia e i suoi intenti. E dove si smascherano parecchi luoghi comuni, legati alla dimensione pubblica della creatività.
Il titolo del tuo libro è Arte e sfera pubblica. Mai come oggi, almeno a parole, c’è un’attenzione spasmodica ai pubblici e alla loro inclusione. E tuttavia resta ancora irrisolta, se non acuita, la dicotomia fra un sapere specialistico (a sua volta diviso fra ambiente settoriale e mondo accademico) e quello che efficacemente Bonami ha sintetizzato nel “potevo farlo anch’io”. Mi sto riferendo all’arte contemporanea, ma è un problema che affligge le scienze umane nel suo complesso. Qual è la tua posizione in merito e come viene affrontata nel libro?
La sfida è tenere insieme complessità e chiarezza, conoscenze sottili e argomentazioni persuasive. Non c’è ragione perché al grande pubblico non debbano essere offerti gli esiti della migliore ricerca. Si tratta però di fare scelte di compostezza e fluidità espositiva. Dobbiamo rigettare i gerghi, le frasi fatte, i luoghi comuni manualistici e pubblicitari – dietro cui per lo più si nasconde un’inadeguata comprensione della cosa stessa – e imparare a rivolgerci a persone che non sono specialisti, anche se – è ovvio – verosimilmente sono interessate a capire e sono in possesso di una cultura generale.
Longhi parla dell’“attività letteraria” che è intrinseca alla critica d’arte e la completa. Non intende con questo niente di bellettristico né di vezzoso. Al contrario. Suggerisce invece che la scintilla può propagarsi e divampare solo se esiste una critica d’arte avvincente e perspicace. Solo in tal caso, infatti, trasferiamo conoscenze dal dominio visivo, fatalmente più vago e indeterminato, al dominio verbale. Le mettiamo a disposizione del più grande numero.
Restiamo al titolo: quella “e” fra arte e sfera pubblica come dobbiamo interpretarla?
C’è stato talvolta un fraintendimento attorno alla tesi generale del libro. Si è detto che l’arte è sempre pubblica, e che non può non esserlo. Ma questo è falso. Non credo che il problema della “pubblicità” dell’arte si risolva facilmente, per via burocratica, postulando l’esistenza di qualcosa come un’”arte pubblica” intesa come genere.
Come si dimostra questa tesi?
Esistono intere tradizioni, penso all’arte olandese e fiamminga del secondo Cinquecento o al rococò francese, che innovano proprio perché si rivolgono al raffinato consumo individuale: nel loro alveo l’opera d’arte è innanzitutto cosa “privata”. I pittori fiamminghi dipingono quadri di genere, spesso nature morte con cibi raffinati: il loro proposito è quello di trasformare il dipinto stesso in una ghiottoneria per l’occhio. Un grande quadro che Watteau dipinge tra 1720 e 1721, L’insegna di Gersaint, nasce come insegna della galleria d’arte che l’amico Gersaint aveva aperto a Parigi sul ponte di Notre-Dame. E istituisce un’equivalenza tra arte e moda che certo non sarebbe stata ammissibile in epoche diverse. Alle pareti della galleria di Gersaint vediamo appesi quadri di storia e religione che, forse per la rovina delle famiglie aristocratiche o degli Ordini religiosi cui erano appartenuti un tempo, sono finiti adesso sul mercato. Qui, in galleria, sono apprezzati non per l’insegnamento che impartiscono, ma per la sapidità della pittura. È qualcosa di completamente nuovo. A eccezione forse di Cézanne e Degas, il modernismo francese del secondo Ottocento rinvia a questa tradizione sensualistica e libertina.
E guardando all’oggi?
Anche l’attuale mainstream è un erede indiretto della frattura tra modernismo e arte di storia e religione, una frattura che Duchamp, ricordiamolo, non ha smesso di commentare. L’arte acquisisce dimensioni davvero pubbliche, del tutto a prescindere da generi, tecniche e stili, se si fa carico di motivazioni condivise e di quella che Michael Walzer chiama una “vocazione profonda” degli individui e della collettività. Quanta arte che oggi ama definirsi “pubblica” riesce a fare tutto questo? I rapporti tra l’arte e la dimensione “pubblica”, una dimensione etico-religiosa in definitiva, non si risolvono davvero con semplici autoinvestiture o classificazioni burocratiche. E più in generale: in che senso qualcosa che si autodefinisce sempre più come entertainment può attingere da dimensioni originariamente “pubbliche”?
Uno dei nodi problematici che individui nel libro è la separazione fra etica ed estetica. Si tratta di una riedizione, rivista e corretta, dell’intellettuale impegnato? E cosa può – o meglio: deve – fare quest’ultimo per trovare ascolto?
Lo è, ma a patto di formulare in modo radicalmente diverso la nozione di “impegno”. Impegno a favore di chi, di che cosa? Questa è la domanda. Credo che uno dei compiti prioritari oggi sia quello di tutelare l’ambito culturale dalla tirannia del pettegolezzo politico-mediatico. I media sembrano avere del tutto smarrito il proprio ruolo critico di “quarto potere”. Chi ricorda alle persone che ciò che più conta nell’esistenza di tutti e di ciascuno non è questa o quella dichiarazione più o meno congrua di questo o quel personaggio pubblico?
Anche l’indignazione, che così spesso ci assale e che spesso è ben plausibile, mi sembra comunque presa nella trappola del consenso: reifica invece di dereificare, per citare Baudrillard. Ribadisce, attraverso l’odio, la riduzione di tutto ciò che è Mondo all’ambito di ciò che è palinsesto politico-mediatico, “attualità” in senso deteriore, eterodirezione (o gentrificazione) della mente. In questo senso ritengo che “impegno” sia una parola equivoca; e che la cultura debba sì mantenere un rapporto di profonda responsabilità nei confronti della storia del proprio tempo, ma alle proprie condizioni. Questo rapporto deve avere la libertà di manifestarsi in modo anche indiretto.
La “e” di Arte e sfera pubblica è un ponte gettato, un compito a venire, una difficoltà e un azzardo. La congiunzione dei due ambiti non è data una volta per tutte, né è semplicemente presupposta, ovvia e a portata di mano: si dà solo, nei casi in cui si dia, al termine di qualcosa come un’anamnesi.
La figura di Roberto Longhi, che citavi poc’anzi, è cardinale nella tua riflessione, naturalmente accanto ad altre. In lui trovi un esemplare grimaldello per far interagire storia dell’arte e storia della cultura. In che modo questa apertura si può configurare oggi? E con quali obiettivi?
Non direi che è Longhi la figura cui faccio più riferimento per discutere il problema della storia culturale, tuttavia Longhi partecipa senza dubbio alla conversazione che allestisco, nel libro, attorno a determinati temi e, tra questo, al rapporto tra storia dell’arte e storia della cultura. Il primo atteggiamento di Longhi, in merito, è di rifiuto: per più versi, semplificando e rinunciando a periodizzare, potremmo dire che Longhi è l’anti-Panofsky.
Tuttavia, al di là dell’idiosincrasia dei suoi eredi italiani e francesi per tutto ciò che non sia filologia attributiva, è chiaro che Longhi si confronta stabilmente, se non con Gentile, certo con il Croce storico e alcuni grandi storici della cultura non italiani, tra cui Huizinga, che cita. Il problema impostato da Longhi nelle Proposte per una critica d’arte, apparse nel 1950, è quello di un oltrepassamento della storia dell’arte (intesa come mera connoisseurship): oltrepassamento che sia però rispettoso della specificità delle immagini e di tutto quanto esse hanno da raccontarci nel modo in cui desiderano raccontarlo.
Chiariamo questo punto, questo oltrepassamento rispettoso.
Un’opera d’arte accoglie già al proprio interno, per Longhi, magari tra piega e piega, quel Mondo, quella “totalità” che uno storico della cultura desidera ricostruire. Non si tratta dunque di ricondurre le immagini a ciò che già sappiamo di una determinata epoca o periodo, a una storia culturale di cui esse finiscano per essere la mera illustrazione. Ma di riconoscere nelle immagini, attraverso un accorto studio dei documenti e della letteratura critica e persino al di là di esso, tutto quanto occorre a una storia della cultura sui generis, centrata sull’opera d’arte e su quanto, in essa, è di più singolare e inatteso. Trovo che la polemica di Longhi contro le genericità e i “paralleli” (filosofici, sociologici ecc.), il suo senso del dettaglio e della concretezza storica, possano esserci estremamente preziosi, soprattutto se usati come reagente.
Quando leggo un sociologo della cultura come Groys mi stupisco che si pretenda di commentare questa o quella immagine, questo o quel movimento dimostrando una simile indifferenza a ciò che, nell’immagine, smentisce il luogo comune storiografico. Ma non è proprio questo, nell’immagine – l’ereticità intrinseca, il rifiuto opposto alla proliferazione del discorso secondario, la dimensione numinosa – a attrarci in sommo grado? Certo, occorre prima che questa immagine sia un’opera d’arte. Vogliamo ammansirla così, trarne glossa e commento innecessario, farne una sorta di cristallizzazione del già detto? Mi sembra del tutto sbagliato. Ecco, dal punto di vista di Longhi, l’importanza dell’ecfrasi, l’obbligo dell’aderenza.
Ecfrasi che qui non è meramente descrittiva…
Certo che no. L’ecfrasi longhiana non è la semplice descrizione di ciò che già sempre vediamo in un quadro, in una scultura o altro. È invece una tecnica posta al servizio della memoria storico-artistica del conoscitore, al servizio di un particolare tipo di avvistamento. Lungamente preparata, questo particolare tipo di ecfrasi, l’ecfrasi veggente vorrei dire, libera la metafora racchiusa nella “forma” (nel “visibile” dell’opera d’arte) e ripercorre a ritroso il processo creativo attingendone la scaturigine. Questa è una metafora, appunto: né solo visiva né solo verbale.
Già che ci siamo: mettiamo un punto fermo su una distinzione che solo a prima vista pare accademica, quella che riguarda la differenza fra iconografia e iconologia?
L’iconologia delle origini, nella prospettiva di Warburg, più ancora di Panofsky e in parte Wind, è una sorta di teologia critica: lambisce un’ermeneutica storica a sfondo metafisico-religioso anche se prevede, o meglio impone, le più scrupolose verifiche ex post sui documenti d’archivio e la tradizione interpretativa. In questo senso, in maniera molto originale ancorché intrinsecamente conflittuale, dialoga da una parte con il Thomas Mann delle Considerazioni di un impolitico, le cerchie degli storici della “Germania segreta”, la riflessione teologico-politica (che cerca di ammansire negli aspetti più eversivi o tout court reazionari) e l’ermeneutica heideggeriana, con cui tuttavia polemizza; dall’altra con la filologia antiquaria di tradizione positiva.
In seguito all’esilio americano, Panofsky trasforma radicalmente la propria prospettiva. Non va più in cerca delle componenti “demoniche” o numinose dell’immagine e si distacca dagli aspetti metafisico-religiosi delle origini. Se nel periodo tedesco aveva talvolta cercato nella grande opera d’arte una legislazione di ordine superiore, adesso l’iconologia diviene iconografia, cioè erudizione antiquaria, metodo positivo. E ciò che è specificamente visivo perde il suo primato ermeneutico a favore di ciò che è verbale. Vince la più minuta (e a tratti sin troppo dottrinaria) ricostruzione dei testi e delle fonti filosofico-letterarie. Negli allievi americani (e non solo) di Panofsky si impone la convinzione che fare storia della cultura equivalga a tracciare “paralleli” storico-culturali (ad esempio tra cattedrali gotiche e filosofia scolastica). È curioso che quanti oggi, come Georges Didi-Huberman, contestano a Panofsky (con qualche declamatoria rozzezza) l’eccessivo razionalismo e gli imputano di aver tradito Warburg non si avvedano che tutto questo può essere forse rimproverato al Panofsky americano e presuppone tragici avvenimenti storici, come la persecuzione antiebraica e l’esilio; non certo al Panofsky tedesco, che, a cavallo tra Anni Venti e Trenta, si muove ormai verso direzioni non più riconducibili, quanto a teoria dell’immagine e teoria della storia, alla filosofia della cultura di Cassirer.
In epoca di sovranismi esasperati, come leggere le tradizioni nazionali e continentali della critica d’arte? Detto altrimenti: come si può valorizzare la coerenza di una scuola senza offrire il destro a strumentalizzazioni addirittura xenofobe? Sembrerebbe questa una esagerazione, ma l’esempio di Heidegger è un campanello d’allarme che dovrebbe sempre essere presente.
La correlazione tra cosmopolitismo e “nazione” entra in crisi nel secondo Ottocento: qui la nazione si scopre diffidente, superba, bellicosa. In precedenza, per tutta l’epoca romantica e all’epoca delle rivoluzioni del 1848, non è così: basti pensare a Mazzini, per cui “nazione” è sinonimo di amicizia universale. Possiamo risalire ancora indietro: pensiamo a Goethe o ad Alexander von Humboldt ad esempio, per cui tra Illuminismo da un lato, eredità culturale tedesca dall’altro non esiste conflitto, nel nome della poesia, dell’arte e delle scienze naturali. L’appartenenza è sempre ambivalente: sta a noi orientarla al riconoscimento e all’inclusione. Al tempo stesso non possiamo ignorare l’importanza di motivazioni profonde, che rinviano a una o più comunità di cui ci sentiamo parte; e a una storia rivendicata e condivisa.
La fragilità dell’arte italiana più recente, non ho dubbi, è da ricercare nel deficit di vera cittadinanza e vera “partecipazione”, che spinge a imitare in modo precipitoso e irriflessivo tutto ciò che si fa altrove proprio perché viene fatto altrove. Vorrei dirlo in modo chiaro: non è così, per via di esotismo o di esterofilia subalterna, che si prende parte a una conversazione cosmopolita. E mi chiedo, per venire alla questione più ampia e generale dello stato delle nostre istituzioni politiche e civili: si può essere solleciti o solidali gli uni con gli altri, curanti della legge, se non esiste alcun vero senso di coesione, nessun vincolo reciproco accettato in nome di un’origine e di una destinazione comune? Temo di no. Non è un problema di “narrazione”: sarebbe sciocco pensarlo. Il diritto da solo non motiva al rispetto della legalità: da qui la mia riflessione sulla “nazione culturale” nella sua differenza dalla “nazione politica”. Al netto di talune eccezioni davvero rilevanti – ho fatto più volte alcuni nomi – l’arte italiana contemporanea manca di una sua “nazione culturale”: perciò appare un po’ inutile e solipsistica o (come è stato detto di recente da Okwui Enwezor) pavida.
La seconda parte del libro conta tre saggi dedicati rispettivamente a Duchamp, Le Corbusier e Manzoni. Perché proprio loro?
Il Grande Vetro di Duchamp è un’opera chiave per l’intero Novecento perché inaugura un tempo di attesa: è un’allegoria del processo creativo, di cui stabilisce condizioni, requisiti, complessità. Secondo l’intenzione stessa di Duchamp, non è un’“immagine” compiuta e definitiva, dispiegata nella sua perfezione immodificabile. Non è quel “capolavoro” che potremmo attenderci. È invece un’indagine preliminare, una fiaba figurata, se si preferisce, che racconta come e quando nasce il capolavoro e un’intera epoca giunge a rispecchiarsi nello stile di un artista. Ora, se consideriamo la meticolosità e l’accortezza con cui Duchamp sceglie e forgia le sue metafore – tutto, nel Grande Vetro, è metafora: macchine, Sposa, Celibatari; e ciascuna metafora ha la sua tradizione letteraria e figurativa dietro di sé –, comprendiamo che il suo modo di procedere non è poi così diverso da quello dei grandi storici e critici cui dedico i primi capitoli. Le distinzioni tra arte e critica sfumano; il processo creativo accoglie al suo interno le più sofisticate risorse logico-analitiche. E viceversa. In altre parole: la differenza tra artista, ricercatore, filosofo, grande studioso o saggista smette di essere davvero rilevante quando le parole o le e immagini si confrontino con ciò che Baudelaire chiama “l’Inconnu”.
Qualcosa del genere, a più livelli, possiamo dire di Manzoni, in particolare se ci riferiamo agli Achromes del triennio 1957-59.
E per quanto riguarda Le Corbusier?
La scelta di Le Corbusier ha motivi diversi e risponde a propositi diversi, come pure l’ultimo capitolo dedicato all’arte italiana postbellica. Presento Le Corbusier come l’antenato di determinate forme di Land Art americana. Questo mi permette di osservare da vicino determinate continuità solitamente trascurate e di sfidare sul suo stesso terreno, se si vuole, un certo nazionalismo storiografico americano.
Come consideri la posizione degli artisti in quest’epoca altamente finanziarizzata? C’è ancora posto per una est-etica?
La “differenza” etica, culturale, “antropologica” dell’artista, rivendicata ancora dalle neoavanguardie degli Anni Sessanta e Settanta, oggi appare dilapidata, e non è semplice capire come ricostruire un’autorevolezza smarrita. È poi necessario? Potremmo supporre che occorra perfino contestare i limiti del territorio riconosciuto come “arte contemporanea”. Se cercassimo altrove il punto di intersezione tra pratiche estetiche e “necessità”, sul piano ad esempio dei conflitti per la legalità, lo studio e il lavoro qualificato, la difesa dell’ambiente? Nell’ambito della conoscenza e della trasmissione dei saperi?
Non sta scritto da nessuna parte che la produzione di oggetti luccicanti e dispendiosi sia criterio vincolante per la definizione di ciò che è “arte”; e forse possiamo senz’altro concepire un mondo “senza” arte ma con molta ricerca formale e informale; più equilibrato, empatico e retto da processi collaborativi. Ancora una volta, per citare Carla Lonzi e ripeterne la domanda fondamentale (domanda che echeggia il Nietzsche della Gaia scienza, forse senza saperlo): chi è oggi l’artista?
Al termine del libro c’è una sequenza di dieci “recensioni” ad altrettanti libri. È una procedura piuttosto atipica per un volume del genere. Lo dobbiamo considerare come una specie di canone suggerito dall’autore?
È solo in parte un canone (alcune inclusioni, come quella di Zygmunt Bauman, rispondono alla necessità di dissolvere distorsioni interpretative o editoriali; non a mie preferenze personali) e non sono recensioni, nel senso che sono saggi brevi, con l’ambizione di catturare una complessità e di chiuderla in un testo rapido e ricco di metafore aderenti. Diciamo pure, per iperbole, una sorta di “poemetto in prosa” trasferito all’ambito (non lirico ma storiografico) della storia della cultura. Quella della complessità nel testo breve è una sfida primaria per chi fa ricerca. Non tutti, oggi, sono in grado di sostenere immediatamente e per lungo tempo lo sforzo di un’attenzione focalizzata, indispensabile a una lettura profonda. Chi di noi non fa multitasking? Ecco che il testo breve, se congegnato in modo strategico, può costruire un ponte tra i tempi della chatroom e quelli del saggio scientifico. In ogni caso mi sembra evidente che abbiamo necessità di oltrepassare l’angusto specialismo accademico attraverso uno specialismo di grado superiore, che dispieghi chiarezza e complessità al tempo stesso. E che, anche per affrontare imponenti mutamenti demografici e sociali, dovremmo sforzarci di formare buoni storici della cultura occidentale, in grado di estendere e spiegare.
C’è molto moralismo di seconda o terza mano attorno ai temi della storia dell’arte, oggi in Italia. E ovviamente c’è l’impressionante analfabetismo figurativo delle classi dirigenti. Personalmente ritengo che studiare le immagini sia un ottimo esercizio per autoeducarci al rigore e imparare a dare nomi differenziati alle cose. Storia e critica d’arte, se ben fatte, sono una formidabile scuola di argomentazione persuasiva. Ci aiutano a maturare “emozioni” e a formularle in modo attendibile, accettando principi di pubblica controversia, ampliando e selezionando i nostri dizionari, cercando l’intesa. D’altra parte, senza consentire con Belting sull’opportunità di sacrificare lo “specifico”, non escludo che la storia dell’arte possa evolvere in futuro come sottodisciplina: specialismo ancillare (ma sovrano nel suo ambito) di una storia della cultura più sottile e molteplice, affrancata dal dominio del “verbale”.
– Marco Enrico Giacomelli
Michele Dantini – Arte e sfera pubblica
Donzelli Editore, Roma 2016
Pagg. 412, € 37
ISBN 9788868435387
www.donzelli.it
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