Costume e performance. Il primo libro di Donatella Barbieri
Il legame tra costume e pratica performativa è evidente ed essenziale. Eppure la letteratura su questo argomento è ancora piuttosto scarna. A giugno, la critica teatrale Donatella Barbieri farà il suo debutto nel mondo dell’editoria con un volume che approfondisce il tema del costume di scena attingendo dall’imponente archivio del Victoria and Albert Museum di Londra.
Non esiste performance senza costume. Sul palcoscenico, il costume guida il movimento, definisce il contesto, rivela il personaggio e il suo rapporto con gli altri. È parte integrante della performance e vi sopravvive negli archivi. Nel teatro contemporaneo, nel quale non sono insoliti abiti neutri o corpi nudi, anche l’epidermide si fa costume, ponendosi come veicolo di significati tra attore e audience nel microcosmo parallelo che ha origine dalla performance.
Nonostante la sua ubiquità, sul costume è stato scritto pochissimo. Non deve sorprendere quindi il fermento presente attorno al libro Costume in Performance, in uscita a giugno, dopo sei anni di incubazione.
Costume in Performance rompe il lungo silenzio della critica teatrale sul costume di scena e lo fa abbellendosi di circa duecento immagini prese dalle migliori collezioni museali di tutto il mondo. Il volume è scritto da Donatella Barbieri, Senior Research Fellow presso London College of Fashion (LCF), con la collaborazione di Melissa Trimingham, Senior Lecturer in Drama presso University of Kent, ed è pubblicato dalla casa editrice specializzata Bloomsbury Publishing.
Sei parole chiave, ovvero rito, coro, sublime, grottesco, empatia e autenticità, hanno fornito lo spunto per indagare il ruolo del costume, sia storico (e preistorico) sia contemporaneo, oltre a suggerire la struttura del volume, suddiviso in altrettanti capitoli. Ne abbiamo parlato con l’autrice.
L’INTERVISTA
Costume in Performance è il tuo primo libro. Ce ne racconteresti l’origine?
Il periodo che ho trascorso come ricercatrice presso il Victoria & Albert Museum, a seguito dell’assegnazione della borsa di studio da parte del museo in congiunzione con LCF, è stato sicuramente cruciale per questo progetto. In particolare lo è stato l’accesso ai suoi archivi, che mi ha permesso di studiare da vicino il costume, scoprendone le proprietà materiali, così da accertare la sua intercessione nella performance. Inoltre, ne ha risentito anche la selezione iconografica. Molte delle immagini riprodotte nel libro provengono infatti dagli archivi del V&A.
Questo volume costituisce una delle rarissime pubblicazioni in materia. Perché si scrive così poco sul costume di scena? Cosa ti ha spinto a interrompere questa afasia?
Il costume è stato visto innanzitutto come elemento che descrive il personaggio e influenza la recitazione del performer. E sì, raramente designer e accademici hanno scritto sull’argomento. Così, quando se ne discute, spesso il linguaggio non è incentrato sull’aspetto artigianale e materiale, e poche volte si evidenzia il suo legame con una performance specifica. Forse sono proprio la natura transitoria delle live performance e il budget all’osso, con il conseguente riciclo dei costumi fino a che non vengono definitivamente dismessi, a costituire un ostacolo ad ampliare la letteratura sull’argomento. Malgrado siano sempre presenti negli spettacoli, solo pochi costumi sopravvivono negli archivi. Ci si può comunque servire di altre risorse archivistiche per la ricerca, quali disegni, dipinti, stampe e fotografie.
E per quanto riguarda l’ambito contemporaneo?
Lo studio del costume contemporaneo presenta invece problematiche diverse. Se da un lato è più semplice accedere a designer, costumisti, attori e ai loro costumi, oltre che alla live performance, la mancanza di una prospettiva storica rende difficile una loro contestualizzazione. L’obiettivo di questo libro è quello di incoraggiare ulteriori riflessioni e sviluppi pratici, mettendo in luce i modi in cui il costume moderno e i suoi professionisti attingono da, ma anche sovvertono, la sua stessa storia.
Nonostante Costume in Performance sia una pubblicazione accademica, non dimentichi i professionisti del settore e la materialità del costume. Dico bene?
Sì. Io stessa provengo da un background pratico, in quanto costume designer, oltre a portare avanti anche una carriera accademica.
A mio avviso, la scarsità di materiale pubblicato finora in materia di costume design influisce innanzitutto sulla percezione dei costumisti. Parlandone poco, vien da sé che si finisce con lo sminuire la rilevanza del loro lavoro. Allo stesso tempo, però, trascurare lo studio di questa disciplina ridimensiona in negativo l’accesso al suo potenziale creativo. Quando ho fondato il master in Costume Design for Performance dieci anni fa, in via del tutto sperimentale, i miei studenti avevano a disposizione una bibliografia molto limitata e frammentaria.
Qual è il tuo obiettivo?
In questo libro cerco di collegare la teoria critica a numerosi esempi di costume storico e contemporaneo, mettendo in evidenza il loro complesso rapporto con la cultura, articolandolo sulla base di sei temi chiave affrontati in altrettanti capitoli. In sintesi, l’approccio d’indagine al costume interessa tre fronti: storico, tematico e critico.
In un tuo precedente progetto di ricerca al V&A, che ha portato alla realizzazione del video Encouters in the Archive, hai chiesto a sei partecipanti di interagire con dei costumi d’archivio. Quanto questo lavoro può essere visto come una preparazione metodologica a Costume in Performance?
In realtà sono due i progetti di ricerca di cui ha beneficiato la metodologia di questo libro. Encounters in the Archive è un video di 17’ girato al Blythe House del V&A, l’edificio nel quale sono raccolti e archiviati costumi e altri reperti storici della sezione “Teatro e Performance” del museo. Questo breve film esplora l’efficacia performativa inscritta nel costume attraverso le rimanenze d’archivio. Ho invitato i partecipanti, selezionati tra artisti e accademici, a “incontrare” specifici costumi della collezione. In mancanza del corpo dell’attore, i costumi d’archivio sono rivitalizzati e resi eloquenti dall’interazione con i partecipanti. Allo stesso tempo, l’esposizione a questi costumi storici andrà a informare la loro pratica e ricerca successiva. Ne ho ricavato la consapevolezza che le performance passate, di per sé immateriali, si possono analizzare e collegare tra loro attraverso le rimanenze d’archivio, in primis grazie ai costumi.
E qual è il secondo progetto di cui parli?
Nel libro, oltre a esempi storici, sono analizzate delle performance contemporanee. L’approccio a queste ultime ha beneficiato di una prospettiva metodologica che ho sviluppato in un progetto precedente, Designs for the Performer (2002-2005), una mostra itinerante. L’idea è stata quella di impegnare vari professionisti a riflettere su una loro produzione. Ne è risultata una mostra nella quale le didascalie che accompagnavano i costumi e vari documenti delle diverse produzioni di riferimento riportavano le parole dei designer. L’intento della mostra, e poi anche del libro, è stato quello di dare voce ai costumisti e dimostrare la profondità di pensiero che sta dietro alla loro progettualità.
Il costume di scena condivide con la moda la materia prima, il tessuto, e il suo supporto, il corpo. Eppure sono due discipline separate e distinte. Dove sta la differenza secondo te?
Questa differenza è discussa soprattutto nell’ultimo capitolo del libro, il Capitolo 6, attraverso l’analisi del costume inteso come incarnazione – o imitazione – del qui-e-ora o della storia. Questo capitolo sviluppa alcune suggestioni della storica della moda e curatrice Amy de la Haye, la quale, partecipando al progetto di ricerca Encounters in the Archive, ha indicato una “diversa performatività” all’opera nel costume di scena. Anche quando il costume è naturalistico, resta comunque mero artificio, in funzione della finzione. Questo è evidente in particolare quando è messo a confronto con un abito di moda, che può essere anche molto simile in apparenza.
Facendo leva su concetti chiave quali la nostalgia e l’autenticità, in quest’ultimo capitolo porto l’attenzione sul coinvolgimento etico e critico dei professionisti del teatro attraverso il costume. Quest’ultimo, infatti, articola la complessità dell’uomo attraverso significati che si stratificano sul corpo vestito dell’attore sul palcoscenico.
Quali sono i tuoi piani per il futuro?
Vorrei continuare la strada intrapresa con questo libro approfondendone alcuni argomenti. Sono inoltre supervisore a LCF di alcuni dottorandi e lead editor della rivista accademica Studies in Costume in Performance. Per questo ho la fortuna di supportare altri ricercatori e autori, i quali, come me, sono spesso dei professionisti che sfidano con la scrittura i limiti del loro lavoro sul costume in quanto performance. Sono molto felice, inoltre, che una delle mie installazioni sia stata selezionata per il World Stage Design 2017 in Taipei al Kuandu Museum of Fine Art.
– Nadia Saccardi
Donatella Barbieri – Costume in Performance. Materiality, Culture, and the Body
Bloomsbury Publishing, Londra 2017
Pagg. 264, £ 24,99
ISBN 9781474236881
www.bloomsbury.com/uk/http://www.encountersinthearchive.com
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