Narrativa & arti visive. Ora c’è anche un corso universitario
Dei legami fra letteratura e arti visive scriviamo da anni, in particolare nella rubrica “Stralcio di prova”. Ora il tema si sta facendo sempre più caldo anche in Italia. E se Roberto Pinto ci ha scritto un libro pubblicato poche settimane fa, ora nasce anche un corso di studio alla NABA di Milano. Ne abbiamo parlato con Stefano Valenti, che lo coordinerà insieme a Gabriele Sassone.
La tua formazione è artistica. Dove hai studiato esattamente? Chi ti ha dato di più nel rapporto maestro-allievo? Quali sono i tuoi artisti di riferimento – non mi riferisco necessariamente all’arte visiva?
Mio padre era pittore. Lo era diventato a quarant’anni da autodidatta, abbandonata la fabbrica e l’attività di operaio. Lui è stato il mio primo maestro. Poi ho frequentato l’Accademia di Brera a Milano, dove mi sono diplomato con Luciano Fabro. Un tratto importante della mia definizione artistica è nato lì. Eravamo una comunità determinata e coesa e lo siamo rimasti.
Negli anni ho amato artisti che hanno elaborato l’idea del racconto o della sua impossibilità, artisti come Joan Jonas, Nanni Balestrini, Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, John Akomfrah, Franco Vaccari, Duane Michals e Peter Hutchinson, tra gli altri.
E per quanto riguarda la narrativa?
Ho fatto mia la corrente del racconto civile, la narrazione di Paolo Volponi e dei sodali della letteratura industriale, e ho cercato riferimenti nella narrativa europea continentale, quella alpina, austriaca ed elvetica in particolare, ma anche quella delle aree prealpine del Nord Italia: da Agota Kristof a Peter Handke, da Nuto Revelli a Ferdinando Camon.
Dalle arti visive alla letteratura: nel 2013 hai pubblicato La fabbrica del panico, dove racconti la storia di tuo padre, il quale lascia la fabbrica che lo ucciderà per diventare il “padre-pittore”. Che ruolo ha quell’esordio nella narrativa nel tuo percorso?
Anche la mia svolta arriva a quarant’anni, come quella, decenni prima, di mio padre, consumato il lutto della sua morte. Dico addio per sempre alla pittura e ricomincio dall’unica possibilità, la narrativa. Lavoro come consulente e poi come traduttore editoriale. E in cinque anni costruisco il primo testo, La fabbrica del panico. La buona accoglienza ricevuta dal romanzo mi cambia la vita. I numerosi premi, tra cui il Campiello opera prima del 2014, mi rafforzano e convincono della giustezza del percorso, e giustificano il mio impegno, rinsaldano autostima e determinazione.
Oggi insegno, collaboro con giornali, preparo il mio terzo romanzo e sono pienamente consapevole dell’importanza che tutto questo rappresenta per me, ma anche della responsabilità che determina e che cerco di concretizzare nel racconto civile, nell’attività laboratoriale, nei confronti di coloro che desiderano fare questo passo decisivo.
Arti visive e letteratura: come consideri queste due forme di espressione, in particolare quali ritieni siano le interconnessioni che le legano?
Gli anni trascorsi a dipingere e poi a tradurre e scrivere mi hanno convinto della consequenzialità delle due ricerche, della prossimità di arte e letteratura, della loro crescente permeabilità, della loro convergenza. Le contemporanee contaminazioni stilistiche, le forme comuni assunte nel tempo, i generi acquisiti, le hanno avvicinate ancora di più. Negli ultimi vent’anni narrativa e arte italiane sono state egemonizzate da nuove forme di racconto funzionali alla critica dell’ideologia dominante e il racconto ha ricominciato a trovare dignità di forme oltre che di contenuti nel solco della migliore tradizione nazionale.
La particolare interconnessione delle due discipline è data dal metodo, unico, la ricerca documentaria e testuale che definisce l’approccio alla rappresentazione del mondo. In narrativa l’attivismo culturale e la documentazione sono parte integrante del progetto, così come nella migliore research-based art, la pratica artistica che nasce dalla ricerca. Non esiste dunque divergenza nelle due ricerche, che diventano una nel momento della realizzazione del progetto e della sua definizione.
La secolare tradizione dell’ecfrasi attraversa la letteratura dai suoi albori, con Omero, e arriva a oggi, ad esempio con Tiziano Scarpa. Quali sono a tuo avviso le migliori “descrizioni letterarie”, storiche e contemporanee? E perché sono particolarmente efficaci?
È la domanda che ci siamo posti io e Gabriele Sassone quando abbiamo deciso di dare vita, all’interno del Dipartimento di Arti Visive NABA, diretto da Marco Scotini, a un corso di Narrativa per le arti visive. Senza anticipare come sarà declinato il corso, che inizierà l’8 novembre, posso dire che fra gli autori che analizzeremo al fine di produrre una rinnovata forma di scrittura per l’arte ci saranno Gilles Deleuze, Thomas Bernhard, Emmanuel Carrère, Don DeLillo, Michel Houllebeqc, W.G. Sebald, Jonathan Littell, Rachel Kushner, Chris Kraus, Ben Lerner, e altri afferenti a diverse discipline.
Il perché è presto detto. La narrazione permette a chi ascolta di calarsi completamente nella vicenda raccontata creando uno spazio protetto di apprendimento, contenimento e condivisione emotiva. La narrazione è la strada verso casa.
Sono molti i narratori che hanno scritto d’arte e molti sono, viceversa, gli artisti visivi che si sono confrontati con la letteratura. Questa simmetria non si ritrova però sul lato critico: sono soprattutto i critici letterari che hanno provato a confrontarsi con la critica d’arte, viceversa è accaduto più raramente. Come te lo spieghi, sempre che tu sia d’accordo?
Mi verrebbe da dire che l’afasia critica deriva dal desiderio di non farsi comprendere e conservare in questo modo un potere altrimenti da ridistribuire. Più questa tensione è accentuata meno è il desiderio di confrontarsi. In questo senso, mentre è vero che narratori e artisti non hanno mai avuto difficoltà a confrontarsi con l’altro, non sono sicuro che i critici letterari siano riusciti a riprodurre critica d’arte autonoma e non meramente mimetica e che non si siano riparati dietro ai medesimi stereotipi linguistici e culturali del passato, quelli per l’appunto che ancora dominano nel campo della critica d’arte.
Credo che una via divulgativa – nel senso più nobile del termine – per avvicinare il pubblico all’arte contemporanea consista proprio nell’inventare forme differenti di descrizione e interpretazione dell’opera d’arte. Anche grazie alla quantità di immagini fisse e in movimento a disposizione di tutti, penso che si possa delegare a esse una parte importante della descrizione propriamente detta e, d’altro canto, concentrarsi su una forma differente di intermediazione fra opera e pubblico. Insomma, raccontare una mostra è possibile? Soprattutto: è utile a tuo avviso?
Credo tu abbia ragione e che sia necessario che ogni racconto dichiari la propria appartenenza grazie al filtro della narrativa, tramite l’anamnesi completa dell’opera e non unicamente tramite la descrizione. Ecco dunque da dove nasce la necessità di una strategia di racconto dell’arte che trovi nel pubblico e nei racconti di vita un referente privilegiato.
Il narratore d’arte deve coinvolgere ed emozionare e per farlo deve incontrare desideri e paure del lettore ed essere in grado di costruire una mappa dell’empatia e coltivarla attraverso la conoscenza della costruzione narrativa, deve essere in grado di alimentare l’intelligenza emotiva e produrre partecipazione intima attraverso la quale, e unicamente attraverso la quale, si realizza la comprensione estetica.
– Marco Enrico Giacomelli
http://www.naba.it/it/corsi-brevi/narrativa-per-le-arti-visive-e-il-design
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