C’è un piccolo libro di Guido Chelazzi da cui non riesco a staccarmi. Mi era già successo anni fa con Armi, acciaio e malattie. Breve storia degli ultimi tredicimila anni di Jared Diamond. Il volumetto di Chelazzi, Inquietudine migratoria. Le radici profonde della mobilità umana, pubblicato l’anno scorso da Carocci editore, è composto da centoventi pagine corredate da una straordinaria bibliografia. In un viaggio che inizia dal Pleistocene, riunisce il processo di autocostruzione del genere umano attingendo in scioltezza dall’archeologia, dall’antropologia, dalla biologia molecolare, dall’ecologia, dall’etologia, dalla linguistica, dall’ecoantropologia, dalla genetica, dalle scienze sociali e dalla teoria del caos. Si tratta di una lettura che mi ha generato spesso irritazione (per la mia ignoranza) e sconforto (per i pregiudizi dei quali, pur essendomi sempre ritenuto un progressista, sono imbevuto).
“Già dal Neolitico, l’essere umano si spostava non sempre e non solo spinto da fame o catastrofi naturali. A condurlo erano anche il desiderio di avventura, e un po’ della sua immancabile cialtronaggine, frutto di curiosità e bricconeria”.
La tesi di fondo di Chelazzi è la seguente: “I motori della mobilità sono cinque: economici, politici, demografici, sociali, ambientali”. E prosegue: “L’uomo è una specie che riplasma continuamente – e non da oggi – paesaggi ecosociali, determinando così nuovi scenari operativi per la propria discendenza”. C’è un altro concetto importante evidenziato da Chelazzi: già dal Neolitico l’essere umano si spostava non sempre e non solo spinto da fame o catastrofi naturali. A condurlo erano anche il desiderio di avventura e un po’ della sua immancabile cialtronaggine, frutto di curiosità e bricconeria. Secondo i calcoli delle Nazioni Unite, nel mondo ci sono oltre 200 milioni di migranti, con un incremento del 37% negli ultimi vent’anni. Stiamo vivendo una dinamica che sta cambiando, vicino a noi, il volto di due continenti e la vita di almeno un miliardo e mezzo di persone. Siamo investiti da un vento che soffia fortissimo. L’Europa, alle prese con un’eredità fatta di sanguinosi conflitti interni nel secolo scorso e devastanti dinamiche coloniali che affondano le radici molto più in là nel tempo, si è sino a ora dimostrata poco preparata ad affrontare il turbine che la sta investendo. È tempo che ognuno di noi si attrezzi, anche singolarmente, per capire cosa sta davvero succedendo. Magari partendo dalla lettura di questo piccolo libro.
‒ Aldo Premoli
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #39
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