La versione sintetica della storia è: nel 1967 esce il romanzo Obsoleto di Vincenzo Agnetti (Milano, 1926-1981) per i tipi di Vanni Scheiwiller; nel 2017 esce una nuova edizione per Cinquemarzo di Viareggio.
Solo che è molto più complicato. Per cominciare, questo non è un romanzo. Almeno non lo è nel senso classico, lineare del termine. D’altronde Agnetti è un artista concettuale che ha fatto del linguaggio la sua im-materia d’indagine: come avrebbe potuto scrivere una storia o una storiella, così, senza colpo ferire? Introducendo il celebre Tesi del 1972 (edito da Prearo, che lo ha ristampato nel 2008), Achille Bonito Oliva scrive: “Il linguaggio in Agnetti diventa un gesto oppositivo e alternativo ad una realtà anchilosata e circoscritta, risposta articolata e sistematica alla disarticolazione della realtà”. Parla delle sue opere, dei suoi saggi o dei suoi romanzi? Ecco, nel caso di Agnetti (ma il discorso vale per diversi autori di quegli anni e di quegli interessi) la domanda non ha senso, perché non c’è distinzione, o perlomeno non c’è distinzione netta fra le tre categorie. Ancora ABO – e notate dove sta la virgola: “Qui Agnetti teorizza e pratica il conflitto, armato di una lucida creatività che lo porta a lottare felicemente contro il caos calmo di ogni convenzione”.
CON MANZONI E CASTELLANI
Tesi esce nel 1972, ma la prima versione è del 1968. E la prima parte, in particolare, dialoga strettamente con Obsoleto. In entrambe si “inscena più volte la messa a morte del significato” (Giorgio Verzotti). Tanto che le ultime pagine del “romanzo” sono via via meno leggibili: Agnetti sta letteralmente – anzi: fisicamente – limando le lettere di piombo con cui l’amico-editore sta stampando. Amico che risponde al nome di Vanni Scheiwiller: con lui e per Piero Manzoni aveva scritto un intervento nel 1958, anno delle Tavole di Accertamento. Dieci anni dopo, Obsoleto inaugura la collana dei Denarratori, e la copertina è di Enrico Castellani. Il filo rosso si chiama, naturalmente, Azimuth: rivista, sodalizio, movimento. I testi di Obsoleto risalgono fino al 1963, quando Agnetti viveva in Sudamerica, ma è da qui che diventa realmente impossibile e dannoso “distinguere tra un Agnetti scrittore, un Agnetti pittore, un Agnetti scultore, un Agnetti critico”, come ribadisce Germana Agnetti.
ALTRE POSSIBILITÀ
Affascinano, quelle ultime pagine progressivamente sgretolate, nella lingua e nel significato. Però spesso non si nota che questa invisibilità tendenziale cancella altresì le soluzioni grafiche, visive, artistiche: la crisi è generale. Questo vuol dire che Agnetti è un narciso autoreferenziale sociopatico? Oppure che sta criticando praticamente un codice di comunicazione? Si badi: l’articolo è indeterminato. Ecco, forse questo è uno fra gli insegnamenti più preziosi che Agnetti ci ha lasciato: lo stimolo a considerare l’esistenza di altre possibilità. E chi ha perso la splendida mostra di Palazzo Reale a Milano degli scorsi mesi, può solo sperare che presto se ne organizzi un’altra. Perché c’è da imparare, e tanto, da Agnetti. Nel frattempo, ci si provi, a leggere Obsoleto.
‒ Marco Enrico Giacomelli
Vincenzo Agnetti ‒ Obsoleto
Edizioni Cinquemarzo, Viareggio 2017
Pagg. 186, € 20
http://cinquemarzolibri.netArticolo pubblicato su Artribune Magazine #40
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