È uscito in questi giorni per i tipi di Johan & Levi il libro di Philippe Costamagna, Avventure di un occhio. Con “occhio” lo storico dell’arte francese di fama internazionale, specializzato in pittura italiana del Cinquecento, da oltre dieci anni direttore del Palais Fesch Musée des Beaux Arts di Ajaccio, allude a se stesso.
Il titolo potrebbe essere fuorviante, ma già nella prima pagina del volume viene spiegato in una nota del testo: “Quello originale francese, “Histoires d’œils”, contiene una storpiatura impossibile da restituire in italiano. In francese, infatti, il singolare di occhio è œil, mentre il plurale è yeux. L’œils del titolo è un’invenzione dell’autore, un neologismo coniato per indicare i pochi iniziati in grado di attribuire la paternità di un’opera del passato”. Così, per non distaccarsi troppo dalla lingua originale, si è scelto, anche in italiano, di mantenere il termine “occhio” per indicare lo storico dell’arte, conoscitore, attribuzionista.
Il primo capitolo del volume è, appunto, dedicato a un’attribuzione straordinaria, quella del Cristo crocifisso del Musée des Beaux Arts di Nizza, che Costamagna ha definito qualche anno fa. Un giorno Costamagna è al museo, insieme a Carlo Falcinai, un raggio di sole colpisce l’opera ed entrambi, all’unisono, si trovano di fronte alla rivelazione. È la vittoria dell’occhio. L’opera è del Bronzino, che lo aveva realizzato per la famiglia fiorentina dei Panciatichi. Se ne aveva avuto notizia dal Vasari e si pensava fosse andata perduta, in realtà era semplicemente attribuita ad altro pittore, un minore.
Il volume è di lettura gradevole, ne escono figure straordinarie, storie divertenti e, al tempo stesso, illuminanti per comprendere una certa metodologia storico-artistica.
Abbiamo incontrato Costamagna nell’elegante bottega di un celebre antiquario milanese, alle nostre spalle erano dipinti importanti, collocati su una tappezzeria di velluto rosso. Era come se il tempo fosse sospeso.
L’INTERVISTA
Partiamo dalla “santa trinità” della storia dell’arte: Bernard Berenson, Roberto Longhi, Federico Zeri, alla quale ha dedicato un interessante capitolo.
Dei tre ho conosciuto personalmente solo Zeri e la moglie di Longhi, Anna Banti, una donna, una scrittrice fantastica. Era una tigre, che amava follemente la Francia. Da giovane sono stato borsista alla Fondazione Longhi e alla Fondazione Berenson, entrambe a Firenze, così sono entrato in quei mondi con una certa intensità.
Longhi è stato un personaggio affascinante. Studiare la storia dell’arte italiana significava difendere la sua patria, come aveva fatto prima di lui Giovanni Morelli. Voleva anteporre a tutto l’italianità. Ha difeso Carrà, Morandi, il Futurismo. Per questo non ha condannato il fascismo. Io cerco di salvarlo, anche se non è sempre possibile farlo.
Certo poi gli si possono ascrivere anche altri peccati, come quello di avere aiutato il mercante Contini Bonacossi a vendere molto del patrimonio artistico del vostro Paese. In realtà, se si riprende l’idea di Andrè Malraux, le opere d’arte espatriate sono ambasciatori culturali. Il quesito che si pone è: bisogna tenersi tutto o vendere all’estero per farsi conoscere? Malraux lasciava uscire i grandi capolavori.
E Bernard Berenson, che passa per un elegante esteta, che tipo era?
Era un personaggio curioso, un borghese, figlio di immigrati ebrei lituani. Dai suoi compatrioti americani non è stato granché capito. È il padre della connoisseurship. Le sue attribuzioni sono state accettate grazie alla sua autorevolezza. Frequentava chiese, musei, prendeva appunti sulle impressioni che gli suscitavano le opere e poi creava delle liste, che nessuno osava contestare.
Anche lui ha lavorato a fianco di un mercante fantastico, il re degli antiquari Joseph Duveen, il regista delle grandi collezioni americane della prima parte del XX secolo.
Infatti, ma io credo che Berenson fosse in buona fede. Se Morelli ha teorizzato un metodo, se Cavalcaselle e Crowe hanno creato una vera e propria passione nei confronti dell’attribuzione, che ha fatto sì che in seguito ai loro scritti i nobili e gli alto-borghesi inglesi venissero in Italia a fare il “gioco delle attribuzioni”, Berenson ha trasformato tutto questo in mestiere. Ha inventato il sistema delle expertise. Ha creato la collezione di Isabella Stewart Gardner a Boston, dove ci sono anche capolavori. Ci sono errori certo, ma tutti sbagliamo. Inoltre bisogna sottolineare che la conoscenza si evolve e ogni tempo è in grado di capire le cose in maniera diversa. Berenson, che ha trasformato la storia dell’arte in mito, ha acquistato dei falsi anche per la sua collezione. Ogni momento storico ha i suoi falsari: è un sistema interessante.
Federico Zeri era un personaggio straordinario, l’ho conosciuto, ho passato qualche ora con lui e mi pare non avesse una grande stima per Roberto Longhi.
Lo odiava perché lo aveva allontanato dall’università. Con lui ho avuto ottimi rapporti. Era un uomo complicato, molto particolare, non amato dai suoi colleghi, che per questo apriva le porte ai giovani studiosi. Mi ha insegnato a guardare, nei miei confronti aveva un rapporto di tenerezza. Era un profondo conoscitore anche di zone oscure della storia dell’arte italiana, assai amato da alcuni grandi collezionisti americani, per i quali ha creato importanti raccolte.
Nel libro lei afferma che gli storici dell’arte spesso non usano gli occhi, pare una provocazione.
È vero, spesso i grandi storici dell’arte non sono stati capaci di fare attribuzioni. Pensiamo a Giulio Carlo Argan. Nel corso degli anni sono stato vicino a Hubert Damisch, che era incapace di guardare un’opera e di datarla. Mi prendeva spesso in giro, ma poi mi chiedeva consigli. Marc Fumaroli ha affermato che nelle scuole di storia dell’arte si apprende la retorica.
In Francia l’attribuzionismo ha vita difficile, da voi no, avete pur sempre avuto Morelli e Longhi.
Perché ha scelto di non mettere immagini nel libro?
Non è stata una mia decisione. Il libro ha una lunga genesi. Nasce da una mia lettura innovativa del Bronzino, non solo come di un pittore mondano. È una lettura tesa a evidenziarne le profonde sfaccettature. Mi hanno invitato alla radio francese a parlarne e quindi mi hanno proposto di scrivere un libro, che ha pubblicato Grasset nel 2016. Essendo una casa editrice letteraria, non ha voluto mettere immagini.
Parliamo di lei, ho letto che il suo bisnonno era il medico di Renoir.
Sì, in casa mia c’erano dei Renoir. Mio nonno mi portava con sé nei musei, adorava l’arte.
Che scuole ha frequentato?
L’École du Louvre e la Sorbonne. La prima è stata fantastica perché è un’università dentro il museo e si comincia a capire, a vedere, si diventa “occhio” guardando le opere.
Quale è il suo metodo di lavoro?
Vedere, vedere, vedere opere.
Anche Federico Zeri raccomandava la stessa cosa.
Inoltre bisogna vedere dal vero. Le fotografie servono per ricordarsi i dettagli, ma non possono essere uno strumento sostitutivo. Alcuni storici dell’arte sbagliano le loro attribuzioni proprio perché si limitano a guardare delle foto.
Quale è il vero rischio del nostro mestiere?
Di essere corrotti dai soldi.
Dalle sue pagine i mercanti escono bene.
Credo molto nell’occhio dei galleristi, più che in quello degli storici e dei critici. Per esempio sono affascinato da Emmanuel Perrotin, l’ho conosciuto che aveva 20 anni. Aveva già un occhio straordinario. Ci sono diverse forme di occhio: quello del giornalista, del vetrinista, ovviamente del fotografo. A volte la storia dell’arte in tal senso è eccessivamente bacchettona, chiusa in se stessa.
L’ultimo capitolo del libro è intitolato Confesso che ho sbagliato, una citazione voluta del libro autobiografico di Federico Zeri.
Quel libro di Zeri è stato pubblicato prima in francese e poi in italiano. Lui amava la Francia. Confessa di avere sbagliato, racconta che avrebbe voluto fare il giardiniere, ma tra le righe si evince evidentemente che non lo pensava. In realtà io talvolta mi sono davvero sbagliato, metodologicamente, avendo guardato le opere solo in fotografia, invece, con il tempo, ho imparato che per giudicare un’opera, per studiarla, bisogna obbligatoriamente vederla dal vero.
‒ Angela Madesani
Philippe Costamagna ‒ Avventure di un occhio
Trad. it. di Ximena Rodriguez Bradford
Johan & Levi, Monza 2017
Pagg. 192, € 20
ISBN 9788860101952
www.johanandlevi.com
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