Non si considera un “cervello in fuga” ma sta a Londra da un decennio. E lavora nella più importante casa editrice d’arte al mondo: Phaidon. A Michele Robecchi abbiamo chiesto di raccontarci come funziona la produzione di un libro, cosa ha in programma e molto altro.
Quest’anno festeggi il tuo primo decennio in Phaidon. Ci racconti qual è la tua formazione e come sei arrivato a lavorarci?
Prima di approdare alla Phaidon avevo lavorato per due riviste, Flash Art e Contemporary. Direi che entrambe le esperienze hanno contribuito in maniera fondamentale alla mia formazione editoriale. Contemporary era (purtroppo ha cessato di pubblicare nel 2008) una rivista che esplorava i rapporti tra arte contemporanea e altre discipline creative, cercando di fare un’analisi a tutto campo su affinità e influenze reciproche. Flash Art è una rivista che al suo interno offre altre possibilità come la redazione di libri e cataloghi, l’organizzazione di mostre e, nel periodo in cui c’ero io, la gestione di un museo. Ha quindi un raggio d’azione a 360 gradi che mi ha permesso di imparare tante cose di cui beneficio ancora adesso.
Di cosa ti occupi esattamente in casa editrice e come è strutturato il lavoro?
Il mio lavoro consiste principalmente nel seguire una collana di monografie originariamente avviata a fine Anni Novanta, improntata sull’idea di realizzare un libro comprensivo, senza le pretese di un catalogo ragionato, in stretta collaborazione con l’artista e avvalendosi di diverse voci critiche. Ogni anno realizzo quattro, cinque volumi. Le tempistiche sono piuttosto dilatate – ogni libro richiede in media 16-18 mesi di tempo, dall’invito all’artista alla selezione degli autori fino alla stampa. Questo significa doversi muovere con un discreto anticipo. Al momento sto lavorando a progetti che non saranno sugli scafali prima del 2020. In un certo senso è come curare mostre su carta. Sono esentato da oneri pratici come allestimenti, trasporti e assicurazioni, ma intellettualmente è un esercizio simile. Si stabilisce un dialogo con l’artista cercando di realizzare una presentazione corretta e originale del lavoro. Un’altra differenza è che i libri hanno una vita molto più lunga, il che significa dover fare i conti con la necessità di creare qualcosa che continui ad avere significato e rilevanza nel tempo. Oltre a questo ho un occhio su tutta la produzione di arte contemporanea della casa editrice e a volte anche su qualche progetto speciale. Per esempio di recente ho lavorato a un libro di moda con Anna dello Russo e a uno sulla Ferrari in collaborazione con il Design Museum a Londra.
Ti consideri un “cervello in fuga”?
No, non mi considero un fuggitivo (e tanto meno un cervello!). Quando ho terminato la mia collaborazione con Flash Art ho ricevuto diverse opportunità lavorative anche in Italia ma la tentazione di dirigere una rivista d’arte a Londra era troppo forte, uno perché la scena londinese è molto dinamica e ricca di proposte e due perché prima di iniziare a Flash Art avevo studiato e lavorato in Inghilterra per qualche anno e quindi più che una fuga si trattava di un “ritorno” che in quel periodo avevo molta voglia di fare.
Cosa rende così speciale Phaidon? È anche difficile definirla, perché la definizione risulta sempre restrittiva: non è solo una casa editrice d’arte, non è solo una casa editrice di illustrati, non è solo una casa editrice di table book ecc. ecc.
Phaidon nasce come casa editrice d’arte e l’arte gioca ancora un ruolo preponderante nella sua programmazione. Negli anni l’orizzonte si è allargato all’architettura, al design, alla fotografia, e più recentemente ai libri di cucina, che oggi costituiscono indubbiamente la parte di maggior successo. Gli chef sono oggi quello che gli stilisti erano negli Anni Novanta, ci hai fatto caso? Si considerano artisti, e infatti è abbastanza frequente fare esperienze culinarie in musei e gallerie. Ferran Adrià a Documenta è stato il caso più eclatante ma ce ne sono altri. La politica della Phaidon, per tornare alla tua domanda, è quella di non fare libri su commissione. Questo permette di mantenere il controllo sulla grafica, sugli autori e soprattutto sulle scelte editoriali. Ci sono eccezioni, come ad esempio i cataloghi che facciamo in collaborazione con il New Museum a New York e il Design Museum a Londra, ma si tratta appunto di strappi alla regola, fatti quando c’è la certezza di una comunità di vedute, e che influiscono quindi in maniera limitata sull’identità della casa editrice.
Cosa ne pensi del panorama editoriale italiano? Quali sono i punti di forza e quali di debolezza?
Posso solo parlare dell’editoria d’arte. Secondo me è abbastanza in salute. Ci sono tante realtà interessanti (penso che l’Italia sia uno dei Paesi con il più alto numero di riviste d’arte al mondo) e la qualità del lavoro degli stampatori è un ottimo incentivo. Un’idea che forse i grandi editori dovrebbero accettare è quella che avere un personale specializzato e con un alto profilo può essere un grosso beneficio per credibilità e programmi. Quando sono arrivato alla Phaidon il responsabile per le pubblicazioni d’arte moderna era David Anfam. Prima di me a seguire l’arte contemporanea c’era Iwona Blazwick. Se anche le fiere d’arte sono arrivate alla conclusione che per operare con successo all’interno di un contesto culturale serve una persona con competenze specifiche, non vedo perché le case editrici non debbano fare lo stesso. Un esempio è Postmedia Books, che stampa libri ottimi proprio perché Gianni Romano ha una lunga storia come curatore e critico d’arte.
La vulgata sulla morte della carta assomiglia a quella sulla morte della pittura. Qual è il tuo punto di vista in merito? Le smentite provengono anche da iniziative apparentemente pazzesche come Edicola 518 a Perugia.
Sono d’accordo con te. È un discorso assurdo, soprattutto nell’editoria d’arte, dove ci si rivolge a un pubblico che più che in altri settori apprezza l’oggetto. Oltretutto la carta stampata ha il vantaggio di poter mostrare un’immagine esattamente come dovrebbe essere. Se fai una ricerca su internet di un qualsiasi quadro o fotografia escono almeno venti varianti cromatiche diverse. Un libro può essere un’occasione unica per dare una versione definitiva.
Edicola 518 è un’iniziativa fantastica. Purtroppo non ho ancora avuto modo di fargli visita ma spero di riuscirci presto.
Ci racconti come si fa un libro Phaidon? Proprio la filiera, dalla scelta dell’argomento alla distribuzione.
È un processo lungo. La versione breve è: scelgo un artista con cui lavorare, lo propongo al nostro board, l’idea viene accettata, contatto l’artista, se è d’accordo con il progetto stipuliamo un contratto e poi lavoriamo insieme sulla scelta degli autori e sulla realizzazione del libro, che poi si stampa e si distribuisce. Se tutto va bene un libro è pronto in quasi due anni, ma a volte ci vuole un po’ di più. Per molti artisti è la prima pubblicazione importante, ed è imperativo assicurarsi che venga bene.
Le versioni italiane dei libri Phaidon sono arrivate una decina di anni fa, poi c’è stato un lungo stop, e da qualche tempo sono ricominciate. Come nasce la decisione di tradurre i testi per uno specifico Paese/mercato?
Sono decisioni di marketing, su cui purtroppo la redazione ha poca influenza. Per me è un peccato che la monografia di Maurizio Cattelan del 2001 non sia mai stata tradotta in italiano. Ormai è tardi ma ai tempi sarebbe stata un’operazione semplice e necessaria. D’altra parte è anche vero che il pubblico dell’arte è abbastanza poliglotta, e che un’edizione in lingua straniera può diventare un boomerang, dal momento che toglie una grossa fetta di mercato a quello principale.
Qual è il libro che ti ha dato più soddisfazione realizzare? E quale non dovrebbe mancare nelle nostre biblioteche?
Ce ne sono tanti, è difficile scegliere. Sono molto soddisfatto del libro fatto con Monica Bonvicini perché mi ha dato la possibilità di lavorare con una persona che conosco da tempo e che stimo molto. Frank Stella è stata un’esperienza incredibile, come ti puoi immaginare. Una giornata passata con lui nel suo studio vale già un libro. Jessica Stockholder è un’artista che ha inventato tantissimo e il tempo dimostrerà la sua importanza. Kerry James Marshall è un altro libro che raccomanderei perché, al di là degli aspetti monografici, tocca questioni storiche fondamentali. Devo anche aggiungere che oltre agli artisti mi piace molto il rapporto con gli autori. Lavorare con persone come Julia Bryan-Wilson, Germano Celant, Kate Nesin o Greg Tate è molto istruttivo oltre che gratificante.
Chiudiamo con le novità e le anticipazioni: su cosa hai appena finito di lavorare e su cosa stai lavorando attualmente?
Le prossime uscite sono Mark Bradford e Trevor Paglen, ma dopo anni passati a lavorare in riviste d’arte, i miei entusiasmi sono inevitabilmente per quello che verrà. In questo momento sto lavorando a una monografia con Sharon Hayes. È un’artista di un’intelligenza e una sensibilità straordinarie e sono molto soddisfatto di quello che abbiamo fatto finora. Tre anni fa ho chiesto a Jannis Kounellis se era interessato a fare un libro. Con mia grande sorpresa mi ha detto di sì. Purtroppo non potrà vedere il risultato della nostra collaborazione ma mi riempie di orgoglio sapere che è uno degli ultimi progetti a cui ha lavorato e che ci credesse in modo autentico. Spero che la monografia riesca a onorare la sua storia e il suo pensiero.
‒ Marco Enrico Giacomelli
Versione integrale dell’articolo pubblicato su Artribune Magazine #43
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