Martina Napoletano, Marco Carlone e Simone Benazzo (con l’inserimento recentissimo di Simone Peyronel) formano il collettivo volna mare. Difficile definirne l’identità con i criteri classici: narratori, reportagisti, ricercatori, artisti, fotografi… Sta di fatto che i tre fondatori hanno pubblicato un libro tutto da leggere e guardare su un territorio ben poco noto: la Transnistria. E lo hanno pubblicato con una casa editrice appena nata a Bari, la DOTS edizioni. Ne abbiamo parlato con loro, lungamente.
Come è nata l’idea di pubblicare un libro quale Il futuro dopo Lenin?
In questi casi si è solitamente tenuti a proclamare che “avevamo questo sogno da anni, era il nostro romanzo nel cassetto e finalmente”, ma è stata in verità una gravidanza inaspettata, per quanto lieta. Lo scorso autunno avevamo organizzato un tour nel nord Italia per presentare il nostro viaggio in Transnistria e cercare di rientrare delle spese vendendo le stampe delle foto scattate in loco. Alla prima serata, in un ristorante polacco a Genova, ci troviamo di fronte un pubblico di slavisti, informati e pieni di aspettative verso la nostra presentazione. Per un mix di emozione e passione per l’improvvisazione, non riusciamo a seguire nemmeno il pur scarno canovaccio su cui ci eravamo accordati, eppure il pubblico si diverte, interagisce e si crea uno scambio molto genuino. Carlotta Susca, futura fondatrice di DOTS edizioni, era rocambolescamente finita tra il pubblico. A fine serata, senza sapere nulla di noi più di quello che avevamo trasmesso dal palco, intravedendo nella nostra esperienza un potenziale letterario, ci propone a bruciapelo di scrivere un libro, per una casa editrice che ancora non esisteva. Essendo anche noi dei visionari, non potevamo non accettare. Questa la genesi in termini di eventi.
E sul fronte dei contenuti?
Tutti e tre i membri del nostro collettivo avevano accumulato un discreto patrimonio di esperienze, riflessioni e storie sulla galassia tradizionalmente intesa come “Est Europa”, solo in minima parte espresso tramite l’attività giornalistica. Nonostante l’eterogeneità di questo materiale, ci siamo resi conto, confrontandoci dopo la proposta di Carlotta, che si poteva agevolmente individuare un fil rouge che connettesse i nostri tre percorsi: la voglia di sfidare la rappresentazione stereotipata e orientalista dell’Est Europa, una narrazione pigra e fondamentalmente appiattita, funzionale per chi la produce e per chi ne fruisce. Convogliando i nostri studi, il nostro amore per queste terre che più volte sono state (sono e saranno) per noi “casa”, e la dreamerie che ci contraddistingue, abbiamo confezionato la prima opera narrativa in lingua italiana che riporti il nome “Transnistria” in copertina. Se ogni buon libro deve scaturire da un’urgenza comunicativa, questa era la nostra.
Il volume è un ibrido fra un diario di viaggio e una narrazione più classica. Come avete scelto approccio e stile del libro?
Adepti fedeli all’egemonico canone post-modernista, non potevamo che consacrarci alla stesura di un prodotto spurio, possibilmente incoerente senza risultare dissonante. Lo stile è stato una scelta obbligata. Abbiamo dovuto essere molto pragmatici: volevamo un libro capace di contenere le nostre personalità, e quindi i nostri interessi e le nostre ossessioni, pur avendo poco tempo (due mesi in tutto) e dovendolo scrivere a distanza (uno in Basilicata, uno in Valtellina, una in California). Abbiamo quindi riprodotto la pratica del collettivo Wu Ming, assegnando a ognuno dei tre la stesura iniziale di un capitolo, a cui sarebbe seguita una serie di revisioni incrociate collettive. Ci siamo accordati su alcune vaghe e pretenziose linee guida (decidemmo, tra le altre cose, di seguire nello stile dialogato l’esempio di uno scrittore dell’underground moscovita degli Anni Ottanta, che solo uno di noi aveva letto) e, quando abbiamo avuto il coraggio di leggere le prime bozze, è emersa l’amara verità: stavano nascendo tre libri diversi, lo stile letterario che ciascuno stava seguendo era la mera trasposizione su carta delle rispettive personalità (spensierata e allegra; cupa e meditabonda; accurata e contorta). Forse stavamo esagerando con l’espressionismo.
E quindi?
Allora ci siamo imposti di delineare un canovaccio più stringente e questo ci ha permesso di arrivare al ritiro invernale in Valtellina con tre scritti perlomeno comparabili. Nella fase anacoretica ci siamo confrontati in maniera franca (a tratti acerrima) su ogni frase, soppesandone contenuto, forma e coerenza con l’impianto generale. Uno dei risultati più stupefacenti è che, sebbene noi tre presi singolarmente non siamo simpatici, molti lettori ci hanno raccontato di aver riso leggendo il testo, non di rado nelle parti che volevano proprio far ridere. A distanza di tre mesi dall’invio della bozza definitiva, tuttavia, non è arduo individuare nella rilettura (sempre traumatica) ampi margini di miglioramento. Ma uno prima o poi un governo se lo deve dare. Il prossimo lavoro beneficerà di questo sforzo collettivo, come degli errori notati solo in seguito.
Che rapporto avete stretto con un territorio di confine come la Transnistria? Come vi siete relazionati con gli spazi e le persone?
Tra i tanti luoghi comuni che ci tormentano, un posto speciale spetta all’intramontabile mantra “questo è il punto d’incontro tra l’Est e l’Ovest”, una definizione buona per tutte le stagioni che abbiamo incontrato a proposito di Gerusalemme, Yerevan, Sarajevo, l’Albania, la Bielorussia, Pietroburgo e così via. È una specie di formula magica, un biglietto da visita utile a rivendicare un’identità multiculturale che tralascia sempre di definire chiaramente un Est e un Ovest, dandoli per scontati e univoci. Questa prospettiva raggiunge il parossismo nelle aree di confine, naturali candidate a incarnare “l’incontro”, “lo scambio”, “la commistione”. In questo la Transnistria, in virtù dei suoi confini non riconosciuti, può essere vista come un’eccezione: non fa incontrare, ma blocca, si sente una scheggia di Russia incuneata tra Moldavia e Ucraina. Per quanto riguarda le persone, poiché abbiamo passato lì un tempo troppo breve per parlare seriamente di “rapporto”, possiamo soltanto accennare alcuni tratti del nostro approccio alla comunità autoctona. Ci siamo relazionati con rispetto, soffocando alcune nostre idee preconcette ‒ anche quando le vedevamo materializzarsi ‒ per lasciare spazio all’ascolto, accogliendo le storie e la visione delle persone che abbiamo incontrato così come ci sono state date. Solo in una seconda fase, una forma di recollection in tranquillity, abbiamo condiviso le nostre opinioni su quanto ricevuto.
E poi tutto questo è confluito nel libro…
Il libro cerca di rendere comunque l’autenticità degli scambi avvenuti, sebbene alcune situazioni dialogiche siano state alterate rispetto allo sviluppo effettivo per ragioni narrative. Dare la possibilità di raccontarsi ad alcuni membri di una popolazione che viene solitamente soltanto raccontata all’interno di reportage beffardi e policy briefing che la dipingono come entità omogenea e passiva, crediamo sia stata una scelta corretta. Se una curiosità rispettosa è stata la nostra emozione lì, ora questa è stata sostituita da una sorta di perverso affetto, un sentimento di affinità per una terra semi-sconosciuta di cui ci sentiamo (critici e auto-nominati) ambasciatori in Italia. Con la gelosia tipica dei narratori. Per un territorio e una popolazione che spesso incorre, suo malgrado, nei pericoli della single story, ci è sembrato il minimo cercare di proporre una narrazione diversa, portata avanti il più possibile dalla loro voce da noi registrata su carta e pellicola fotografica, con l’intento di raccontare finalmente la Transnistria “come se fosse un Paese normale”.
Avendo attraversato numerosi confini, cosa pensate della mobilità e della migrazione?
È superfluo ricordare che parlare di confini e di migrazioni in un momento in cui l’Unione Europea, in risposta a imprenditori della paura che comunque non sono mai soddisfatti, sta sigillando le proprie frontiere stipendiando capi-clan locali per fare i secondini, è un atto carico di una massiccia dimensione politica, che accettiamo in pieno. Noi tre siamo nati a cavallo degli Anni Novanta, non abbiamo nella memoria le code alla dogana, i visti e i bauli setacciati. Quando l’area Schengen non sembra più universalmente riconosciuta come un successo grandioso, toccare dei confini “duri”, reali e presidiati è un’esperienza tragicamente illuminante. Come solo in apparenza paradossale, ci sembra che chi combatte per chiudere i confini sia solitamente colui che non li attraversa, se non di rado, per andare in vacanza. Frequentare il mondo oltrecortina, che ancora oggi fatica a risvegliarsi dall’isolamento imposto durante la Guerra Fredda, spinge a diventare amanti appassionati dei confini aperti, ancora di più. E l’Europa centro-orientale suggerisce quale sia l’unico epilogo possibile delle storie che iniziano con “C’era una volta un muro e un popolo da difendere”, se qualcuno fosse in cerca di anticipazioni: quando i nemici sono i tuoi fantasmi, non ci sono muri che possano fermarli. E ci colpisce un aspetto curioso: visto l’elevato grado di compenetrazione delle diverse comunità culturali, nazionali e religiose che si è creato nel corso dei secoli in Europa centro-orientale, idealisti non sono quelli che trovano normale la convivenza tra persone e comunità diverse, ma quelli che sognano di poterla distruggere e ridurre a un arcipelago di atolli non comunicanti, erosi sempre più alla ricerca di un nucleo mitico di purezza primigenia. In questo senso noi siamo realisti: amiamo la realtà della contaminazione, sconfiniamo continuamente e frequentiamo assiduamente l’Est. Nonostante lo Zeitgeist, rimaniamo neo-sensibilisti.
Avete scelto dei riferimenti classici e contemporanei alla narrativa di viaggio? Indicare ispirazioni artistiche precise è sempre complicato, in questo caso ancora di più, essendo tre gli autori e tre le formazioni letterarie. Si potrebbero ricordare alcuni grandissimi nomi, ma preferiamo citare un autore meno conosciuto, ma che riteniamo dell’Est un grandissimo narratore: Angelo Floramo. Per spiegarci la sua idea, Carlotta ci aveva consigliato di ispirarci a Una cosa divertente che non farò mai più di David Foster Wallace, che era probabilmente una dritta efficace, ma nessuno di noi lo aveva letto (non abbiamo mai avuto il coraggio di dirglielo). Di sicuro non c’è stata la volontà deliberata di imitare un autore o uno stile, è più accurato sostenere che le nostre diete letterarie siano confluite in maniera spontanea nel nostro prodotto. Oltretutto, l’idea di separare graficamente nel testo le sezioni di dialogo, le descrizioni in terza persona e i frammenti riflessivo-didascalici, una scelta cardinale nell’impostare il template accennato sopra, è unicamente farina del nostro sacco – o al massimo un plagio inconsapevole. Se non sappiamo definire con esattezza cosa ci piace, ci viene più semplice farlo con cosa non ci piace.
Come vi siete relazionati con le nuove esperienze editoriali di genere?
Abbiamo letto abbastanza reportage autoreferenziali e diari di viaggio sul cosiddetto “Est Europa” per non apprezzare le narrazioni onaniste; racconti dove l’autore – solitamente maschio – parte dall’incontro con una prostituta moldava a Timișoara o da uno shot di vodka Żubrówka sulla Vistola per snocciolare i nomi degli autori che l’hanno segnato nell’adolescenza o innescare una digressione di quattro pagine sulla propria nonna in Toscana. Pur riconoscendo la nostra azione soggettiva di mediazione e di decodifica della realtà narrata (non si può essere veristi oggi), noi riteniamo che la storia sia prioritaria rispetto alla nostra biografia e, soprattutto, alla nostra Weltanschauung che casomai deve trasparire dal testo, non occuparlo. Siamo poco attratti dalla narrazione intimista e iperpersonalizzata, ed essere in tre aiuta a disintossicarsi dal solipsismo letterario. Vogliamo celebrare la complessità della Storia e delle storie, non la nostra, ammesso che esista. Le nostre individualità sono state sciolte in un narratore unico ma multiforme: i dialoghi sono costruiti cercando di rendere difficile ricondurre a uno di noi una determinata frase, tranne che in alcuni casi con Martina (nei prossimi lavori faremo sparire pure lei).
Nel dialogo fra i vostri alter ego narrativi fate largo uso di stereotipi: non credete che possa essere pericoloso usarli, anche se con intento ironico?
Questa è una critica che ci è stata rivolta da più di un lettore. Anche Carlotta ci aveva avvertito del rischio di passare noi stessi per propagatori degli stereotipi che intendevamo sconfessare – quelle mise en abyme! –, in particolare agli occhi del lettore che non ci conosce. La sua (amorevole) ghigliottina ha cercato di sfoltire in tal senso il testo originale, ancora più denso di dark humour e politically incorrect del risultato finale, tutto sommato decoroso. Con l’umiltà degli scrittori esordienti, noi rivendichiamo la scelta e proviamo a difenderla. Crediamo nel potere catartico dell’auto-ironia e abbiamo ragionato che attaccare frontalmente delle narrazioni stereotipate potesse declinare in paternalismo. Avremmo potuto provare a comporre uno j’accuse impeccabile all’orientalismo, ma non l’avremmo sentito nostro. Era importante per noi prenderci in giro, mostrare un lato umano e scanzonato che potesse prestarsi anche a rimestare in alcuni luoghi comuni.
Perché?
Perché porci in una posizione autoriale da cui emettere sermoni sarebbe stato non solo controproducente, ma autoreferenziale. Nell’epoca del “non sono razzista, ma”, crediamo più utile promuovere una visione non dicotomica della diffusione degli stereotipi. Non li vediamo come una malattia, che c’è o non c’è, ma come un’aria particolarmente tossica: qualcuno ne respira di più, qualcuno riesce a inalarne di meno, ma non esistono i sommersi e i salvati. Tutti partecipiamo della società e contribuiamo a reiterare stereotipi degradanti e offensivi, inconsapevolmente (appellarsi alla propria buona volontà è pleonastico). Prendere in giro noi, nella veste delle nostre caricature che avevamo inserito come protagonisti nel testo, è stato il miglior modo che abbiamo trovato per suggerire questa interpretazione. Infine, molto più prosaicamente, ci sembrava importante divertirci nell’atto di scrivere. Uno mentre si diverte non pensa troppo alle conseguenze, come spesso accade, appunto, nei casi di gravidanze indesiderate.
Dopo un viaggio come questo, cosa ritenete che possa definire un popolo?
Una risposta esaustiva a questa domanda trascende le nostre capacità. E, per un vizio post-strutturalista, ci troviamo pure a poco agio con il concetto di “popolo”, che stimiamo solo poco di più di quello di “nazione”. Mantenendoci entro i confini del libro, ci limitiamo a condividere la nostra idea che ogni comunità umana abbia bisogno di accordarsi su un passato comune. Come dimostra l’attualità politica, questo passato è costantemente in fieri; irriducibili sostenitori di un regionalismo esclusivo e ossessivo possono riciclarsi paladini dell’italianità nell’arco di pochi mesi. Se dovessimo nominare l’idea preconcetta sulla Transnistria, fra le tante decadute, che ne è uscita più ammaccata dal nostro viaggio, probabilmente l’immagine di “ultimo paradiso del comunismo”, su cui reporter d’assalto in cerca di esotismo a buon mercato hanno imperniato così tanti articoli, sarebbe la prima a sovvenirci. Il titolo del nostro libro, dove “Lenin”, solitamente abbinato a concetti come “passato” o “nostalgia”, viene spudoratamente affiancato a “futuro”, entra subito a gamba tesa su questa narrazione. Dedurre dalla falce e martello sulla bandiera e dalle onnipresenti statue del leader del proletariato la conclusione che in Transnistria siano ancora comunisti è indice di un qualunquismo davvero sconvolgente, secondo noi.
Com’è, invece, la situazione in Transnistria?
Per come l’abbiamo capita, la situazione è allo stesso tempo più banale e più profonda: in uno stato non riconosciuto, dove i servizi sociali sono ridotti al minimo così come gli stipendi, smantellare il paesaggio urbano per creare una smart city gentrificata e scintillante non rientra necessariamente tra le priorità sentite dalla popolazione. Se anche le condizioni materiali lo permettessero, prima di pensionare un passato, è comunque consigliabile trovarsene un altro. Puoi avere milioni di buoni motivi per lasciare il tuo partner, ma a una certa età è probabile che le persone non si aspettino di trovarne uno migliore dopo la separazione, ma di rimanere da sole, specie se – proclami a parte – da sole lo sono almeno da due decenni. Il comunismo in Transnistria non è stato più benevolo o umano di quello che ha dominato altre (parti di) repubbliche sovietiche. Non lo è quindi il suo ricordo. Semplicemente, è stato l’unico momento in cui la popolazione locale abbia sentito di contare qualcosa, di essere pur labilmente connessa con altri esseri umani nel mondo. Forse verrà l’Unione Europea e avrà i suoi occhi, ma nel frattempo meglio andarci cauti con la demolizione: si potrebbe correre il rischio di trovarsi a metà senza un progetto di riqualificazione.
Un apporto fondamentale alla narrazione è quello delle fotografie, che rendono l’apparato iconografico fondamentale nel suo alternarsi al testo. Quanto ha contato la cristallizzazione dell’immagine nello sviluppo della narrazione?
Vedere le foto stampate a colori tra le pagine del libro è stata un’altra sorpresa, nata da un’inattesa proposta di Carlotta, nonché dalla fortunata combinazione astrale che ci ha fatto vincitori di un bando SIAE con il quale sono stati coperti i costi della stampa a colori. I luoghi narrati ben si prestano ad attizzare la fantasia, soprattutto di chi magari non ha mai avuto modo di trovarsi di persona oltrecortina. La scelta degli scatti è stata particolarmente ardua proprio per la doppia esigenza di raccontare la parte più vicina all’immaginario consueto, ma anche di sfidarla, ritraendo elementi inattesi e così evitando un’esposizione di cartoline d’epoca in tema post-sovietico. Per raccontare i Balcani, quello che qualcuno ha definito non tanto come una regione, ma piuttosto “la proiezione di un’anima collettiva e multiforme che si dilata fra nostalgie e bellezze”, oltre alle voci, alle storie, servivano degli occhi, sotto forma di questo specchio talvolta deformante che sono le fotografie. Sfogliare il libro dovrebbe ricordare il gioco infantile con il caleidoscopio: dalle anziane velate ai mercati coperti, dal carretto trainato da cavalli sfiancati ai giovanissimi skater sul Dnestr, queste immagini si alternano quali saltimbanchi circensi, con lo sguardo sempre un po’ triste pur sotto il loro trucco pesante che pretende di nascondere amarezze e quotidiano.
Il futuro dopo Lenin è un libro che, oltre a raccontare, offre numerosi spunti di approfondimento e di studio. Che tipo di ricerca avete affrontato?
Come collettivo, possiamo consultare fonti in sei lingue – e specialmente il russo è una risorsa dal valore incommensurabile. Collaboriamo con giornali autorevoli, come Limes, Eastwest e Balkan Insight, che ci invitano a un minuzioso fact-checking, e almeno due di noi coltivano velleità accademiche: nel nostro modo di lavorare, condurre ricerca prima, durante e dopo il nostro periodo sul campo è un’operazione naturalmente connessa con lo scrivere qualunque cosa che sia pensata per la pubblicazione. Siamo ossessionati dall’idea di produrre un prodotto che sia “falsificabile” in senso popperiano, ovvero che contenga informazioni verificate e verificabili. Una settimana sul campo implica almeno due mesi di ricerca precedente e seguente. Come accennato sopra, uno degli obiettivi del libro è trasmettere la nostra passione per l’Europa centrale e orientale, i Balcani, il mondo post-sovietico: inserire aneddoti, curiosità e spiegazioni più articolate è stata la nostra strategia per incuriosire il lettore meno avvezzo, magari rievocando qualcosa di a lui familiare e utilizzarlo come gancio per una digressione più ambiziosa. Le nostre informazioni principali le reperiamo su Internet, dove prestiamo molta attenzione nella selezione delle fonti, e da pubblicazioni cartacee specializzate. Oltre a questo, in Transnistria e sul percorso abbiamo condotto interviste mirate, frammenti delle quali sono finiti del libro, o come citazione diretta o come informazione integrata nel testo. Finora ci sono stati fatti notare solo due errori (una data e una denominazione), un risultato ben superiore alle aspettative, per un libro dalla gestazione così breve. Speriamo che l’aumentare dei lettori ci permetta di scovare altri refusi o perlomeno ricevere critiche ulteriori.
Ci sono altre zone di confine che vorreste visitare per realizzare un’altra narrazione di viaggio?
Abbiamo molti progetti in pentola. A maggio siamo stati una settimana in Macedonia e Albania, collezionando materiale per scrivere reportage su vari temi (l’emigrazione italiana e la comunità bektashi in Albania; Suto Orizari, l’unico comune rom d’Europa; la storia dell’Olocausto in Macedonia). Questo lavoro è stato anche il rito d’iniziazione di un nuovo membro: Simone Peyronel, videomaker e fotografo. L’innesto di Simone ci permette di ampliare il range dei prodotti che possiamo confezionare (abbiamo pubblicato i primi video), volando dove non volavano le aquile (si mormora di un cortometraggio da portare in giro a festival cinematografici). Ad agosto siamo planati sulle tre repubbliche baltiche, dove tratteremo ancora di post-socialismo e minoranze, con la sfida dichiarata di raccontarle non come un blocco unico e omogeneo (in tutto esteso più di metà della superficie italiana, comunque non un territorio insignificante), bensì come Lituania, Lettonia e Estonia, Paesi “normali” con differenziazioni sociali e nazionali interne. Da questa incursione nordica potrebbe nascere un libro, ma la parola spetta al campo. Noi rimaniamo eccitati dai confini invalicabili e, come descritto sopra, pensiamo che anche uno steccato tra giardini possa costituirsi come tale se investito di una narrazione che così lo costruisce. Con la nostra opera, proviamo a contribuire ad abbattere questi steccati o, perlomeno, a perforarli per far passare l’aria e permettere di perdersi negli occhi dell’Altro per qualche istante.
‒ Marco Enrico Giacomelli
volna mare ‒ Il futuro dopo Lenin. Viaggio in Transnistria
DOTS Edizioni, Bari 2018
Pagg. 160, € 14
ISBN 9788894328806
www.dotsedizioni.it
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