Noi che galleggiavamo. Il libro di Julian Charrière e Nadim Samman
Nel 1946 gli abitanti di Bikini furono trasferiti su un altro atollo, per poter permettere lo svolgimento di esperimenti “per il bene dell’umanità e per mettere fine a tutte le guerre nel mondo”. Con questa bugia aveva inizio l’Operazione Crossroads, i test atomici degli Stati Uniti. E prende le mosse da questi eventi il libro di Julian Charrière e Nadim Samman.
Nadim Samman e Julian Charrière conducono una ricerca artistica e filosofica intorno agli effetti dell’azione dell’uomo sul pianeta. Il viaggio che ha dato vita al libro As we used to float (Noi che galleggiavamo, per l’edizione italiana a cura di Edizioni MAMbo) ha origine dalla volontà di scoprire un luogo emblema della hybris umana. Le isole Marshall vennero devastate e contaminate da ventitré test nucleari. Gli autori hanno trascorso un mese in quell’area ‒ oggi difficilmente raggiungibile – e si sono interrogati su quale possa essere la modalità più efficace e corretta di agire come testimoni di una fase dell’evoluzione dell’uomo che sta segnando il pianeta.
Samman è curatore, Charrière artista, ma nelle loro ricerche i ruoli sono messi da parte, soprattutto nella fase di indagine empirica, che si svolge con spedizioni ai confini del mondo, in luoghi segnati da disastri antropici. In questo caso, con immersioni a sessanta metri per scoprire i relitti delle flotte affondate dalle esplosioni, ed esplorazioni in superficie, nell’inferno dei paesaggi paradisiaci devastati.
Tornati a casa, hanno deciso di raccontare in un libro una delle più atroci storie di arroganza dell’uomo verso la natura e verso i suoi simili. Una narrazione che tuttavia non è né reportage di denuncia né saggio critico. Piuttosto, è un racconto che li condensa entrambi, seguendo la formula del diario di viaggio. La storia di un eterno duello in cui gli stessi autori si trovano coinvolti, forzati a riflettere su ogni parametro, mentale e fisico, che mantiene in equilibrio il sistema uomo-natura.
RIPERCORRERE LA CONSAPEVOLEZZA
C’è un continuo senso di ondeggiamento lungo tutta la narrazione. Ondeggiano i protagonisti tra i relitti, le palme al vento, gli squali tra i sub… Un movimento in battere e levare, scandito dal respiro che, come descritto nelle ultime pagine, sott’acqua non è più inconsapevole, bensì controllato. Si trasforma da riflesso istintivo ad azione consapevole, e scandisce il tempo dell’autonomia residua, ricordando ai sub la condizione di animali deboli.
Questo è il filo rosso del libro, un ripercorrere la consapevolezza, sia a livello collettivo che individuale, del ruolo dell’uomo in questo pianeta.
I protagonisti fluttuano sopra un campo di battaglia abbandonato, dove si è svolta forse la più atroce delle lotte tra uomo e natura. A loro volta, a ogni esplorazione delle rovine post-atomiche, Nadim e Julian vivono la loro lotta personale, tra le difficoltà della sopravvivenza negli abissi, nelle temperature soffocanti delle spiagge, nei territori dei granchi del cocco, in balia di tempeste. Affrontano la natura, restituendo a ogni passo vivide immagini, che fluttuano anch’esse: ondeggiano tra il presente e il passato. La visione di un bunker o di una noce di cocco modificata dalle radiazioni diventano infatti pretesto per dischiudere episodi storici. Sono proprio le immagini il punto di partenza e di arrivo di questa storia. Gli americani documentarono le esplosioni, restituendo inquietanti cartoline propagandistiche con cui distorcere la percezione mondo.
Gli autori, servendosi di moderne tecnologie di ripresa, riportano a galla immagini nuove dagli abissi dell’Oceano ‒ e della Storia. E come fluttuano i corpi e le immagini, così fanno anche i pensieri. Le riflessioni oscillano dalle esperienze contingenti degli autori, dalle osservazioni di paesaggi, reperti post-nucleari e personaggi, a considerazioni sulla geopolitica post-coloniale. La descrizione di un diluvio improvviso contro il sole rosso fuoco diventa ad esempio una fluida metafora della deflagrazione atomica. Infine, pervadono la narrazione riflessioni personali, relative alla percezione di sé stessi come esseri fragili. É l’Uomo, in questo libro, il protagonista. Le sue gesta sono raccontate a livello macroscopico nel ripercorrere le tappe storiche dei test nucleari, e ravvicinato, tra momenti di panico degli autori nello spingersi oltre i propri limiti (“anche una bella scenografia può assumere un aspetto ostile, ricordandoti che questo non è il tuo posto”).
LA NARRAZIONE
Sul fronte stilistico la scrittura è fluida, con descrizioni dettagliatissime ma agili, quasi cinematografiche. Gli autori ci trascinano con sé, ed è impossibile non emozionarsi di fronte al sole rovente che si mescola alla tempesta, impossibile non trattenere il fiato durante la discesa a meno sessanta metri.
La narrazione accurata di ogni situazione e sensazione è funzionale a un’immersione del lettore insieme agli autori. Il risultato è che, nella lettura, come anche nelle installazioni artistiche di Charrière, ci si sente pienamente parte dell’esplorazione.
Questo è il valore del libro, dunque. Questa è la sua posizione come oggetto sensato all’interno del discorso artistico attuale: un coinvolgimento pieno e totale dentro un’esperienza sensoriale, emotiva, cognitiva. Pur essendo rimasti in superficie e lontani dai quei luoghi, ci sente fradici, zuppi e appesantiti dalla verità della Storia, e al contempo liberati e riappacificati con la natura.
Con una riflessione finale su questo museo subacqueo abbandonato, gli autori sono consapevoli che ogni tentativo di riuscire a portare a galla e rappresentare quello che hanno visto molto probabilmente fallirà. Ma chiudono con la coscienza di essere testimoni e creatori di immagini, e proprio da qui nasce quindi il lavoro artistico, da queste due identità che devono essere essenziali nell’uomo: quella di testimoni e quella di creatori di immagini.
Il libro si unisce al passo di quegli sperimentatori che cercano di essere uomini del proprio tempo, testimoni critici, e al contempo non reporter, bensì creatori di nuovi codici visivi di comunicazione.
Un documento in bilico tra la più urgente attualità e un paradossale anacronismo, un racconto del passato e del futuro al contempo, redatto con un linguaggio liquido, limpido, abissale, come l’oceano che è protagonista silenzioso di questo diario.
CHARRIÈRE E SAMMAN
Julian Charrière è un artista franco-svizzero di base a Berlino. Il suo lavoro attraversa le scienze ambientali e la storia delle culture. Utilizza diversi media e le sue opere sono spesso il risultato di esplorazioni in luoghi remoti della Terra segnati da disastri ambientali antropici. Ha studiato con Olafur Eliasson insieme a Julius Von Bismark, Felix Kiessling e altri giovani autori con cui continua a collaborare, all’Institut for Spatial Experiments. Il suo lavoro è rappresentativo di una delle linee di ricerca più interessanti sul panorama contemporaneo, quella che coniuga l’arte e la scienza e volge l’attenzione agli effetti dell’azione dell’uomo sul pianeta. Il suo lavoro, Future fossil spaces, è stato esibito alla Biennale di Venezia nel 2017. Attualmente è in corso la sua personale All We Ever Wanted Was Everything and Everywhere a cura di Lorenzo Balbi al MAMbo.
Nadim Samman è curatore e storico dell’arte con un Ph.D. al Courtauld Institute of Art. È stato fondatore della prima Biennale dell’Antartico e dell’Antarctic Pavilion alla Biennale di Venezia (2015, 2017). Nel 2016 ha curato la quinta Moscow International Biennale for Young Art e nel 2012 la Biennale di Marrakech.
‒ Lucia Longhi
Julian Charrière e Nadim Samman – Noi che galleggiavamo
Edizioni MAMbo, Bologna 2019
Pagg. 154, € 10
ISBN 9788896296509
www.mambo-bologna.org
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