Il piagnisteo dei librai (di alcuni librai)
In molti pensano che la chiusura delle librerie dipenda dalla concorrenza di Amazon & Co. Ma siamo sicuri che qualche responsabilità non spetti anche ai librai e alla scarsa voglia di cambiare il modo di vendere cultura? Le riflessioni di Massimiliano Tonelli.
L’inizio del nuovo anno (e del nuovo decennio!) si è caratterizzato dal trito dibattito sulla chiusura degli spazi culturali. Ogni saracinesca abbassata di libreria e spazio vagamente associabile alla distribuzione di prodotti culturali (teatro, cinema, museo) genera molto coinvolgimento sui social e tante interazioni e dunque publisher e giornali fanno la corsa a coprire le notizie. Pochissimi o nessuno frequenta quella data sala cinematografica, ma la notizia della chiusura sono tutti disposti a condividerla con veemenza e cipiglio indignato.
E allora ci siamo dovuti sorbire le lagne sulla Libreria del Viaggiatore a Roma, sulla Feltrinelli International ancora a Roma, le statistiche sulle chiusure di librerie nella Capitale negli ultimi anni, la serrata della storica libreria Paravia di Torino e, sempre a Torino, un accorato post dell’ex direttore di Stampa e Repubblica Mario Calabresi sulla chiusura dell’ultima edicola superstite in Piazza Statuto.
Il risultato social più cospicuo c’è stato verso la metà di gennaio, quando sui social è comparsa la storia della libreria Paravia di Torino e della sua chiusura nonostante il nome e il blasone. “Nulla possiamo contro Amazon”, gridavano le proprietarie costrette alla serrata dalla multinazionale famelica e cattivona. Nulla di più straordinariamente efficace per il pubblico medio di Facebook. E così anche questo contenuto ha impazzato di like, commenti e condivisioni, facendo sedimentare nei lettori un messaggio semplice: le librerie chiudono per colpa di Amazon perché la gente vuole sconti e comodità. Ma il messaggio è semplice o sempliciotto?
“Qualsiasi business, specie quello relativo al commercio al dettaglio, o cambia o muore. Vale per tutti e anche per chi, come merce, vende cultura”.
Intendiamoci, non v’è dubbio che le piattaforme digitali abbiano messo totalmente in discussione la filiera distributiva. Non vi sono neppure tanti dubbi su una concorrenza che per certi versi – anche a causa di normative inadeguate – si configura come poco leale. Pochi dubbi anche su problematiche burocratiche e, ancor peggio, fiscali. Detto ciò, davvero pensiamo che le persone vogliono solo “sconti e comodità” quando vanno alla ricerca di un libro? Sul serio non diamo alcun valore all’altra grande richiesta che viene dai consumatori, che è quella di vivere una esperienza la quale, come tale, non è sostituibile da una customer journey digitale?
Molti librai (e perfino qualche edicolante, anche se lì le colpe sono assai minori) dovrebbero riflettere sul fatto che, essendo causa del loro stesso male, dovrebbero piangere se stessi. Qualsiasi business, specie quello relativo al commercio al dettaglio, o cambia o muore. Vale per tutti e anche per chi, come merce, vende cultura. Vendere cultura non è un salvacondotto per non innovare, per non investire, per utilizzare i proventi della propria attività distraendoli su altre attività in luogo di investire sull’attività stessa, non è un salvacondotto per non inventare nuove formule, nuovi format, mescolare i piani, coinvolgere i pubblici con iniziative, puntare su tutte le età, trasformare il proprio esercizio commerciale insomma in un luogo non prescindibile, identitario, non soppiantabile o delocalizzabile.
Solo il commercio stanco, fatto senza aggiornamento, senza voglia, senza amore, senza approfondimento, senza pensiero, senza rischi viene soverchiato dalle piattaforme digitali. Sarebbe interessante parlare dunque delle tante librerie che ce la stanno facendo, che si sono trasformate in punti di riferimento, in piazze, in centri di servizi culturali, in luoghi di incontro dove andare a studiare, a fare un appuntamento di lavoro, a bere un tè oltre che a comprare un libro. Ce ne sono parecchie, il problema è che seguire il loro esempio può risultare faticoso per chi non ha più tanta voglia di fare quel mestiere.
‒ Massimiliano Tonelli
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #53
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