Ammettiamo che l’arte contemporanea (degli ultimi dieci anni? degli ultimi venti?) abbia una particolare sensibilità per le questioni socio-politiche. Ma perché dovremmo ammetterlo? Guardiamo ad esempio alle vendite in asta: il risultato più alto nel 2019 l’ha fatto Jeff Koons, che soltanto a costo di peripezie sofistiche arditissime si può qualificare come artista “impegnato”.
Ammettiamo anche che l’arte contemporanea sia monolitica, e che quindi si possa individuare una tendenza dominante (non è così, molto semplicemente).
Ammettiamo che in questo già disorientante complesso di forze interlacciate si interrompa la dinamica oscillatoria debitamente e lungamente spiegata e “provata” da Gillo Dorfles e Renato Barilli (che quindi l’arte-non-più-retinica propugnata da Duchamp non sia stata seguita e affiancata, diacronicamente e sincronicamente, dai più vari ritorni-all’-ordine, astratto e figurativo, concettuale e pop – prescindiamo da tutto questo – anche se è palesemente una follia semplicistica).
Ammettiamolo.
TRE STRATEGIE PER FAR DIGERIRE L’INDIGERIBILE
Ammesso, non è ancora concesso. Come far(lo) con-cedere il lettore?
La prima soluzione consiste nell’indebolire, nel relativizzare, nel mettere in prospettiva questa “particolare sensibilità”, che assumerà tuttavia il ruolo di movimento esemplare, eloquente, stimolante, proficuo per il ragionamento ecc. Insomma, si può fare come ha fatto recentemente Raffaele Gavarro, scrivendo: “Se c’è una cosa che possiamo dire da subito e con certezza dell’arte che è politica, nell’ambito di quello che è lo stato dell’arte e della società attuali, è che essa è un’altra delle modalità possibili dell’arte di corrispondere alla necessità di ri-trovare un ruolo che sia determinante del proprio sé attraverso uno spostamento fuori dal proprio sé storicizzato, nella convinzione di potere (ri-tornare a) essere decisiva nelle dinamiche della realtà analogicodigitale, che a sua volta agisce continuamente su quelle sociali” (L’arte senza l’arte, Maretti, 2020, p. 83, sott. mia).
La seconda soluzione (che non esclude la precedente) consiste nel portare all’attenzione del lettore un numero consistente, rilevante e ragionato di esempi. Magari evitando di citare due, tre, quattro volte il medesimo esempio, magari proveniente sempre dallo stesso ambito geografico e magari per sostenere tesi diverse. E invece qui ci troviamo riproposti come la proverbiale peperonata, ad esempio – appunto –, sempre gli stessi spettacoli della stessa edizione dello stesso festival teatrale, cioè il Festival d’Avignone (in Francia). Fra l’altro, conviene conoscere gli esempi che si citano, visto che, almeno in teoria, servono a sostenere le proprie tesi: ad esempio – appunto – documentarsi (basta poco, molto poco) per capire che Art Basel Cities non è una fiera (e che Palermo non ha una Biennale: Manifesta cambia città ogni due anni…) e, pur senza arrivare all’estremo inconcepibile di parlarne dopo averla visitata, magari non basarsi soltanto su un articolo di Le Monde (il celebre quotidiano francese); ad esempio – appunto – se si parla di “vendetta delle donne” nel romanzo poliziesco, magari andrebbe citata la celeberrima trilogia di Stieg Larsson in luogo di due romanzi francesi; ad esempio – appunto – per parlare del canadese Kent Monkman si potrebbe evitare di citarne una piccola mostra in un’istituzione parigina (in Francia) sulla base di una recensione pubblicata su un sito specializzato francese; ad esempio – appunto – quando si prendono in considerazione mostre ampie e complesse come The Color Line (allestita, fatemici pensare, ah sì, a Parigi) magari si dovrebbe evitare di liquidarle in un paio di righe, peraltro copia-incollate (con le virgolette, questo sì) da un articolo di Le Monde (il suddetto quotidiano francese).
La terza soluzione (che non esclude le precedenti) consiste nell’evitare di scoprire l’acqua calda. Nella fattispecie, se un autore come Jacques Rancière (che è vivente ma francese, quindi dovrebbe poter rientrare nelle letture dell’autrice) ha dedicato tutta la terza parte del suo Disagio dell’estetica proprio a questi temi, non è forse il caso di: a. leggerlo; b1. scrivere su un altro tema; b2. scriverne comunque, ma citandolo ed eventualmente discutendolo, smentendolo, sbeffeggiandolo, stroncandolo – tutto, ma senza “fingere” che quel libro non sia mai stato scritto. (Idem con Jean Clair: non pervenuto.)
L’ARTE SOTTO CONTROLLO – SIGNORA MIA SAPESSE!
E dunque cos’è questo libro? Un’accozzaglia poco digerita e molto CTRL-C CTRL-V di esempi scelti con malafede (accademica e oratoria, s’intende), a cui seguono molte (non troppe, per fortuna) tesi prive di qualsiasi argomentazione degna di questo nome (e di questo editore) in cui si sostiene una sorta di dittatura gender che talora si affianca e talora si scontra con una dittatura femminista che talora si affianca e talora si scontra con una dittatura nera che talora si affianca e talora si scontra con una dittatura ecologista che talora si affianca e talora si scontra con una dittatura… che al mercato mio padre comprò.
Un esempio, già che ci siamo? “Queste forme di protesta sono radicali […] sono pure e semplici censure”. “Queste” quali? Nelle pagine appena precedenti, come accennato, c’era tutto e il contrario di tutto, dal #metoo allo studente del New Jersey che chiede un disclaimer all’inizio del Grande Gatsby. La strategia è nota: se vale tutto, niente vale.
Ci vorrebbe tempo in abbondanza e una maniacalità certosina anche solo per elencare le contraddizioni, spesso di una tale ingenuità… Ad esempio: questa nuova vague moralizzatrice e censoria operata da cattivissime donne lesbiche nere e magari pure comuniste, questa vague è nuova anche perché, secondo l’autrice, “non dipende più dallo Stato” e, al contrario, “è opera di associazioni, di gruppi, perfino di gruppuscoli”. Signora mia, ai miei tempi… Ecco, a quei tempi là poteva succedere che Marcel Duchamp presentasse la sua Fountain (che di politico in senso diretto non aveva nulla) alla Society of Independent Artists, di cui peraltro era membro del consiglio, e che il gruppuscolo lo “censurasse” e che il primo ready-made non venisse mai esposto (come erroneamente scrive Angelo Crespi in Ars Attack, uscito nella stessa collana dello stesso editore). Son cose che capitano, anche nelle migliori famiglie, anche ai buoni vecchi tempi, anche agli artisti che non si sporcavano con la politica e la società.
ARTE PATRONA O ANCELLA? TUTTO IN UN BIGNAMI
Ma torniamo al libro. Senza colpo ferire, siamo alla seconda parte. Dove si tratta storicamente della questione autonomia/eteronomia dell’arte in un bignamino con curiose dimenticanze (l’idealismo tedesco è sparito d’un tratto: ciao ciao Kant, ciao ciao Hegel ecc.) e curiose presenze (George Wilson Knight, pace all’anima sua, magari avrebbe potute cedere il suo spazio al suddetto Immanuel), con bizzarre storie dell’arte (“Fino alla fine degli anni cinquanta, una parte dominante [sic] della produzione artistica novecentesca si è inserita in una scia chiaramente formalistica”: ciao ciao Frida Khalo) e bizzarre storie delle mostre (la mitica L’informe: mode d’emploi di Rosalind Krauss e Yve-Alain Bois viene citata – senza menzionare i curatori, peraltro – a margine della mostra, progettata ma mai realizzata, di Claude Gintz).
E siamo alla parte numero tre, che ruota intorno alla domanda: ammesso che l’arte possa avere fini etici, siamo certi che possa raggiungerli? E qui, anche qui, si sarebbe potuta imbastire una bella discussione. Che invece viene troncata, zittita da frasi tipo: “Noi sappiamo che l’arte sociale vuole essere edificante”. Noi chi? E soprattutto: davvero l’autrice crede che tutta, o almeno buona parte di quella che chiama “arte sociale” intenda essere edificante? Ma non è finita qui: “L’arte sociale […] rinnega l’approccio formalista”.
Ipotesi spacciate per tesi al fine di dimostrare che l’“arte sociale” contemporanea non può accettare il funzionalismo morale indiretto, ovvero coniugare l’autonomia espressiva del linguaggio artistico con finalità eteronome a carattere socio-politico. E per sostenere questa impossibilità si scade talora in ingenuità davvero liceali. Ad esempio: “L’arte sociale è un’arte di contenuti […]. Per ‘contenuto’ si intende il soggetto, in opposizione alla forma, allo stile, alle qualità ‘aspettuali’ di ciò che viene mostrato”. Voi che avete apprezzato il montaggio, le musiche, il cut-up, il doppio canale ecc. di Black News di Kahlil Joseph, al contempo recependo il messaggio “sociale”… forse non esistete, e non esiste nemmeno Joseph, forse non esiste nemmeno la Biennale di Venezia.
Ma attenzione: se “il significato non è immediatamente insito nell’immagine. Come potremmo aspettarcene un insegnamento morale e politico”? Cioè: o il messaggio è a prova di scemo, scritto in capital letters e possibilmente elementare, oppure non può essere efficace. “Anche quando […] il contenuto e la forma creano un’opera indissolubile, il riferimento simbolico, indiretto, è meno efficace dell’immagine referenziale diretta”. Se avesse ragione l’autrice, immaginate la quantità di incidenti, con tutti quei cartelli privi di referenzialità diretta sul ciglio della strada!
Nulla, lei è davvero convinta, per lei – ad esempio – Banksy non esiste, e infatti non lo cita mai, altrimenti come potrebbe scrivere che “l’efficacia pragmatica è inversamente proporzionale all’artisticità”?
FINORA ABBIAMO SCHERZATO
Infine, il coup de théâtre. Nella quarta parte, l’autrice – sempre la medesima, davvero – scrive: “Eliminare qualsiasi considerazione sul bene e sul male dalla nostra esperienza estetica impedirebbe di capire alcune delle forme artistiche”.
Mon dieu. E ora che si fa? Accogliamo l’“invito ad adottare un moralismo moderato”.
Che dire: ancora una volta, gli animali sono tutti uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri. Fuor di metafora: ci sono dei limiti oltre i quali l’arte non può andare, ma quando sono superati lo stabilisce un essere umano possibilmente residente in Occidente, bianco, eterosessuale, abbiente…
E dire che sarebbe bastato leggere qualche pagina di Rancière: “Per comprendere ciò che è implicato nella svolta etica che colpisce oggi l’estetica e la politica, è necessario precisare il senso del termine. ‘Etica’ è, in effetti, una parola piuttosto alla moda, ma la si considera, di solito, come una semplice traduzione più eufonica della vecchia ‘morale’”. E tuttavia, “il regno dell’etica non è quello del giudizio morale circa le operazioni dell’arte o le azioni della politica. Al contrario, esso indica la costituzione di una sfera indistinta nella quale si dissolve la specificità delle pratiche politiche o artistiche, ma anche ciò che costituiva il fondo della vecchia morale” (Il disagio dell’estetica [2004], trad. it., ETS, Pisa 2009, p. 107).
– Marco Enrico Giacomelli
Carole Talon-Hugon – L’arte sotto controllo
Johan and Levi, Monza 2020
Pagg. 110, € 13
ISBN 9788860102362
www.johanandlevi.com
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