Nasce OBOE: nuova rivista accademica sulle mostre e le opere. Intervista ad Angela Vettese
Nasce una nuova rivista accademica (due numeri l’anno) dedicata al mondo dell’arte contemporanea e delle mostre. A dirigerla la critica e docente IUAV Angela Vettese, che ci racconta come funzionerà
Il gruppo di lavoro è composto dalla direttrice Angela Vettese e dalle ricercatrici Clarissa Ricci, dell’Università di Bologna e Camilla Salvaneschi, divisa tra IUAV e Aberdeen. Il nuovo nato OBOE è un journal peer reviewed che parla delle “opere come atti comunicativi” e delle mostre, con un network internazionale di supporters, come Bruce Altshuler, Joan Jonas e Dora Garcia, per citarne alcuni. Primo numero dedicato interamente alla Biennale di Venezia, ma è già in corso la call for papers per partecipare alla “prossima puntata” (qui i dettagli). Abbiamo parlato di questa impresa con la direttrice Angela Vettese.
Il 2020 segna l’anno di nascita di OBOE una rivista accademica interamente dedicata al mondo delle Biennali. Ci racconti la genesi di questo progetto?
Dieci anni fa ho organizzato un convegno sulla Biennale di Venezia i cui atti, Starting from Venice (Et./al, a cura di Clarissa Ricci) recano in copertina la parte di Padiglione Stati Unti che l’università Iuav, dove insegno da vent’anni, fece allestire a Bruce Nauman in aula Magna. Il curatore, Carlos Basualdo, allora insegnava da noi e insieme a Nauman concepirono un padiglione che partiva dal tempietto classico dei Giardini ma poi occupava anche il tessuto cittadino, in particolare le due maggiori Università. Un manifesto di ciò che la Biennale, e in generale la cultura artistica contemporanea, può fare per le città italiane e in particolare per Venezia: uscire dai recinti ed entrare nel tessuto abitato e produttivo, soprattutto nelle fabbriche del sapere. Non è affatto un’idea nuova, gli anni Novanta è duemila ci hanno quasi nauseato con arte pubblica e relazionale; la documenta di Atene è stata quasi grottesca nel pensare di entrare in una realtà così problematica offrendo soluzioni, opinioni, sollecitazioni spesso disattese.
Cosa rendeva quindi il tutto speciale?
La Biennale di Venezia, e in particolare i deprecati ma preziosi, elastici, inventivi Padiglioni nazionali, non sono operazioni discontinue, sono presenze a loro modo costanti che ribadiscono l’identità di Venezia. Contrariamente a quanto ce ne dice l’estetica ottocentesca, e come ho ribadito nel libretto Venezia Vive (Il Mulino 2017) l’identità della città sta nel continuo aggiornamento e nel dovere crescere su se stessa, appagando i tentativi dell’avanguardia. Nel caso migliore le mostre periodiche operano in questo duplice binario: informazione per gli specialisti, ma per il pubblico vasto, invece, incrocio tra heritage e presente, nonché tra quotidianità ed esperimento inconsueto. Da allora ho sempre scritto su questi temi. Clarissa Ricci, borsista al Getty Institute, altrettanto. Camilla Salvaneschi ha orientato la sua tesi di dottorato sulle riviste e parte di ciò stava nel costruirne una. Così abbiamo pensato che potevamo riunire le nostre forze.
Chi sono i protagonisti di questa storia?
Nel 1994 uscì il libro di Bruce Altshuler Avant-garde in Exhibition; b 1996 uscì Thinking about Exhibition di Greenberg, Nairne e Bruce Ferguson. Da allora gli studi su come si crea un display espositivo e che messaggio veicola non si contano. Nel 2008 abbiamo impostato con Marco De Michelis, Carlos Basualdo e altri colleghi un nucleo di ricerca sull’idea di “fare mostre per fare storia”, sempre allo Iuav. Poi hanno iniziato a esistere centri di studio su questo tema in molte altre università. Insomma abbiamo capitalizzato la città che ci ospita, la presa diretta con molti artisti e curatori che ci transitano, da Antoni Muntadas a Joan Jonas, Mark Nash, Gediminas Urbonas (tutti anche Visiting professor Iuav). Abbiamo sviluppato il nostro modo di lavorare tra ricerca d’archivio e un’attitudine “hands on” o quantomeno “spritz insieme”, cosa che credo necessaria per chi studia arte contemporanea, benché indigesta per chi studia l’antico con metodi tradizionali.
Il tema delle Biennali non è una novità per te, lo segui da tantissimo tempo. Non a caso nel 2009 la seconda edizione del festival dell’arte Contemporanea di Faenza si intitolava On Biennials/Tutto sulle Biennali….
Indubbiamente: anche là era coinvolto Basualdo (con Pier Luigi Sacco, ndr). Tuttavia vorrei sottolineare che OBOE non vuole essere una rivista sulla Biennale di Venezia, sulle biennali in generale e nemmeno sulle mostre. L’abbiamo chiamata OBOE perché è un acronimo che può parlare anche da solo. La mostra è un atto sinfonico, è una musica a più livelli e poi voci. Ma è pur sempre fatta di opere. Non credo che un’opera possa dirsi tale se non prevede di essere esposta, se non include la possibilità di porsi come atto comunicativo. Può non succedere, ma l’ostensione deve esserci contemplata.
Quindi cosa è OBOE?
È una rivista sulle opere come atti comunicativi, laddove il luogo della comunicazione, quel contesto che spesso cambia il testo, è profondamente rilevante. Mi sembra giusto anche precisare che i luoghi espositivi possono essere di vario tipo: non dimentichiamo che i Salon, padri delle biennali insieme agli Expo, erano fiere dov’è si vendeva. Sono mostre anche le fiere e viceversa. Sono molto felice che sia in uscita anche il volume DOUBLE TROUBLE (Scalpendi, a cura di Cristina Baldacci, Clarissa Ricci e mia) in cui vari autori internazionali indagano il rapporto mostre/fiere. E qui entra in campo Arte Fiera di Bologna, che nel 2018 ci consenti di organizzare un convegno che è stata una delle basi sia del libro che di OBOE.
Il primo numero è dedicato a Venezia. E non poteva che essere così, sia per la tua storia universitaria che per la questione cronologica, essendo la prima biennale in assoluto al mondo. Come affrontate criticamente la storia della Biennale?
Ogni numero ha una sorta di special guest e in questo caso è Caroline Jones. Il suo punto di vista è quello privilegiato, e ci ha guidato verso un’indagine in chiaroscuro, tra pregi e fallimenti, di una formula che comunque ha saputo rinnovarsi. Non è una mostra cutting hedge, ma a volte ara terreni mai dissodati. Certo l’incontro/scontro con la città, alla quale comunque ha regalato una ‘cosa’ che include organismi privati molto attivi come la Fondazione Cini, la Peggy Guggenheim Collection, Palazzo Grassi, Stanze di Vetro, VAC e molti centri più o meno for profit.
Come è cambiato il format della Biennale di Venezia da quando hai cominciato la tua carriera di critica e curatrice ad oggi? C’è qualcosa che ti manca delle biennali del passato?
Mi manca lo stupore della prima: sedici anni, una mostra epocale dentro alla mostra come Ambiente/Arte a cura di Celant, sei ore alla Fenice a vedere Einstein on the Beach di Robert Wilson. Non ne ho mai persa una. E non ne ho mai capita una di primo acchito, nemmeno quando ho iniziato a scriverci su il giorno dopo. Sono mostre stratificate, complesse, piene di ragioni contingenti o di principio. Questo l’ho visto bene da dentro, la prima volta, quando, nel 1993, Achille Bonito Oliva mi onorò chiamandomi (con cento altri giovani critici) a co-curare l’omaggio a John Cage. Ma ogni edizione è una sorpresa, ancora adesso. Speriamo non venga uccisa come si è tentato di fare più volte. Speriamo regga al populismo che vuole, incredibilmente, meno cultura in città. Come ci fosse molto altro da fare.
E come vedi il futuro di questa (ma anche delle altre) grande mostra, soprattutto in epoca post Covid? Quale ti aspetteresti fosse il suo ruolo in un settore dell’arte ferito nel prossimo futuro? Da dove ripartire?
Ieri guardavo online un concerto del 2019 di Billie Eilish. Migliaia di ragazzi ammassati che saltavano al ritmo del suo “Bad Guy”. Lei vestita in pigiama, ma da Louis Vuitton. Che mondo lontano! I millennials sapranno reagire, come è accaduto, quando hanno quasi del tutto recuperato una libertà pre-aids. Noi boomer saremo, credo, molto più prudenti. Cioè rituali, formali, poco fisici. Ma gli artisti ci stanno dimostrando tanta voglia di corpo, da Alexandra Pirici a Cally Spooner, da Tino Sehgal a certe riscoperte, tra cui Lygia Pape. Vedremo. Certo è una cesura da cui ripartire senza panico.
Lo scorso giugno il mondo dell’arte si è indignato per la tua “bocciatura” all’abilitazione a prof. ordinario. In una intervista a Pier Luigi Panza hai criticato il metodo di ammissione basato solo sulle pubblicazioni accademiche peer-reviewed e open access e non sulla pratica, fondamentale sul nostro lavoro. E ora te ne esci con una rivistona di cui sei direttrice, con la partnership di Biennial Foundation, con un mega network internazionale e un team tutto femminile. Ti volevi prendere qualche soddisfazione?
Ho lasciato i miei lavori extrauniversitari da tempo e una rivista non nasce in due mesi. Mi sono sentita umiliata dalla sciatteria con cui si è giudicato il curriculum, perché il contemporaneo lo si studia anche facendo mostre, dirigendo fiere, scrivendo saggi per musei stranieri e non per le nostre “riviste di fascia A” da cui mancano October, Third Texts, Domus, Frieze, Artforum, Parkett. E quando ti bocciano citando la voce di Wikipedia o riportando malamente persino i titoli dei libri, ti scocci un po’. Ma OBOE, per la quale vorrei ringraziare anche l’università di Aberdeen che ci ha dato la sua partnership, con queste piccolezze non c’entra. C’entra con la volontà e il rigore di giovani studiose che ho seguito nel dottorato e che mi hanno insegnato a studiare, in un gioco reciproco di stimoli e buonumore.
–Santa Nastro
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