Divergenze parallele: Pollock e Rothko a confronto in un nuovo saggio
Jackson Pollock e Mark Rothko come i due dioscuri che hanno spostato il baricentro della pittura da Parigi a New York. Gli interpreti di due modi di concepire l’arte che si fronteggiano da secoli. Due modi di dipingere agli antipodi, accomunati dalla stessa drammatica morte.
Una foto di gruppo del 1950 ritrae gli artisti astratti americani, stanno per diventare la New York School. Ma per la stampa sono ancora The Irascibles. Ce l’hanno con il Metropolitan Museum of Art e le sue scelte riguardanti l’arte contemporanea.
GLI IRASCIBILI DI NEW YORK
La foto comprende due autori della pittura del Novecento. Al centro c’è Jackson Pollock, sguardo intenso dentro la camera, sembra che il gruppo gli giri intorno. Defilato sulla destra c’è Mark Rothko. Non guarda direttamente il fotografo, attento e ironico si è sistemato in prima fila, si è impossessato del primo posto. Ecco i due dioscuri, come li definisce Gregorio Botta nel saggio Pollock e Rothko. Il gesto e il respiro. Coloro che hanno spostato il centro della pittura da Parigi a New York. Il primo animato da una energia esplosiva, il secondo, metodico e contemplativo, immerso per tutta la vita ad approfondire una visione. I loro percorsi esistenziali si sono incrociati, condividendo amici, critici, mostre di gruppo, l’alcol, una morte tragica. Botta definisce con un ossimoro le loro esperienze, divergenze parallele, riferendosi al carattere e alla loro opposta interpretazione della pittura. Se in Pollock è il dripping a dominare, con l’esaltazione del gesto sciamanico della materia, della densità dell’io che segna il mondo, in Rothko sono i color field a prendersi la scena. A prevalere sono il silenzio, la contemplazione, il nascondimento dell’io, la luce, le velature.
I COLORI DI POLLOCK E ROTHKO
Il colore scelto da Pollock è quello timbrico, insensibile alla luce, premendolo dal tubetto sul quadro o versandolo direttamente dai barattoli. Rothko invece condivide la pittura tonale attenta ai cambiamenti di colore investiti dalla luce. Ma quando inizia il percorso che avrebbe portato alla biforcazione: pittura tonale / pittura timbrica?
A questo punto Botta avanza un’ipotesi che definisce azzardata. Per rispondere bisogna recarsi a Firenze, visitare il convento di San Marco, guardare in profondità gli affreschi del Beato Angelico, iniziando dall’Annunciazione della III cella. L’opera che costituisce l’incipit della linea che avrebbe influenzato Vermeer, Monet, Morandi e lo stesso Rothko. Qual è la sua peculiarità? L’arcangelo Gabriele e la Vergine sono molto vicini. Non ci sono colonne simboliche o fughe prospettiche come in Piero della Francesca, condividono lo stesso spazio.
A predominare è la luce, che scaturisce dall’angelo per mettere a fuoco Maria. Per la prima volta un muro diventa protagonista. Per Botta è il sorgere della pittura tonale. Quando Rothko va per la prima volta a San Marco, scopre nel Beato Angelico un maestro, che incarna l’essenzialità della pittura, come nei suoi quadri.
Pollock non è mai stato a San Marco. Se lo avesse fatto avrebbe notato i marmi finti dipinti dall’Angelico sotto la Madonna delle ombre. Una disseminazione irregolare di macchie policrome che evocano un dripping. Anche qui, per la prima volta, il gesto di lanciare colore non ha finalità mimetiche ma solo desiderio di pittura per la pittura. Pittura allo stato puro. Una lettura sopra le righe, commenta Botta. Ma niente vieta di ritenere il convento di San Marco come un potenziale scrigno di tante diverse estetiche di là da venire.
COME RIESCE ROTHKO A DIVENTARE ROTHKO?
Come riesce Rothko a diventare Rothko? A partire dai primi Anni Quaranta il fondo acquista sempre maggior rilievo. La figurazione si scioglie, diventa campitura, forma indefinita. Ogni riscontro oggettivo si smaterializza. Rimangono solo le velature di luce. I quadri conservano la loro drammaticità. I protagonisti però non sono più le figure ma le forme non oggettuali. Rothko elimina tutto ciò che si frappone “tra il pittore e la sua idea, e tra questa e lo spettatore”. Condivide in pieno l’aforisma less is more, meno è di più, quindi elimina abbellimenti ornamenti distrazioni varie. Il quadro implica bande orizzontali e verticali: le basilari linee-forza dell’universo. Non è solo un’operazione mentale, la sua pittura è coinvolgente, non superficiale, tonale. Dall’infinita estensione cromatica.
COME RIESCE POLLOCK A DIVENTARE POLLOCK?
Inverno 1947. Ripostiglio della sua casa al mare. Una tela stesa a terra. Forse inizia a dipingere con un pennello. Poi accade qualcosa. Si formulano varie ipotesi: dalla vernice troppo diluita che inizia a gocciolare al racconto dell’imbianchino della zona, Whitey Hustek: “Pollock ha voluto imitare il mio straccio per depurare i pennelli”. Comunque sia, non è vitale stabilire il come e il quando della nascita del dripping. Ciò che conta è l’innovazione che introduce nell’arte americana: pittura di superficie non prospettica. Che non nasce dal cavalletto. Non figurativa. Totalmente all-over nel senso che ogni zona della tela è dipinta nello stesso modo. Senza inizio né fine. Un processo che esclude casualità, e tanto meno caos. Come chiarisce con un telegramma al Time lo stesso Pollock per replicare a un articolo che definiva la sua pittura caotica: “No chaos, damn it”.
‒ Fausto Politino
Gregorio Botta ‒ Pollock e Rothko. Il gesto e il respiro
Einaudi, Torino 2020
Pagg. 200, € 15
ISBN 9788806245467
https://www.einaudi.it
ACQUISTA QUI il libro
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati