“L’arte ha ormai esaurito il suo scopo di creare immagini”. Così scrive Enrico Castellani (Castelmassa, 1930 – Viterbo, 2017) in un suo appunto inedito del 1965, quando ha 35 anni e una carriera ben avviata; ha già esposto nella galleria di Arturo Schwartz a Milano e in quella di Luciano Pistoia a Torino, ha già partecipato alla Biennale di Venezia e al Guggenheim International Award. Solo nel 1965 partecipa all’esposizione Zero Avantgarde 1965 nello studio di Lucio Fontana, alla mostra The Responsive Eye del MoMA di New York e alla VIII Biennale di San Paolo.
Cinque anni prima, ha fondato la rivista Azimuth e l’omonima galleria di Milano con l’amico e sodale Piero Manzoni, con il quale (scrive): “Ci si è sempre capiti per mezzo di lunghi silenzi” e che, “impassibile e come assente”, scompare prematuramente lasciando in lui un lutto insanabile, come si evince da un altro brevissimo scritto inedito del 1963, due pagine in cui allude a un certo processo creativo instaurato a quel tempo con Manzoni.
IL LIBRO CURATO DA FEDERICO SARDELLA
Adesso Federico Sardella cura per i tipi di Abscondita un’edizione glossata che raccoglie gli scritti dal 1958 al 2012, tra cui molti inediti che svelano i pensieri più intimi di un artista divenuto tra i più significativi del secondo Novecento italiano. Il libro ci porta dagli inizi giovanili, vissuti come infervorati da quel senso di utopia che pervade gli Anni Sessanta, fino al disincanto dei maturi Anni Settanta e dei decenni successivi, trascorsi tra l’eremo fortificato, ovvero il palazzo Orsini di Celleno (Viterbo), e il resto del mondo, dove espone nei musei più importanti, fino all’incoronazione definitiva che avviene con l’assegnazione del Praemium Imperiale per la pittura a Tokyo nel 2010. Castellani è il primo pittore a riceverlo e lui ringrazia con un discorso così breve da risultare un documento di fondamentale importanza per accostare questo pensiero silenzioso, voluto e coltivato con tenacia. Interessante come in uno scritto inedito del 1967, intitolato Le litanie, Castellani dimostri la sua vicinanza allo zen.
CASTELLANI E LO ZEN
In questo scritto, Castellani sintetizza concetti metafisici e spirituali comparando lo zen e la religione cattolica. Entrambi sono tesi alla ricerca dell’assoluto ma per vie opposte: il primo attraverso il nulla, il secondo tramite il tutto. La sua arte, spiega, è volta a sondare la prima via, cercando di offrire una percezione dell’assoluto. Degna di nota la sua definizione della “civiltà tecnicistica” come “sottoprodotto di un affinamento spirituale” portato avanti per millenni dalle due realtà spirituali. In un altro scritto “zen”, Castellani parla della luce bianca, che racchiude dentro di sé tutti i colori dello spettro i quali, però, restano invisibili. Allo stesso modo nei suoi dipinti egli sembra fare spazio alla dimensione di un rumor bianco visivo capace di dire, tenere insieme e custodire nel silenzio quell’assoluto di cui si pone la questione. Leggendo ancora, sembra che l’assoluto del quale egli va in cerca ambisca a una emancipazione (questa, sì, rivoluzionaria) proprio dall’arte del rumore, da quel chiasso provocato dall’esistente (di cui lui è testimone oculare e uditivo) e dalle rappresentazioni protese alla narrazione di una realtà che proprio in quegli anni entra in crisi con la contestazione del sistema occidentale non più in grado di dare risposta ai bisogni delle nuove generazioni. Vissuto come sistema insopportabilmente autoritario, illiberale, oppressivo, violento e orientato alla guerra, il sistema si riflette anche nel “sistema dell’arte” (teorizzato da Achille Bonito Oliva cinque anni più tardi, nel 1972) che ormai “capitalizza” ogni ricerca pittorica, livellando la qualità della singolarità e della individualità sul piano inclinato della quantità, rappresentata dal valore di scambio dell’opera d’arte come merce.
LA CONTESTAZIONE DI CASTELLANI
A questo sistema dell’arte Castellani deciderà di disubbidire: il 3 luglio 1968 licenzia, con Enzo Mari (già figura di riferimento del design engagé e già vincitore di un primo Compasso d’oro nel 1967), un breve testo: due paginette in cui sono raccolti i punti dolenti della situazione critica internazionale, condannata come strumento di mistificazione e di abuso del linguaggio libero degli artisti a favore di un mercato dell’arte che impone la competizione tra gli artisti e una sacralizzazione dell’opera finalizzata alla sua mercificazione. Di conseguenza, i due indicano la Triennale di Milano, la Biennale di Venezia e documenta Kassel come tre epifenomeni di questa situazione problematica e invitano gli artisti a non parteciparvi, se non a precise condizioni, come, ad esempio, ottenere una sala per poter impostare con una personale il proprio discorso e non finire triturati nel discorso del curatore: e ciò perché “la ricerca è [per sua natura] libertaria”, spiega Castellani. Pochi mesi prima, nel maggio francese, Jean-Luc Godard, François Truffaut e i cineasti della Nouvelle Vague occupano con gli studenti il Grand Palais di Cannes e la Croisette come gesto di denuncia contro alcune scelte di Stato e contro la mercificazione del linguaggio cinematografico.
LA FINE DELL’UTOPIA
Passano appena due anni e, in un appunto inedito del 1970, Castellani dimostra di avere individuato chiaramente la fine dell’utopia e la sua stessa impossibilità. Ma ancora l’anno prima, nel gennaio del ’69, stende appunti per riflettere sulla possibilità dell’avanguardia artistica di rappresentare un avanzamento del pensiero rivoluzionario, dimostrando però già una certa stanchezza. Dichiara, infatti, che la maggior parte degli artisti sono morti, poiché destinati, anche contro il proprio volere, ad assistere anziché esistere: “Siamo morti” – scrive ‒ “più di Piero, di Pino e di Francesco per il semplice fatto che esistiamo passivamente, che assistiamo (esistere non è assistere)”. Il giudizio è inappellabile, si fa avanti la consapevolezza della disfatta: “Eccoci qua superstiti…“, scrive icasticamente.
L’ARTE SUPERA LE IDEE
Il libro riporta anche alcune immagini di opere fondamentali di Castellani, come Superficie bianca del 1977 della collezione di Lea Vergine, che nel 1974 dedica due mostre ad Azimuth. In essa, come nella prima Superficie nera del 1959, il “padre del minimalismo” (così lo vuole Donald Judd) applica alla tela un movimento uguale e contrario rispetto a quello operato da Lucio Fontana, ma in linea con lo spirito dei tre manifesti dello Spazialismo apparsi tra il 1946 e il 1951 e che potremmo sintetizzare con una loro frase: “Allo stile decorativo subentrano ritmi e volumi”.
Ma, mentre Fontana apre, con gesti repentini (tagli e buchi), un contatto diretto con lo spazio inerte e impercettibile che giace dietro la tela (quasi una condizione di possibilità), Castellani progetta, utilizzando materiali esclusivamente pittorici e seguendo matematiche “progressioni” (che hanno per lui il pregio di essere impersonali, inespressive e allo stesso tempo concrete), reticoli di estroflessioni puntiformi che portano in primo piano quello stesso spazio ma in forma di ritmo e di luce. Ciò che giace dietro alla tela emerge sulla pelle integra del quadro, inteso come oggetto puro, autonomo ed emancipato da quella storia che lo vede legato alla rappresentazione di altro da sé.
VERSO L’UTOPIA
Volendo approfondire, ecco l’utopia di Castellani: emancipare l’opera da ogni riferimento extra-artistico cercando una specificità dell’opera all’interno di se stessa che la renda autonoma, capace di strutturarsi su processualità proprie e di riferirsi soltanto a se stessa: quasi un oggetto hegeliano, un campo di forze in grado di alimentare una dialettica attiva ma non superante, non oltrepassante verso un nuovo stadio dell’essere (vedi la filosofia) che ne decreti la morte. Sono ragionamenti, questi, che si evincono più da parole non dette che da posizioni teoriche espresse, valutando però che Castellani interpreta l’utopia, in arte, come uno spazio sempre aperto e sempre nuovamente richiuso su se stesso, in una oscillazione in-significante che, utopicamente ma anche percettivamente (ecco la superiorità dell’arte sul concetto disincarnato), sappia mantenere aperta e problematica la questione del rapporto tra opera e significato, dentro un orizzonte di senso che vede prevalere l’opera, laddove ad esempio in Arthur C. Danto (che proprio nel 1964 inizia la sua ventennale riflessione sui Brillo Box di Warhol) a prevalere è il significato sull’opera, con la conseguente hegeliana dissoluzione dell’arte nella filosofia e la sacralizzazione-mercificazione (per dirla con Castellani) di un’arte “liberata” e a “uso e consumo” delle società tardo-capitaliste e post-storiche.
Il libro, nel suo incedere per assenze, puntini di sospensione, brevità inconsuete e riflessioni icastiche, si pone più come una poesia della teoria d’arte che come un’analitica, nella quale sono soliti indugiare molti artisti che scrivono. Anche questo sembra un segno inconfondibile della dimensione autonoma nella quale si muove e prospera l’arte di Enrico Castellani.
‒ Nicola Davide Angerame
Enrico Castellani – Scritti (1958-2012)
Abscondita, Milano 2021
Pagg. 192, € 22
ISBN 8884168937
www.electa.it
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