Di fronte al vuoto di senso del dolore che infierisce su un innocente resta solo lo strazio. Nessuna religione ha mai saputo dare una risposta, anche solo sommaria, utile o in qualche modo accettabile al male esistente nel mondo.
Il tentativo più coerente di preservare il Dio “buono” dalla presenza del male gratuito e non provocato lo ha fatto – quasi due secoli dopo i farfugliamenti sortiti dal Concilio di Trento – un laico, Leibniz, che nel 1710 pubblicava i Saggi di teodicea sulla bontà di Dio, la libertà dell’uomo e l’origine del male. Tuttavia, a chi ha fatto esperienza di un reparto di oncologia infantile, lo sforzo non può che apparire vano.
IL SAGGIO DI BYUNG-CHUL HAN
Al tomo di quasi seicento pagine di Leibniz si affiancano ora le ottanta paginette di un filosofo oggi molto ascoltato: il coreano-tedesco Byung-Chul Han, che, ne La società senza dolore (Einaudi, 2021), ne ribalta la prospettiva. Appoggiandosi allo Heiddegger de Gli inni di Hölderin, Han affronta la questione senza mezzi termini, non cerca inutili giustificazioni, al contrario:
“Il dolore è un dono”, è “la via per la formazione dialettica dello spirito”; di più: “Il dolore acuisce la percezione di sé. Contorna il sé. Disegna i suoi contorni”. Per converso, è la società senza dolore (la nostra), irrorata da un’onnipresente farmacopea anestetizzante il corpo come lo spirito, a essere messa sotto accusa: è una società crepuscolare, che forse un giorno sarà costretta a raggiungere l’immortalità del singolo, ma al prezzo della sua stessa non-vita.
Difficile anche in questo caso, per chi ha ad esempio affrontato l’esperienza – negli scorsi mesi divenuta drammaticamente comune – di una terapia intensiva, simpatizzare con una tesi del genere.
“L’artista contemporaneo, a suo dire, avrebbe del tutto isolato il dolore dalla sua fantasia estetica, relegandolo a una questione di mera tecnica medica”.
E tuttavia, la lettura di questo volumetto risulta fortemente suggestiva. Secondo Han, caratteristica tutta contemporanea è la perdita di ogni ordine simbolico del dolore, divenuto di conseguenza solo un disturbo. Ma non è sempre stato così: le società premoderne mantenevano una relazione intima con il dolore. La festa cupa del martirio veniva magnificata da sontuose messe in scena, con i corpi martoriati esibiti come insegne del potere: dal vivo o ritratti in affreschi, pale d’altare e sculture.
Più tardi, nel passaggio dalla società “dei martiri” a quella della disciplina necessaria alla produzione industriale, il rapporto con il dolore cambia, il suo ordine simbolico si trasforma. Il corpo straziato diviene “eroico”: è attrezzato a ricevere dolore per rispondere a un comando esterno che è in grado di impiegarlo e persino sacrificarlo in fabbrica o in battaglia. Questo almeno accadeva sino alla metà dello scorso secolo sotto l’egida di nazionalismi e fascismi di ogni sorta.
È solo nell’epoca post-industriale e post-eroica che il corpo perde definitivamente la sua funzione tanto di avamposto che di mezzo di produzione. L’intera narrazione cristiana l’abbandona e il dolore, privato di un qualsiasi significato, diventa inaccettabile, del tutto insopportabile. Non che sia svanita ogni forma di controllo, ma si tratta di nuove forme smart che si esprimono con Sii felice e Sii libero, non più con Sii obbediente. L’illimitata permissività attuale si costruisce utilizzando diversity, community, sharing. La nuova società palliativa ha depoliticizzato il dolore (e quindi ogni forma di ribellione) medicalizzandolo e privatizzandolo. Chi soffre è solo vittima di un corpo stanco che va aiutato a ritrovare la sua forma performante. Alla ribellione che sempre il dolore provoca, l’individuo sostituisce tuttalpiù la depressione.
DOLORE E ARTE
C’è un’ultima affermazione su cui vale la pena di riflettere. Nel capitolo intitolato Poetica del dolore, Han contrappone le figure di Kafka, Proust, Schubert e Nietzsche, per cui il dolore è parte costituente della creatività, al prototipo (non si sa quanto reale) dell’artista contemporaneo, che – a suo dire – avrebbe del tutto isolato il dolore dalla sua fantasia estetica, relegandolo a una questione di mera tecnica medica. Nella società palliativa vale solo la prosa della compiacenza, dove l’Uguale incontra l’Uguale in una vorticosa accelerazione di like.
‒ Aldo Premoli
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #61
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Byung-Chul Han – La società senza dolore. Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite
Einaudi, Torino 2021
Pagg. 80, € 13
ISBN 9788806248673
www.einaudi.it
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