Qual è il ruolo della filosofia nel XXI secolo, anche e soprattutto a fronte di eventi drammatici ed epocali come disastri climatici e pandemie? È la domanda che attraversa l’ultimo libro di Marco Senaldi, filosofo e autore su Artribune Magazine della rubrica In fondo in fondo. Abbiamo dialogato con lui, per capire se l’arte ha un ruolo in tutto questo.
Nella primissima pagina del tuo libro Pensare oltre. Come la riflessione filosofica può aiutarci nell’epoca della pandemia (Piemme, 2021) affermi: “Rendere visibile il contesto in cui siamo immersi senza saperlo, ecco: questo potrebbe essere un primo, anche se all’apparenza modesto, impegno filosofico” (p. 5). Con questa frase, solo in apparenza modesta, stai prendendo posizione in un dibattito secolare che possiamo chiamare in tanti modi e che propongo di definire come quello fra genesi e struttura. Come scriveva lo Heidegger di Essere e Tempo, “non ‘è’ dato innanzi tutto, e non è mai dato, un soggetto senza mondo” (§ 25). Poi però succede che tanti instant book post-pandemici scritti da filosofi anche non di primo pelo (penso ad esempio a Pier Aldo Rovatti) abbiano tramutato questa contestualità, questa storicità in chiacchiera da bar. Vengo alla domanda: come riesce un filosofo a essere calato nel contesto senza però limitarsi ad ammantare di intellettualità riflessioni tutto sommato banali?
Sì, genesi e struttura è una opposizione affascinante – una dialettica, diciamo. Mi fa venire alla mente il libro di Jean Hyppolite, uno dei maestri di Deleuze, che si intitolava Genesi e struttura della ‘Fenomenologia dello Spirito’ di Hegel (1946) ed è forse uno dei più elaborati e catastrofici fraintendimenti della filosofia hegeliana, e in particolare della Fenomenologia (1807) – soprattutto se messo a confronto con l’opera del suo predecessore, cioè le Lezioni sulla ‘Fenomenologia dello Spirito’ di Alexandre Kojève (alias Koževnikof), quel celebre seminario a cui parteciparono, tra il 1933 e il 1939, i personaggi più vari, da Lacan a Breton a Duchamp.
Qual è esattamente la catastrofe innescata da Hyppolite?
Il suo errore capitale consiste nel prendere la struttura per genesi, cioè nel cercare disperatamente dentro Hegel un qualche contenuto (che lui, da esistenzialista, trova nel singolo individuo) quando invece tutta l’opera hegeliana è essenzialmente un incessante arabesco di cornici di senso che inconsapevolmente cadono una preda dell’altra, finché si scopre che il disegno centrale altro non era che il vertiginoso insieme di queste cornici – ovvero, per dirla con Hegel stesso, “una doppia galleria di immagini delle quali l’una è il riflesso dell’altra”…
…e tornando alla pandemia?
Il fatto che i filosofi prendano parola sull’attuale crisi pandemica mi pare un’ottima cosa, perché vuol dire che non si tratta di un banale episodio di cronaca, ma di un evento epocale. Purtroppo, a volte, scadono nella chiacchiera – non per scarso impegno, però, ma piuttosto per eccesso di impegno: tutti vorrebbero dire la loro, proporre progetti, improvvisarsi grandi statisti – e questa è proprio la “chiacchiera” odierna (diversa quindi da quella heideggeriana), che “salta” il contesto, i presupposti formali, le cornici trascendentali di senso, su cui invece ci si sarebbe dovuti soffermare. Pensiamo anche solo al rapporto formale fra “problema” e “soluzione”: se ci si fa caso, oggi la stragrande maggioranza dei nostri problemi è creata da fenomeni (dai pesticidi all’automobile, dalla plastica alla pandemia stessa) che inizialmente furono concepiti come meravigliose “soluzioni” di altrettanti problemi precedenti. Non è questo proprio il caso della hegeliana “doppia galleria di immagini che sono una il riflesso dell’altra”?
LA QUESTIONE DELLE FIERE D’ARTE
Questa dialettica perversa fra problema e soluzione (con le soluzioni che diventano altri problemi) mi fa venire in mente parecchi esempi nel cosiddetto “sistema dell’arte”. Per dirne una, le fiere: nate per dar modo agli artisti e alle gallerie di far conoscere il proprio lavoro in ambiti geografici allora meno facilmente raggiungibili, sono diventate – almeno fino alla pandemia – delle fagocitatrici del lavoro di gallerie e artisti. Detta semplicemente, si lavora(va) per le fiere e non viceversa. A tuo avviso, questa dinamica è ravvisabile anche in alcuni passaggi della storia dell’arte?
Effettivamente questa dialettica tra soluzione e problema ha qualcosa di perverso. Forse il discorso andrebbe allargato non solo alle fiere d’arte, croce e delizia di galleristi, collezionisti e semplici curiosi, ma anche agli spazi espositivi, alle istituzioni artistiche, ai musei… Questi ultimi, ad esempio, erano nati come “soluzione” rivoluzionaria all’elitarismo delle collezioni private. Ma, nel momento in cui ogni Paese che si rispetti deve dotarsi di un Museo Nazionale, ecco che si fa di tutto per dargli prestigio: si rubano le opere (vedi il bellissimo saggio di Paul Wescher, I furti d’arte. Napoleone e la nascita del Louvre, Einaudi 1988), si autenticano dei falsi, si restaurano pesantemente opere malandate e infine si enfatizzano i cosiddetti “capolavori”. Il risultato è una fatale sparizione progressiva di ciò che realmente meriteremmo di poter vedere. Alle fiere d’arte accade un po’ l’inverso – l’impedimento è dato dall’eccesso di visibilità che colloca tutto sulla stessa linea, in un fuoco di fila che alla fine lascia completamente esausti. Quando un grande della moda (e degli eventi) come Giorgio Armani dice che il ritmo degli appuntamenti è insostenibile, bisognerebbe ascoltarlo. Anche qui, il Covid aveva lanciato un segnale: ha davvero senso dare vita a iniziative progettate in modo tale che sia impossibile partecipare a tutti gli eventi in programma – andando a creare una nube di relazioni, che poi si rivela tossica e produce, come effetto collaterale, un blocco totale e tombale? Non sarebbe il caso di selezionare e anche di rarefare un po’ il panorama? Certo – ma chi comincia?
Quali alternative immagini?
Occorre fare uno sforzo, e provare a osservare le cose anche dall’altro lato, dato che talvolta sono i problemi a rivelarsi viceversa risolutivi. Davvero non si possono inventare percorsi alternativi? Per esempio, andare al Louvre per vedere una sola opera (la mia favorita è il Ritratto incompiuto del generale Bonaparte di David, completamente negletto al secondo piano). Oppure, perché non mettere a bella posta qualche ostacolo allo YouPorn delle fiere – magari trasformandole, che ne so, in una caccia al tesoro? Per esempio: chi sa dove si trova la Merda d’artista di Manzoni, esemplare n° 1? (Io non ve lo dirò nemmeno sotto tortura, ma quando lo scoprirete avrete semplicemente un’epifania.)
DIALETTICA E FUTURO
Continuo a pensare a questo intreccio fra problemi e soluzioni, un po’ come nel pharmakon, medicina e veleno nella stessa sostanza, ma non al con-tempo. Tu hai giustamente allargato il discorso all’intero campo culturale. E da lì potremmo spingerci fino al campo socio-culturale e poi sociale. Penso alla spirale soffocante a cui portano ad esempio i beni posizionali, anche e soprattutto quando sono culturali: nati per potersi distinguere, portano a un tale impoverimento, proprio economico, che alla fine si trasformano in cause di dissoluzione nella massa. Lo spiega bene Raffaele Alberto Ventura in Teoria della classe disagiata (minimum fax, 2017). Sempre Ventura cita Ivan Illich e il concetto di “iatrogenesi sociale“: “Quando un’attività strumentale supera una certa soglia definita dalla sua scala specifica, dapprima si rivolge contro il proprio scopo, poi minaccia di distruggere l’intero corpo sociale“. Troppo catastrofico?
Senza dubbio, il testo archetipo da cui deriva quello di Ventura, cioè la Teoria della classe agiata (1899) di quel genio di Thorstein Veblen, già conduce l’analisi marxista a un piano inaspettato, che lui definisce “valore simbolico“. Quello che però per Veblen era un caso eccezionale – la merce-simbolo – all’interno di un panorama determinato dal valore di scambio, è lentamente diventato la norma. Di fatto, oggi, il valore di tutti i beni, anche di quelli più basilari come il petrolio, che ci aspetteremmo direttamente legato all’uso, è esposto a una fluttuazione simbolica. In altre parole: il portato simbolico dei combustibili fossili è ormai così ingombrante da risultare impresentabile; e non è un caso che da gennaio 2020 The Guardian abbia deciso di non accettare più pubblicità di aziende petrolifere. “Ma questa è una magnifica notizia!” – Sì… forse. La buona notizia però potrebbe avere anche un retroscena inquietante: significa che siamo insensibilmente divenuti servi di un'”ideologia” che mette al primo posto quella che Pierre Bourdieu definiva la “distinzione” e, in nome di essa, siamo pronti a sacrificare letteralmente la vita. Ed è su questo altare che si immola la “classe disagiata” – che non è povera tout-court, anzi: è così ricca di cultura e simboli da finire stritolata sotto questo “immaginario”, di cui lei stessa è la più entusiasta sostenitrice… Dai poveri giovinastri di Goldoni che ne Le smanie per la villeggiatura (1761) fanno follie per una camicia di pizzo, agli impiegati di Gogol che muoiono per un cappotto (1842), passando per i personaggi pirandelliani che non si riconoscono nella loro stessa immagine (Si gira, 1916), si arriva alla coppia di artisti sempre sull'”orlo dell’(in)successo” di Achille e la tartaruga (2008), il film di Takeshi Kitano che, come dice il titolo, è la storia di un’affermazione artistica, cioè simbolica, a cui ci si avvicina sempre, ma che, come la tartaruga di Zenone, risulta sempre irraggiungibile.
Esiste una exit strategy?
La dialettica insegna che – almeno sul lungo periodo – un duro servaggio non è senza conseguenze, né per il servo, e nemmeno per chi lo domina. Se oggi l’espressione di questo dominio sono alcuni sistemi elitari, come quello dei media, quello universitario, o quello dell’arte, potrebbe anche succedere che queste turris eburneae, che sono effettivamente inespugnabili, si rivelino un bel giorno semplicemente insensate. La didattica cosiddetta “a distanza” (a sua volta un effetto collaterale della pandemia) avrà avuto anche dei limiti, certo, ma ha dimostrato che il sapere potrebbe essere erogato non solo quasi gratuitamente, ma anche ubiquitariamente e in assenza di ogni istituzione. Del resto, i “segni del tempo” sono già con noi: non so se conosci Kahn Academy, una piattaforma online di corsi universitari completamente gratuita (al momento conta 42 milioni di iscritti ed è accessibile in 36 lingue diverse), oppure quel museo “a web aperto” che è Ubuweb di Kenneth Goldsmith – o quell’archivio che fu UndoNet di Premiata Ditta… È in “eventi dialettici” di questo genere che dovremmo riconoscere gli antidoti a quel catastrofismo a cui del resto – ahimè – è così difficile sottrarsi.
PAROLA D’ORDINE: OBVERSIONE
Tutti questi esempi illustrano anche una questione generale: la dialettica, almeno quella intesa in maniera più pacificatoria, non è sufficiente a comprendere fenomeni tanto complessi. Ci potrebbe venire in aiuto uno strumento “logico” più avanzato come l’obversione, a cui hai dedicato il libro omonimo (Postmedia Books, 2020)?
Mah, non saprei. Pensare davvero dialetticamente credo sia la cosa più innaturale, e quindi più difficile, anche per menti culturalmente educate. Certo è che se scienziati come Giulio Natta (Nobel 1963, scopritore dei polimeri, cioè della plastica) avessero ragionato impiegando, non dico Hegel, ma almeno un barlume di dialettica, forse oggi non saremmo alle prese con eco-catastrofi come le Plastic Island. Subito dopo il legittimo orgoglio per aver scoperto un materiale artificiale a basso costo e praticamente indistruttibile (“Indistruttibile! Fantastico!!”) avrebbero magari potuto farsi la domanda: “Indistruttibile!? Mio Dio, e quindi, quando un oggetto di plastica cesserà di essere utile, che cosa diavolo ce ne faremo?“. Ma, naturalmente, è il genere di interrogativi che ancor oggi la maggior parte della gente non si pone, o non vuole affatto porsi. Il risultato di questo “schivare” la dialettica è però esso stesso dialettico – io ho pensato di battezzarlo “obversione” perché mi pare che molti fenomeni odierni siano caratterizzati da questo genere di “negazione di una negazione”.
La stessa crisi pandemica sembra essere un fenomeno obverso: infatti, se dobbiamo credere alla tesi dell’origine artificiale del virus, occorre ricordare che esso veniva studiato (o implementato) per evitare una nuova pandemia; se invece sposiamo la tesi dell’origine naturale, il risultato non cambia, dato che esso deriverebbe da specie animali che l’antropizzazione forzata è andata a disturbare; ma perché mai gli umani avrebbero ignobilmente invaso territori selvaggi se non in nome di cause nobilissime, come progresso, benessere, produttività? Torniamo alla questione per cui la maggior parte dei problemi che ci affliggono derivano da fenomeni che un tempo nacquero come soluzioni – e questo vale per molte cose, dal motore a scoppio all’energia nucleare, e forse anche per sistemi ancor più complessi, come la democrazia o l’arte contemporanea. In ogni caso, provare a pensare le cose a questo modo è già un passo avanti rispetto a considerarle come semplici opposti, del genere “Ubi malum ibi remedium”, cioè “Questo il male, quella la cura“. Se infatti la cura stessa può diventare il male (è l’idea di Illich in Nemesi medica), allora è anche inevitabile che nel cuore stesso del male si annidi una possibile cura. La crisi pandemica ha ucciso molte persone e ha frenato l’economia; però sono bastati tre mesi di lockdown per capire che è possibile dimezzare l’inquinamento atmosferico. Questo sì è un fatto degno di attenzione. E i governi mondiali cosa fanno? Propugnano fieramente un’economia “carbon neutral”… entro il 2050! Complimenti. Sembra quasi di stare nella barzelletta dell’uomo che parla a Dio: “Che cos’è un milione di anni per te, Dio mio? – Un minuto, figlio mio. – E dunque che cos’è un milione di dollari per te, mio Signore? – Un centesimo, figlio mio. – Scusa Dio… me lo daresti un centesimo? – Ma certo caro! Dammi solo un minuto…”.
Per “obversione” quindi è da intendere sia l’attuale condizione obversa che la sua presa di coscienza: alcuni artisti contemporanei (Bruce Nauman, Lars Von Trier, Jonathan Franzen) ne danno testimonianza. Ma la mia eroina preferita è Kim Cobb, una studiosa di cambiamenti climatici che, dopo aver viaggiato in lungo e in largo per partecipare a conferenze sul clima, si è resa conto che la sua impronta ecologica influiva sui cambiamenti climatici – ovvero, che lei stessa, nella ricerca della soluzione, era già parte del problema. Non è molto? Certo – ma, oggi, un sofferto millimetro nella giusta direzione credo sia meglio che uno splendido salto triplo… verso l’abisso.
ARTISTI E NFT
In Pensare oltre, a proposito degli eventuali insegnamenti impartiti dalla pandemia, inviti a coniugare archeologismo e prospettivismo. Oltre agli artisti – intendendo questo termine non limitatamente alle arti visive – che hai appena citato (Nauman, Von Trier, Franzen), quali sono secondo te le ricerche più stimolanti prodotte negli ultimi anni e che vanno in questa direzione?
Effettivamente gli artisti più avvincenti in questo momento sono proprio quelli che stanno tentando di coniugare sguardo sul passato e visione del futuro in un’unica proposta discorsiva… È quella che Christe Ross, in The Past is the Present; It’s the Future Too. The Temporal Turn in Contemporary Art (2012), ha definito “la svolta temporale“. Leonardo Pivi ad esempio ha realizzato una mostra riuscendo ad accostare le proprie opere a un autentico mosaico del II secolo d.C.; i Masbedo hanno lavorato sulla memoria della città di Palermo (Welcome Palermo, 2019) e hanno in progetto un’articolata operazione sul rapporto cinema-memoria-presente; mentre Luigi Presicce, con le sue Storie della Vera Croce (2021), ha dimostrato come si possano coniugare video e performance toccando il nodo scoperto del nostro “ateismo cristiano”. Sono solo alcuni esempi, d’accordo – ma segnano un cammino, una via crucis quasi, di paziente emancipazione dal bullismo spettacolarista delle megamacchine espositive delle artistar. Che, in sé, sono spesso comunque godibili, ma a cui non possiamo regalare la licenza di impadronirsi di tutto il territorio creativo. È assolutamente vitale che sussistano delle alternative, un po’ come, negli Anni Sessanta, era il cinema d’autore rispetto al cinema hollywoodiano o, meglio ancora, il cinema d’artista rispetto al cinema mainstream.
Stesso medium, esiti molto differenti. A proposito, cosa ne pensi degli NFT? I più critici si limitano a dire che il problema consiste nel fatto che il medium non è ancora diventato il messaggio, ovvero che si tratta di mere applicazioni tecnico-tecnologiche a format creativi già esistenti. La domanda è: gli NFT sono davvero un medium?
Rispondere è difficile – ma se un medium è un dispositivo specifico che riesce a ri-mediare dentro di sé elementi che arrivano da altre fonti, allora sì, gli NFT, e in genere i new media su cui sono veicolati, sono un medium. Lo scenario è naturalmente in divenire, ma personaggi come Beeple non possono essere sottovalutati – basterebbe guardare il suo fenomenale video Kill Your Co-Workers di Flying Lotus (2010) per capirlo. Beeple dunque è il nuovo Koons? Forse. Quello che mi pare abbastanza sicuro (lo dico avendo una certa età) è che, “come tutte le più belle cose“, anche l’avventura appena iniziata degli NFT non durerà molto – almeno in questa forma liberatoria e semi-anarchica. Abbiamo già visto fenomeni simili, come i social media, e prima ancora il video, trasformarsi rispettivamente in piattaforme di “strutturazione del dissenso” a pagamento, oppure in video-guarnizioni per marchi multinazionali della moda “in cerca d’autore”. Ciò non toglie che, almeno nella loro fase aurorale, tutti i media e, forse, tutte le esperienze estetiche umane, conducano fatalmente con sé una “promessa di felicità” la quale, anche se destinata a rimanere inevasa, costituisce un universale e imprescindibile orizzonte di senso.
‒ Marco Enrico Giacomelli
Marco Senaldi – Pensare oltre. Come la riflessione filosofica può aiutarci nell’epoca della pandemia
Piemme Edizioni, Milano 2021
Pagg. 171, € 17,50
ISBN 9788856679717
www.edizpiemme.it
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