30 anni di American Psycho, il romanzo capolavoro di Bret Easton Ellis
L’America dello yuppismo sfrenato, dove si appare senza essere e si annega la noia in orge di sesso, cocaina e denaro. Usciva trent’anni fa “American Psycho” di Bret Easton Ellis, un libro profetico sui destini di una società in disfacimento. Il lato oscuro del sogno americano e di tutta l’umanità moderna
Ambientato fra la primavera del 1988 e il dicembre del 1989, alla fine dell’Amministrazione Reagan e nel momento della caduta dei prezzi petroliferi che avrebbe innescato la crisi iracheno-kuwaitiana, il romanzo racconta un’America che se dai tempi del Far West era economicamente progredita, manteneva però le stesse ristrettezze mentali: materialismo, egoismo, sessismo, razzismo, omofobia erano infatti ancora radicati un secolo e mezzo più tardi, e del resto lo sono ancora oggi. Fra ristoranti e club alla moda, ipocrisia e opportunismo, Bret Easton Ellis (Los Angeles, 1964) traccia un’allegoria dell’Inferno dantesco nella società contemporanea (memorabile l’incipit “Lasciate ogni speranza voi ch’entrate”, paragonabile per intensità al “Nunc et in hora mortis nostrae” del Gattopardo), dove la sofferenza interiore è ormai endemica. La parabola di Patrick Bateman, allucinato protagonista del romanzo, è l’ideale prosecuzione di quella di Dorian Gray e della Lost Generation di Fitzgerald, con il personaggio di Ellis che prosegue nella discesa agli inferi iniziata da quello di Wilde; la questione estetica non è più soltanto una questione di appagamento dei sensi e dell’intelletto, ma diventa un mezzo di sopraffazione dell’altro, perché anche la violenza ha paradossalmente una sua “immagine”, sia essa fisica o verbale. E le sconvolgenti scene di omicidi e cannibalismo (frutto della fantasia malata di Bateman) sono la perfetta metafora di una società che stava (e sta) divorando se stessa attraverso un irresponsabile spreco di risorse, ma anche la banalizzazione dei rapporti umani e la mitizzazione del consumismo. Sullo sfondo, una città decadente ma non priva di fascino, con strade luminose e angoletti sordidi e bui, un dostoevskiano sottosuolo dove sfogare personalità irrimediabilmente alienate.
L’OSSESSIONE DELL’IMMAGINE
A immortalare gli Anni Ottanta nel loro aspetto più inquietante e visionario, rispondendo anche alle atmosfere di American Psycho, l’artista David Onica, paragonabile a un Andy Warhol in sedicesimo che raggiunse l’apice della fama appunto alla fine del decennio, e adesso produce in serie accessori firmati e stampe dei suoi dipinti. Più abile (o forse più astuto) di lui, Jeff Koons si è invece assicurato una carriera più duratura. Ma questa è un’altra storia, anche perché è proprio Onica l’artista preferito dell’allucinato Bateman, che si vanta di possedere una sua tela da 50mila dollari, Sunrise with broken plates (in realtà ne vale 20mila); ostentandola, questo yuppie megalomane riduce l’arte a mero “status symbol”, oggetto di potere per umiliare l’altro. Niente di più lontano dalla vera essenza dell’arte. Ma Onica, con Eric Fischl e Julian Schnabel (anch’essi citati qua e là nel romanzo), con i suoi eccessi di colori e dimensioni, è riuscito a descrivere quell’incubo post-moderno che furono gli Anni Ottanta, ne ha rispecchiato la superficialità, l’alienazione e il latente istinto violento.
Patrick Bateman, come chiarisce Ellis citando Dostoevskij, è l’inevitabile conseguenza degli usi e costumi di una società degenerata, che ostentava pose, atteggiamenti, espressioni, destinata a degenerare ancora. Infatti, quell’ossessione per la propria immagine da lanciare contro gli altri, quella voglia malata di stupire per schiacciare gli altri, che negli Anni Ottanta era appannaggio dei cosiddetti ricchi, è stata “democratizzata” e ingigantita dalla nascita di piattaforme virtuali come Facebook o Instagram, dove ognuno può raccontarsi gratuitamente; ciò che un tempo erano le pagine scandalistiche dei quotidiani, oggi è diventato lo spazio virtuale, dove si sa tutto di tutti, anche di chi famoso non è ma è arrivato a pensare di esserlo. Una distorsione di prospettiva che può anche risultare fatale.
LA NORMALITÀ DELL’INFERNO
L’inferno siamo noi e sono gli altri, e dall’inferno non c’è uscita, sia che ci si trovi nel deserto meridionale del Sudan arso dal sole e spazzato dal vento, sia che ci si trovi in un attico dell’Upper West Side; ovunque ci si chiede “perché”. La vita scorre come un filmato a ripetizione, l’umanità ha perso se stessa in un caos di solitudine e materialismo, a poco servono le serate nei club per placare angosce di cui nessuno sa più riconoscere l’origine.
Pur aspramente criticato dalle solite frange conservatrici e puritane che negli USA non mancano mai di far sentire la loro voce, il romanzo ha un’incontestabile onestà intellettuale scavando, anche per via di metafora, nelle coscienze dei finanzieri che sotto Reagan (ma non solo), manovravano dietro le quinte. E gli effetti deleteri della cosiddetta “finanza creativa”, che si sono manifestati negli anni successivi, hanno avuto la loro genesi proprio in quegli anni. Oltre a Ellis, solo Oliver Stone, con il celebre Wall Street del 1987, aveva avvertito il pericolo. Sottilissime ma pungenti anche le critiche all’atteggiamento ipocrita della politica estera americana, in particolare in Africa. Caso raro, perché il mondo della cultura, generalmente, ha sempre giustamente puntato l’attenzione sulle problematiche umanitarie, tralasciandone però le cause politiche. Un’altra eccezione furono i Rolling Stones, ancora nel 1991, con il brano Highwire, esplicita denuncia degli interessi petroliferi statunitensi nell’area del Golfo Persico.
E ancora, nel suo romanzo Ellis ha intuito come la violenza sarebbe presto diventata normale parte della vita quotidiana, passivamente accettata e quasi giustificata. E il disperato tentativo finale di Bateman di fuggire da se stesso, di costruire una nuova vita, è fatalmente destinato a fallire. Un romanzo intelligente cui non mancano momenti di autentica, sofferta poesia, quasi leopardiana pietà per quella continua ricerca dell’uscita da quell’incubo che è diventata la vita.
– Niccolò Lucarelli
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